di Teresa Bellemo
Ho approfondito davvero l’affaire Leonardo Caffo soltanto qualche giorno fa, quando è stata emessa la sentenza di condanna di primo grado a quattro anni per lesioni alla sua ex compagna. Non per entrare nella faccenda da amante del torbido, ma perché volevo capire meglio la reazione che io stessa avevo avuto di fronte alla notizia.
Dopo aver letto qualche breve articolo che riportava i fatti, sono incappata in alcune frasi tratte dalle deposizioni della ex riguardo i maltrattamenti ricevuti, di carattere verbale e fisico. Tralasciando la seconda tipologia – non per sminuirla, al contrario: un maltrattamento fisico come un dito rotto o delle percosse sono autoevidenti e per questo condannate immediatamente da tutti – la mia riflessione si è concentrata soprattutto sulle violenze verbali. «Devi morire», «Sei un’idiota, un’incapace», insulti a lei, alla famiglia, agli amici. Leggendole, la reazione che ho avuto è stata qualcosa del tipo: vabbè, può succedere quando si litiga. Dopo un attimo, mi sono soffermata su questa mia reazione. Cosa significa “succede”? Significa che per me tutto questo è lecito in determinati contesti? Che non è violenza? Che augurare la morte, essere sviliti in quello che si è, si fa, le relazioni che si hanno, può essere considerato normale, ogni tanto? Mi sono resa conto che sì, la mia prima reazione intendeva dire questo. Che stavo, parzialmente, giustificando l’accaduto. Come me, molte altre persone avranno pensato la stessa cosa. Poi mi sono resa conto sminuivo la gravità della violenza perché, per un certo periodo della mia vita, la ho sminuita mentre la subivo.
È successo non molti anni fa. Accettavo che quando si litigava volassero parole pesanti, che il modo in cui conducevo la mia vita diventasse un’accusa, che mi venissero rimproverate le mie amicizie, cosa e come postavo sui social. Ho sminuito l’essere colpevolizzata se alcuni comportamenti non mi andavano bene e la mia reazione a tutto questo diventava poi un motivo di senso di colpa e di denigrazione da parte sua. Ho accettato che dopo un litigio il mio desiderio di allontanarmi venisse frustrato, che ci si avvicinasse di nuovo perché aveva capito, sarebbe stato tutto diverso e dopotutto lo era già: non lo vedevo come era mogio e accorato nel dirmelo?
Quando ho letto la lista delle accuse a Leonardo Caffo mi sono ricordata di quanto è facile entrare in un vortice di debolezza e di risposta anticipata, nel tentativo di evitare tutte quelle situazioni che potrebbero portare a parole di quel tipo, a situazioni di quel tipo. E di quanto, una volta entrati nel vortice, sia difficile uscirne. Anche se ti rendi conto che lo stai vivendo, che stai mettendo in atto un meccanismo di difesa che però non equivale ad andarsene, ma di base ad accettare che le nuove regole del gioco siano quelle, anche se la prima volta che ti vengono presentate sembrano da subito assurde e fuori fuoco rispetto a come sei, a come ti definiresti, a come hai sempre pensato di essere. Credo di essere una persona piuttosto solida, femminista, razionale, con dei valori e una discreta dose di autostima. Tutte caratteristiche che avevo sempre pensato mi avrebbero messo al riparo da situazioni come quelle di cui si legge sui giornali, che qualche conoscente ti racconta. Quelle emerse nella vicenda di Leonardo Caffo.
Non è così. Non sono sempre sufficienti, e l’amore e le relazioni amorose non sono sempre un terreno di parità e comprensione, di raziocinio dove se le regole comuni non sono condivise allora salta il banco. Le regole invece si inventano, si modulano, si adattano di volta in volta. E ogni giorno si piegano e piegano le persone che le accettano.
Al di là dell’opinione generalizzata su questi temi, sulle prese di posizione aprioristiche, al di là di un certo malsano silenzio attorno alla questione di Leonardo Caffo e anche alla sua difesa in occasione della sua presenza a Più Libri Più Liberi (quest’anno dedicata alla memoria di Giulia Cecchettin), dove l’amica e direttrice del festival Chiara Valerio ha comunque deciso di stare dalla sua parte, quello che mi ha fatto riflettere è che su questi temi troppo spesso la reazione è quella di una scrollata di spalle, di un ridimensionamento del danno, di un ridimensionamento della colpa e della responsabilità del colpevole. Deriva dal patriarcato o, se vogliamo dirla meglio, dal modo in cui per secoli si sono accettate consuetudini e modi di ragionare, ma anche dalla fatica di separare i fatti da chi quei fatti li compie.
Un nostro amico non lo potrebbe mai fare. Una persona acculturata, un filosofo, non lo potrebbe mai fare. Una persona con un’aria rispettabile, bonaria, non lo potrebbe mai fare. E invece possono farlo in tanti, possono farlo tutti. Tanti, tutti, possono ritrovarsi nella situazione di accettarlo. E quando lo si fa non si torna più indietro. Ieri sera, mentre parlavo della vicenda Caffo, ho realizzato che non sono più quella di prima. Mi metto in guardia, certo, so bene cosa significano le vicende che ho vissuto e quanto fossero tossiche, come si dice. Lo sapevo anche mentre le vivevo. Ma sono entrate dentro di me, hanno provocato dei cambiamenti impercettibili: oggi, anche se sto con una persona completamente diversa e so di non voler più accettare certi comportamenti, capita che la prima reazione che sento sia quella di una colpa. Voglio prevenire, percepisco già il timore delle conseguenze. Come un virus che, anche se si debella, in qualche modo ha modificato l’organismo in maniera irreparabile. Come una violenza.
A queste cose, quando accade quello che è successo tra Caffo e la sua ex compagna, non si pensa granché, si è troppo occupati ad approfondire il gossip, a schierarsi da una parte o dall’altra, a interpretare tutto secondo l’etica corrente. Per alcuni può essere quella aprioristica del «sorella io ti credo», per altri quella altrettanto aprioristica dell’“Ormai non si può più dire niente”. Per qualcuno, “quando capisci che uno è così te ne devi andare”; “sei troppo debole”; “se ci rimani significa che ti sta bene”. Nel frattempo però si perde il filo del discorso.
Approfondendo la vicenda di Leonardo Caffo ho sentito un ulteriore strato di tristezza, che non nasce soltanto dal realizzare l’incoerenza di chi, avendo sempre difeso le vittime – le donne in questo caso – non l’ha fatto soltanto per questa volta (come ha anche scritto Simonetta Sciandivasci su La Stampa). Viene piuttosto dall’arroganza serpeggiante nel comportamento di Caffo, dall’irrisione delle accuse e di chi lo accusa. Una specie di martirio portato avanti come esempio, lo stoico capro espiatorio che con il suo corpo risponde della sete di sangue di un supposto clima da caccia alle streghe («Ne hanno colpito uno per educarne mille», ha dichiarato quando è stata emessa la sentenza). Solo chi custodisce la verità, il filosofo, può sopportare tutto questo perché può andare oltre le mere questioni umane, anzi da queste può trarre linfa per il suo lavoro, per poter elaborare più alte e universali teorie perché perfetto conoscitore delle bassezze umane. Può «leggere Spinoza» mentre fuori si scatena la shitstorm, come dice nel passaggio di un podcast dove è stato ospite sette mesi fa. La sua esperienza vissuta al limite per poterla rendere testimonianza. La vita come un romanzo russo.
Leonardo Caffo è stato condannato in primo grado e ha due altri gradi di giudizio per cercare di dimostrare la sua innocenza. Nel frattempo e a prescindere dall’esito, potremmo utilizzare questo tempo per imparare a ragionare meno per assiomi, soprattutto se basta un conoscente per spazzarli via, soprattutto se chiunque, anche quelli che credono di esserne immuni, possono fare esperienza di violenza e rimanerne toccati per sempre.
(rivistastudio.com 13 dicembre 2024)