di Elena Stancanelli*
In occasione dell’uscita del film tratto dal suo libro più celebre, Leggere Lolita a Teheran, Azar Nafisi ha discusso con Elena Stancanelli di letteratura, democrazia e del suo paese, l’Iran, dove le donne lottano ancora contro il regime.
Ho intervistato Azar Nafisi in occasione della presentazione alla Festa del Cinema di Roma del film tratto da Leggere Lolita a Teheran, con la regia di Eran Riklis. Israeliano, noto soprattutto per La sposa siriana, Il giardino di limoni sul conflitto isarelo-palestinese e Il responsabile delle risorse umane, quest’ultimo tratto da un romanzo di Abraham Yehoshua.
Azar Nafisi è nata a Teheran nel 1948, ma dal 1997 vive negli Stati Uniti. In Leggere Lolita a Teheran racconta la sua storia, quella di un insegnante di letteratura inglese che, per aggirare i divieti imposti dal regime degli ayatollah, fa lezione a sette studentesse nella sua casa. Il libro è diviso in quattro parti, ognuna dedicata a un autore che accompagna il percorso di conoscenza ed emancipazione delle ragazze, il Nabokov di Lolita, il Fitzgerald de Il grande Gatsby, Henry James e Jane Austen. Il romanzo, pubblicato in Italia da Adelphi nel 2003, ebbe un successo enorme. Tradotto in più di trenta lingue è diventato, anche, un manifesto di libertà delle donne contro l’oppressione del regime islamico.
Azar Nafisi è una donna di smisurata gentilezza, parla un inglese piano e comprensibile e risponde a ogni domanda con cura e senza affettazione. È un’interlocutrice perfetta, non fa pesare la sua celebrità e nasconde la stanchezza che certamente deve provare. È andata bene, ho pensato tornando a casa e mi sono messa a sbobinare le sue parole. Ascoltandole, da sola, con la cuffia che mi isolava dai rumori, mi sono subito resa conto che, stregata dal suo sguardo e dalla mia emozione, non avevo capito niente di quello che stava cercando di dirmi. Avevo compreso il suo inglese, le sue frasi eleganti, ma non avevo colto il senso profondo, che invece era lì, in quella voce registrata, in quel modo pacato ma implacabile di mandare avanti la conversazione. E mi sono commossa, travolta dalla sua precisione e profondità, così diversa dalla mia, nostra, distrazione. Dalla mia, nostra, idea un po’ frivola e un po’ narcisa di letteratura. Mi sono dovuta fermare nella trascrizione, e ascoltare soltanto la sua voce, fino alla fine, per rispetto della sua forza e del suo coraggio. Azar Nafisi era lì con me, seduta al tavolino di un hotel del centro di Roma, a rispondere con garbo alle mie domande, e sarà in giro per il mondo, accanto a questo film, a rispondere ad altre domande, sempre con garbo, per un’unica ragione: quelle ragazze. Le ragazze che leggevano Lolita a Teheran vent’anni fa e alle quali i “mostri”, come li chiama lei, hanno tolto la possibilità di vivere come desideravano, hanno imposto il velo e mille divieti liberticidi. Le ragazze che prima dell’avvento della Repubblica islamica camminavano libere per strada, con le minigonne e i capelli al vento, che frequentavano i caffè, le librerie che vendevano i libri inglesi, le ragazze che bevevano, cantavano, ballavano e di colpo, per ragioni incomprensibili, non potevano più farlo. Le ragazze che non si sono mai arrese e scendono ancora per strada a combattere per la loro esistenza, contro la follia degli ayatollah urlando: Donna, vita, libertà! È soprattutto per loro che Nafisi era lì, ai tavolini di quel bar con me. Anche per questo noi, assieme a quelle ragazze, le dobbiamo un’infinita gratitudine.
Elena Stancanelli: Ha visto il film ieri?
Azir Nafasi: Ho visto il film, sì. Confesso che ero molto preoccupata. Anche perché in questi anni sono diventata molto amica del regista, Eran Riklis, e sarebbe stato davvero spiacevole dovergli dire che non mi piaceva. Ma non è successo. Alcune delle cose che accadono a Golshifteh Farahani (N.d.A.: l’attrice, bravissima, che interpreta Azar Nafisi, l’insegnante che si ritira dall’università quando non riesce più a sopportare l’insensatezza di indossare velo e abiti neri, la giovane donna che alla fine, decisa a vivere la vita che vuole vivere, deciderà di lasciare l’Iran per trasferirsi negli Stati Uniti) non sono accadute, o almeno non sono accadute a me, ma quello che il regista è riuscito a intercettare è un sentimento. Guardando il film ho provato qualcosa di simile allo stupore, come se avessi dimenticato molte delle cose che avevo raccontato. Per esempio che Sanaz, (N.d.A.: interpretata da Zahra Amir Ebrahimi, attrice e anche regista del film Tatami, presentato quest’anno a Venezia nella sezione Orizzonti e molto apprezzato da critica e pubblico) avesse subìto in carcere il test di verginità. Non che lo avessi dimenticato, ma non era più presente nei miei pensieri. Direi che la cosa più affascinante del film, per me, è che il regista sia stato in grado di restituire l’emozione dietro gli accadimenti. Poco importa che tutto sia vero ed esatto rispetto alla mia vita, ma è vero rispetto allo spirito del libro. Mi sono tornate alla memoria tante cose, come se fossi tornata a quegli anni. Dopo due giorni, sono ancora sotto quell’effetto: è stato molto forte, quasi scioccante.
ES: Sono passati vent’anni, il mondo è cambiato, ho avuto la sensazione che il film, per dire quello che il libro aveva detto con leggerezza, dovesse gridare di più. Presentare la violenza in maniera più esplicita. Negli occhi delle attrici, tutte bravissime, ho visto un’angoscia che nel libro mi sembrava più nascosta.
AN: Il mondo è cambiato, ma la violenza è la stessa. La differenza è che le donne iraniane adesso, rispetto a prima, sono più forti. Ma per queste ragazze, per Sanaz, per Azin, per Nasrin, le cose non sono cambiate. Vivono ancora in uno stato totalitario. Io ho scritto un libro su quello che accadeva in Iran, ma adesso, vedendo il film, mi rendo conto che è una storia universale, ed è questa la cosa a cui tengo di più. È la storia dei tanti totalitarismi che opprimono la vita delle persone, perseguitano gli artisti, gli scrittori. Pensa a quello che è accaduto nell’Europa dell’est, a Václav Havel, a Iosif Brodskij e tanti altri. Quello che mi preme, adesso, è ricordare che non si tratta di una questione politica che riguarda l’Iran, ma di una questione esistenziale. Quelle ragazze combattono per la loro vita. Guardare il film mi ha ricordato quanto profondo sia quel sentimento, quel senso di umiliazione, che riguarda soprattutto le donne. Non è solo il dolore fisico, ma l’umiliazione. L’umiliazione di quel test sulla verginità, per esempio. Il fatto che una mattina mi sono svegliata e ho dovuto indossare il velo, e sono diventata estranea a me stessa. Bisogna essere intime con se stesse, volersi bene, proprio nel momento in cui quelli ci insegnano a odiarci. E il film secondo me pone l’attenzione proprio su questo, sul tema dell’identità, sul modo in cui ce l’hanno rubata. Quando ti uccidono, ti puntano una pistola alla testa ed è finita. Ma morire ogni giorno è terribile. Io credo che nel film le attrici siano state capaci di creare personaggi che mostrano questa angoscia. Vuole vedere le foto?
(Azar Nafisi tira fuori una cartellina. C’è una scena del film, verso la fine, in cui il regista inquadra per un istante due fotografie, che Azar, ormai trasferita a Washington, tiene sulla sua piccola scrivania. È un attimo, una pennellata, perché quelle due foto non possono essere mostrate davvero. Sono le ragazze del corso di scrittura di Azar Nafisi, fotografate due volte. La prima come vorrebbero essere, senza il velo, vestite all’occidentale, bellissime, la seconda come sono costrette a mostrarsi, ingoffate nel chador nero, i capelli nascosti sotto la stoffa. È davvero molto impressionante. Nella prima vedi delle ragazze, nella seconda delle donne senza età, dei fantasmi. Eppure, mi dice Azar Nafisi, anche in questa foto sorridono. Le donne iraniane non saranno mai domate. Nafisi mi chiede di non fotografarle a mia volta perché, nonostante siano passati vent’anni, per quelle ragazze è ancora pericoloso. E io, dice, ho deciso che non avevo diritto di mostrare i loro volti senza il loro permesso. Mi mostra invece un disegno, una giovane donna rannicchiata, nuda, carpita dalle zampe di un animale, un rapace, un’enorme aquila forse. È il disegno originale di Sanaz, che nel film diventa quello di una donna stretta da un serpente. Non serve spiegare cosa ha nel cuore quella ragazza, cosa significhi questa immagine).
“Guardando il film ho provato qualcosa di simile allo stupore, come se avessi dimenticato molte delle cose che avevo raccontato”.
ES: Il film sarà proiettato in Iran?
AN: Impossibile. Il libro è stato bandito molti anni fa, insieme a un altro libro che avevo scritto prima, in persiano, colpevole di formalismo secondo le autorità del regime.
ES: In Leggere pericolosamente (N.d.A: anche questo pubblicato in Italia da Adelphi, come tutti i libri di Nafisi) lei scrive “Come in tutti gli stati totalitari, in Iran il regime presta eccessiva attenzione a poeti e scrittori, perseguitandoli, arrestandoli, e perfino assassinandoli. In America il problema è opposto: gliene prestano troppo poca. A ridurli al silenzio qui, non sono il carcere e la tortura, ma l’indifferenza e la noncuranza.”
AN: Questo è il centro di tutto quello che ho scritto. Alla fine di Leggere Lolita a Teheran, nel capitolo intitolato Austen, menziono Saul Bellow. Bellow parla del regime di Stalin ma anche del peso della libertà. Ed è quello che ho provato arrivando in America. Come se la coscienza fosse ormai sepolta, atrofizzata, e la gente indifferente. Avevo la sensazione che pensassero ai diritti come a un dono divino, intoccabile. Ma io arrivavo dall’Iran, e sapevo quanto è facile invece che ti vengano revocati, i diritti, e come sia facile per una democrazia scivolare nel fascismo.
I regimi totalitari sono basati sul principio che gli avversari politici sono nemici, e come tali vanno eliminati. Che loro sono i buoni mentre gli altri i cattivi. La democrazia invece è basata sulla responsabilità dell’individuo, bisogna essere coinvolti, sempre, non è possibile tirarsi fuori dalla democrazia. Ma non tutti hanno questa disponibilità. Una delle ragioni per cui ho scritto Leggere Lolita a Teheran è che quando sono arrivata negli USA mi dicevano vabbè, ma quella è la loro cultura, sono iraniani. Non è vero! La nostra cultura sarebbe far sposare le bambine a nove anni? Lapidare la gente a morte? È come dire che la cultura americana è fondata sullo schiavismo o quella europea sul fascismo e sul comunismo. Ogni cultura contiene in sé qualcosa di spaventoso, di vergognoso, ma questo non significa che non possa essere cambiata. In Iran, prima dell’avvento della Repubblica islamica, nessuno veniva lapidato.
Sono molto arrabbiata e mi sono ripromessa che una volta lasciato l’Iran avrei parlato del silenzio a cui le donne sono costrette e avrei parlato per loro, costrette al silenzio. E avrei protestato per il modo in cui l’Occidente guarda alla cultura orientale. Il modo in cui i talebani trattano le donne non è la cultura pakistana. Tutti pensano che la loro sia una protesta nei confronti dell’Occidente, ma l’unica cosa conta per loro è togliere la libertà. Se io o qualsiasi altro artista chiediamo la libertà di scrivere, e di esprimerci, questo fa di noi degli occidentalizzati. È importante che le persone sappiano, che escano dall’ignoranza a cui sono costrette. Ed è per questo che ho deciso di accompagnare questo film anche se per me è strano fare il red carpet, muovermi in ambienti così diversi da quelli della letteratura. Ah, ieri alla presentazione del film ho conosciuto mio marito! (N.d.A.: dice riferendosi all’attore che interpreta Bejan, Arash Marandi).
Anche se questo per me è faticoso, ci tengo a farlo, sento che devo farlo. Perché continua ad accadere qualcosa di spaventoso. Pensa a Germaine Greer, a quello che dice e scrive sull’infabulazione.
ES: Germaine Greer, filosofa femminista australiana, soprattutto in un saggio intitolato The Whole Woman, ha proposto una tesi molto controversa, secondo la quale nella rigida segregazione di genere di certe culture mediorientali c’è più vitalità che nel modus vivendi della società occidentale. Portando la critica femminista dell’establishment medico a estremi assurdi: mentre denuncia pap test, medici della fertilità, screening prenatali e tagli cesarei, difende perversamente le mutilazioni genitali femminili come una pratica culturale di cui gli occidentali non hanno il diritto di parlare.
AN: Germaine Greer, che dice di essere femminista, pensa che una bambina di nove anni dovrebbe avere la libertà di farsi mutilare, come se fosse un fatto estetico, come un piercing o un tatuaggio, una questione culturale. Spenderò il resto della mia vita a parlare di questo, contro questa stortura.
ES: In La Repubblica dell’immaginazione racconta che, nel 2001, fece leggere ai suoi studenti un’inchiesta del «Washington Post» sulla sparizione de Il giovane Holden di Salinger dai piani di studio delle scuole superiori. Gli insegnanti intervistati dicevano che Holden Caulfield, il protagonista, in quanto maschio bianco privilegiato, non sarebbe stato interessante e utile da studiare per gli studenti che appartenevano a minoranze. I quali invece rispondevano dicendo che sì, Holden era diverso da loro, ma proprio per questo volevano leggere il libro. “Erano incuriositi da quel mondo diverso e apprezzavano il fatto che il romanzo offrisse uno scorcio sui suoi pensieri e le sue inquietudini”. Quanto conta nel suo lavoro il tema dell’altro, dell’ascolto, del comprendere le ragioni di chi è diverso da noi?
AN: Moltissimo. Io penso che è un grande scrittore chi riesce a dare voce a tutti, ai buoni e ai cattivi. Una coscienza immaginativa sa mettere in scena tutti i personaggi. Ed è una benedizione poterlo fare. Esattamente come dovrebbe fare la democrazia: per combattere quello che riteniamo malvagio dobbiamo prima conoscerlo. Il totalitarismo è come un cattivo romanziere, che sovrappone la sua voce a quella di tutti i personaggi al punto che i personaggi diventano come pupazzi. Questo è quello che faceva l’ayatollah Khomeini, voleva trasformarci tutti quanti nei suoi pupazzi. Ci hanno provato, lui e i suoi compari, per più di quarant’anni, senza riuscirci. Quando parlo con gli amici rimasti in Iran, da una parte mi raccontano della guerra e della fame, dall’altra sento che non si sono mai arresi. Le donne continuano ad andare per strada senza il velo, sorridenti, contro ogni imposizione. Chi detiene il potere usa le armi contro queste ragazze, che rispondono ballando e cantando. Questo ha perso l’Occidente: la capacità di ballare e cantare per opporsi alle le armi e alla violenza. È per questo che sono innamorata dello slogan “Donna, vita, libertà” perché non riguarda solo la politica, ma la vita, la possibilità di poter vivere come si vuole. Questo è il messaggio che l’Occidente dovrebbe recepire: la democrazia non è facile, bisogna combattere per tenerla in piedi e questo è il momento di farlo. E questa è la cosa più moderna del mio libro, la libertà, le ragazze che danzano per imparare come si sentono i personaggi di Jane Austen quando danzano. Noi non abbiamo mai smesso di sorridere, questo è il messaggio. È questo che rende le donne iraniane potenti. Se le ragazze a Teheran continuano ad andare per strada, vuol dire che il regime piano piano sta cambiando. Il regime ha paura. Non possono ucciderci tutti.
ES: Che rapporto ha con la parola “Persia”? Quando Benjamin Netanyahu ha annunciato l’allargamento del conflitto ha detto che sarebbero andati a liberare il popolo persiano, come volesse rifarsi a un tempo che precede quello della rivoluzione.
AN: Ho sentimenti diversi sull’uso di questo termine. La parola Iran è addirittura più antica della parola Persia. Inoltra Persia si riferisce a una specifica regione dell’Iran (Pars o Parsa è il nome di una provincia dell’Iran meridionale, Fārs, in lingua persiana moderna). Oltre al fatto che Persia è il nome che i greci diedero all’Iran (Secondo Erodoto il nome Persia deriva da Perseo, l’eroe mitologico). Capisco che gli iraniani siano fieri del loro passato, ma io non sono convinta che ci si debba sempre guardare indietro. In questo modo le cose non cambieranno mai.
Lo zoroastrismo, che aveva già smesso di essere popolare, essendo avversato dal regime adesso è stato recuperato. Il calendario iraniano, i nomi dei mesi, sono di origine zoroastriana. Il mio nome, Azar, significa “dicembre”, che è il mese in cui sono nata. Ma significa anche “fuoco”. Noi iraniani siamo in un rapporto di intimità col nostro passato, non è mai morto per noi.
Mio padre mi raccontava che l’Iran, invaso tante volte, tante volte ha modificato e adattato le sue usanze a quelle dei conquistatori. Ma ciò che costituisce davvero la nostra identità, ed è immodificabile, è l’amore per i nostri poeti. Le persone dietro le automobili hanno scritte prese da poesie celebri, molte strade hanno nomi di poeti, ai cui santuari si va a rendere omaggio. Gli ayatollah, all’inizio della rivoluzione, hanno deciso di cambiare i nomi delle strade. Prima hanno tolto i nomi dei re. Ma quando hanno deciso di abbattere le statue dei nostri poeti epici, come Omar Khayyam, la gente si è ribellata. Anche la rivoluzione ha dovuto arrendersi di fronte all’amore per i poeti. Questo sono gli iraniani, questa è la nostra cultura.
ES: Percival Everett ha scritto un romanzo intitolato James dove racconta le avventure di Huckleberry Finn dal punto di vista di Jim, lo schiavo coprotagonista del capolavoro di Mark Twain, dove peraltro usa la parola “nigger” perché la ritiene necessaria. Lei ha scritto un bellissimo saggio su Huckleberry Finn, in La Repubblica dell’immaginazione. Che effetto le fa, come si pone rispetto alla polemica sulla N word?
AN: Mi fa molto arrabbiare chi critica Mark Twain. Quello che penso è che Mark Twain usa quella che ormai chiamiamo la N word per condannare la schiavitù. Nel romanzo non c’è violenza fisica, non vediamo mai Jim picchiato: la violenza sta tutta in quella parola. C’è una scena nel romanzo in cui Huck si interroga su quello che deve fare, se deve o no consegnare la lettera con le istruzioni per rintracciare Jim, il suo amico che è scappato e si è nascosto. Mi piace moltissimo il modo in cui ragiona, sull’amico, sulla giustizia, e alla fine si decide a strapparla. Decide di andare all’inferno, pur di fare la cosa giusta. E io mi chiedo: quanti di noi sono disposti a fare la cosa giusta, sapendo che finiranno all’inferno?
In una parola Huck Finn è uno dei più importanti romanzi contro la schiavitù. La schiavitù è una cosa orrenda, non può essere addolcita sostituendo le parole più divisive o violente. Un editore aveva proposto di cambiare la parola nigger con la parola slave. Ma questo farebbe cadere tutto. La proposta di sostituire la parola nigger con la parola schiavo è insensata, perché è proprio la parola nigger che è carica di tutto quel dolore, dell’oppressione contro i neri. Io penso che è un grande scrittore chi riesce a dare voce a tutti, ai buoni e ai cattivi. Una coscienza immaginativa sa mettere in scena tutti i personaggi. Ed è una benedizione poterlo fare.
ES: È diventato complicato leggere Lolita di Nabokov nelle università degli Stati Uniti?
AN: Ne ho discusso spesso. Nabokov viene criticato perché avrebbe giustificato un pedofilo trasformandolo in un poeta, dando al protagonista Humbert quel meraviglioso linguaggio così ricercato. Ma non è così. Una persona può essere un grande poeta e insieme un essere disgustoso. I mostri non si presentano con la coda e le corna dicendo ciao, sono un mostro. Pensi agli ayatollah, che si sono presentati come guide spirituali. Lolita è il libro più ostile alla pedofilia che abbia mai letto. Il cuore del lettore sanguina per Lolita. Si ricorda quella scena in cui Humbert dice che Lolita torna tra le sue braccia perché non ha nessun altro posto dove andare? È solo una bambina. Le critiche sul fatto che lei sia consenziente mi ricordano chi dice che quello che fa la Repubblica islamica appartiene alla nostra cultura, colpevolizzando le vittime. Humbert è un esempio perfetto di mente totalitaria, non le permette di vivere, plasma Lolita e la trasforma in una creatura della sua immaginazione, ed è per questo che ho scelto questo libro per il mio corso e non un libro più evidentemente anti-totalitario. Perché questo fa la letteratura: per raccontare una mente totalitaria non usa Khomeini o Stalin ma un poeta.
ES: Lei conosceva bene Christopher Hitchens, e lui aveva amato molto il suo libro. Come lo ricorda?
AN: Era una persona gentile, coraggiosa. Non ero sempre d’accordo con lui, ma ammiravo la sua passione. Per esempio credo che la sua posizione, decisamente a favore, sulla guerra in Iraq fosse sbagliata. Ma il modo in cui scriveva, si batteva, parlava, erano insuperabili.
ES: E aveva un’idea profondamente laica della società. Lo stato e la religione devono essere due cose separate, come si dice anche nel suo libro.
AN: Assolutamente. Questo è centrale, nel libro e nel film. Io ho sempre chiamato l’Iran “l’unione sovietica del mondo musulmano”. È la prima moderna teocrazia, come il comunismo staliniano e la Corea del Nord di Kim Jong-il, il padre dell’attuale dittatore, alla quale l’Iran guarda ancora con favore. Anche nel mondo musulmano esiste una dissidenza, ci sono ayatollah che non sono affatto d’accordo con l’idea di una sovrapposizione totale di stato e religione. Ma le loro voci vengono messe a tacere. Così come ci sono donne che vogliono indossare il velo. L’obiettivo è che a nessuno venga imposto come comportarsi.
ES: Nel film la protagonista, rivolgendosi alla sua classe, a un certo punto dice: In English please, rivolgendosi ai maschi che si ostinano a parlare in farsi. Cos’è l’inglese per lei, e cos’è per gli iraniani.
AN: Scrivere in inglese, che per me è una seconda lingua, mi dà un’enorme libertà. Non sento più mia nonna alle spalle che dice «no, no». In inglese posso essere pazza quanto voglio. Nabokov è un bugiardo, e ci mente quando dice che in russo non riusciva a scrivere. Ma le cose più belle sono comunque quelle che ha scritto inglese, tirando fuori forme, luci, sfumature da una lingua che non era la sua.
La cosa interessante è che gli immigrati portano e porteranno sempre uno sguardo diverso sulla lingua, tirando fuori cose nuove. Ti consentono di vedere te stesso sotto attraverso il loro sguardo, e quindi in maniera diversa.
Mi piace scrivere e leggere in inglese. Ma leggere in persiano, i poeti persiani, mi spezza il cuore, ogni volta. È una sensazione diversa. Quando voglio spiegare cosa sia la Persia parlo dei poeti, la spiego con le loro parole. Come è possibile che un paese che ha creato poeti tanto incredibili, poi abbia creato anche quegli incredibili mostri?
(*) Elena Stancanelli è scrittrice, giornalista, conduttrice radiofonica. Il suo ultimo libro è Il tuffatore (La Nave di Teseo, 2022).
(Lucysullacultura.com., 29 ottobre 2024)