19 Novembre 2024
L’Osservatore Romano

Penna e pennello in felice simbiosi

di Gabriele Nicolò


Desta un brivido di inquietudine la lettera che Virginia Woolf scrive a Vanessa Bell nel marzo del 1941. «Ora sono certa — confessa — che sto nuovamente impazzendo. Come la prima volta, sento in continuazione le voci, e ora so che non ce la farò. Ho lottato, ma non ce la faccio più». È questa la missiva che chiude il prezioso libro Vanessa Bell, Virginia Woolf. Se vedi una luce danzare sull’acqua. Lettere tra sorelle. 1904-1941, a cura di Liliana Rampello (Milano, il Saggiatore, 2024, pagine 410, euro 35, traduzioni di Andrea Cane, Silvia Gariglio, Silvia Gianetti, Camillo Pennati e Sara Sullam). La corrispondenza, in gran parte inedita in Italia, abbraccia circa quarant’anni di vita di due donne che, in virtù di un sentito legame di sangue, condividono con slancio e senza diaframmi o comode circonlocuzioni fervide passioni e brucianti delusioni, successi letterari e tragedie private. Sullo sfondo di questo dramma umano, venato talora di tratti di commedia, si proietta l’eco delle due guerre mondiali, come a ricordare che il macrocosmo di queste sorelle non è un universo conchiuso, ma si innerva delle dinamiche, tumultuanti e complesse, di un mondo ben più vasto.

Virginia, scrittrice, è sempre stata cagionevole di salute: i suoi nervi sono labili e la dispongono a una depressione logorante e crescente. Ne è consapevole Vanessa, pittrice, che non si risparmia nel cercare di aiutare la sorella. Lo scambio di missive ha inizio quando le due donne hanno poco più di vent’anni. Quel terribile biglietto d’addio Virginia lo firmerà sulla soglia dei sessant’anni. «Le loro — rileva Rampello, la curatrice — sono lettere spontanee, ironiche, disinibite, scritte in una lingua scintillante da cui affiora tutta la grandezza e la fragilità di due personalità irripetibili, ma anche il brusio spregiudicato della cerchia di Bloomsbury». Si tratta, in sostanza, di un epistolario che si configura come la biografia di un rapporto umano indissolubile, come «qualcosa che è più della somma di due vite». È qualcosa che «sta tra due vite». In quel “tra” si specchia tutto il vulcanico fluire di pensieri e sentimenti che contribuisce a definire e a forgiare la personalità delle due sorelle.

Sia per Virginia che per Vanessa risulta inafferrabile la natura dell’esistere, la vita che palpita nel mondo umano, vegetale, animale. Ma se i quadri di Vanessa sono silenziosi, muti — e devono essere tali perché «la tela appesa al muro continua comunque a dire qualcosa di suo» —, Virginia ha invece bisogno delle parole, sebbene possano essere inadeguate. «Oh potersene restare in silenzio! Oh essere un artista!» lamenta.

La corrispondenza rivela anche un assiduo scavo interiore, alla ricerca di un’identità che sia stereotipata e data una volta per tutte. «Ormai — scrive Vanessa —, da quando ho capito che basta cambiare l’idea che si ha di sé trasformandosi in una specie di donna delle pulizie o in un barbone, per camminare indisturbati e vestiti di stracci o a piedi nudi, non ho più vergogna». E quindi, con lo spirito bizzarro e un po’ ribelle che le era proprio, aggiunge: «Non capisco perché si debba sempre ritenere necessaria la decenza, per non parlare dell’intelligenza, quando in effetti non si ha nessuna voglia di bazzicare persone decenti o intelligenti».

A proposito di una delle sue opere più note, Gita al faro, Virginia osserva che con questo romanzo non ha voluto dire «niente». Occorre «una linea centrale» che percorra il libro per tenere insieme il disegno. «Mi sono accorta che sentimenti di ogni genere si sarebbero accumulati lì dentro, ma ho evitato di elaborarli e ho confidato che la gente ne facesse il deposito delle proprie emozioni. E così è stato, e uno pensa che significhi una cosa, e un altro un’altra cosa. Non riesco a trattare il simbolismo se non in questo modo vago, generico. Se sia giusto o sbagliato non lo so, ma non appena mi spiegano il significato di una cosa, mi diventa odiosa». Parole, queste, illuminanti riguardo alla sua concezione della vita e al suo ideale di letteratura che, della vita, ambiva ad essere dignitosa e rispettosa espressione.

Un’espressione che si fa visione nell’ultima riga del romanzo, quando Lily Briscoe, spossata, nel mettere giù il pennello, si trova a pensare — mirabile epifania — che ha avuto una visione. Di conseguenza la pittrice, nello spazio di un fulmineo istante, traccia «una linea lì nel centro» della tela. Ma non è il quadro a essere descritto: a imporsi è l’esperienza visiva di una composizione che ha una sua specifica dimensione cognitiva e non ha un equivalente verbale. Ciò che la scrittrice ha scoperto — grazie alla pittura — è come scrivere la propria visione. Anche entro questa prospettiva di carattere narrativo s’inserisce il valore del reciproco rapporto fra le due sorelle sul piano professionale: c’è la scrittrice che dalla pittura mutua un linguaggio che le risulta funzionale alla manifestazione del suo sentire, e c’è la pittrice che riconosce nell’arte letteraria (come sottolineato da ella stessa in alcune missive) lo strumento cui attingere per «far parlare» la tela. Si consacra così la felice simbiosi tra penna e pennello.


(L’Osservatore Romano, 19 novembre 2024)

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