18 Novembre 2024
Il Quotidiano del Sud

Raccontare la madre in onore della figlia

di Franca Fortunato


Riportare in vita una madre, strapparla all’oblio della morte, raccontare di lei in onore della figlia, è un gesto di amore femminile per la madre. È quello che ha fatto la scrittrice Maria Rosa Cutrufelli col suo libro Maria Giudice. Vita folle e generosa di una pasionaria socialista (Neri Pozza 2024), scritto in onore della figlia Goliarda Sapienza, sua amica e compagna di scrittura, in ricorrenza quest’anno del centenario della nascita. È dal ricordo del gruppo di scrittrici femministe, tra cui Adele Cambria e Elena Gianini Belotti, di cui facevano parte entrambe, che l’autrice parte per introdurci nel racconto della vita straordinaria di Maria Giudice, vissuta tra la fine dell’Ottocento e la prima metà del Novecento. Una vita segnata dalla militanza politica, sindacale e giornalistica, dal carcere e dall’esilio. Una militanza vissuta a fianco degli operai e dei contadini, in particolare delle operaie e delle contadine, da segretaria della Camera del Lavoro di Voghera, Torino e Catania. Il racconto della sua vita si intreccia col contesto storico del suo/nostro tempo. Per Maria la politica non è «mestiere» o «voglia di comando», ma una visione del mondo e un accesso alla «sua personale libertà». Il partito, a cui si iscrive giovanissima, per lei non è solo una tessera, ma un modo di essere e «di agire in ciascuna circostanza della propria esistenza». E il giornale è «uno strumento politico» che unisce «i lavoratori dei campi, delle officine e quelli della penna» ma è convinta che è il socialismo «l’unica vera scuola». È una brava oratrice e le donne affollano i suoi incontri e conferenze per lo più clandestine. Non autorizzate. Nei rapporti delle prefetture è definita una «socialista intransigente». In carcere incontra Umberto Terracini e con Gramsci, compagno di partito, dirige il giornale “Grido del popolo”, organo dei socialisti piemontesi. Donna determinata, fiera, appassionata e anticonformista, Maria eredita la passione politica dal padre Ernesto che da ragazzo si arruolò nelle truppe di Garibaldi, e dal nonno che fu seguace di Mazzini e affiliato alla Carboneria. Dalla madre, Ernesta, eredita l’amore per la scrittura e per i poeti, classici e moderni, amore che trasmette alla figlia Goliarda. La madre la fa studiare e diventa maestra elementare. Insegna, ma per poco. Viene licenziata per condotta immorale, in quanto unita in “libera unione” con Carlo Civardi, prima, e Peppino Sapienza, poi, suoi compagni di vita e di lotta, perché madre di figlie/i fuori dal matrimonio e per le sue idee politiche e religiose. Motivi per cui sotto il fascismo la sua domanda di insegnare viene respinta. «L’amore è cosa così intima, così assoluta che il farne un atto pubblico, peggio ancora, ufficiale, è un profanarlo», scrive. Accetta come necessità, ma non per sé, il matrimonio civile perché «questa società, ingiusta e imprevidente, ancora non si crede in obbligo di provvedere ai nati di donna». Tiene comizi e conferenze non autorizzate contro la guerra e viene arrestata. «Prendi il fucile, gettalo per terra, vogliamo la pace, mai più la guerra» è il suo grido pacifista. La dittatura fascista la condanna all’isolamento con lo scioglimento dei partiti, dei sindacati e dei giornali d’opposizione. Il suo corpo si ribella, si ammala e finisce in una clinica per malattie mentali. Il compagno Sapienza entra nella Resistenza e la figlia Goliarda fa la staffetta. Con la fine della guerra Maria ritrova se stessa e con l’antica compagna Angelina Balabanoff riprende l’attività politica. Muore nella notte del 5 febbraio 1953, tra le braccia della figlia Goliarda. Al suo funerale Terracini, Saragat e Pertini e «un mare di garofani e compagni di ieri e di oggi». Dopo, per la figlia comincia «il lutto interminabile».


(Il Quotidiano del Sud, Rubrica “Io Donna”, 18 novembre 2024)

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