16 Febbraio 2025
Corriere della Sera

“Decenni di distruzione inflitta a noi e agli israeliani”: intervista a Adania Shibli

di Mara Gergolet


Alla palestinese nel 2023 alla Buchmesse fu assegnato ma poi non consegnato il LiBeraturpreis: «Non è questa la cosa che fa male…». In Italia torna il suo romanzo “Sensi”


Adania Shibli ama ascoltare storie, quelle che sua mamma – che non sapeva scrivere – invece sapeva raccontare così bene. L’ha spiegato qualche anno fa in un’intervista al «Guardian». E c’è una mamma che non legge, che resta esclusa dal mondo della bambina alla scoperta dei libri anche in Sensi, il piccolo capolavoro che Shibli ha scritto quasi vent’anni fa, all’esordio, e che, uscito in Italia per Argo nel 2007, torna ora con La nave di Teseo.

Nel frattempo, Adania Shibli, palestinese, è diventata un’autrice di culto. Ha pubblicato pochissimo: Sensi, Un dettaglio minore, alcuni racconti e ha completato un romanzo che sta per uscire in arabo. Su Un dettaglio minore – 128 pagine, sempre per La nave di Teseo – ha lavorato dodici anni. Eppure è tra i nomi più ammirati della letteratura mondiale, fu candidata con quest’ultima opera sia al Booker Prize che al National Book Award, i due più importanti premi in Gran Bretagna e negli Stati Uniti. Il suo nome è diventato noto a un pubblico ampio quando nel 2023 alla Buchmesse di Francoforte le fu conferito il LiBeraturpreis ma la consegna venne sospesa per non urtare certe suscettibilità tedesche, subito dopo il 7 ottobre e l’inizio della guerra di Israele contro Hamas. Ne è nata una sollevazione internazionale, con premi Nobel come Olga Tokarczuk, Annie Ernaux e Abdulrazak Gurnah intervenuti in suo favore. Quando ci risponde, dice che non vuol parlare di politica. Nessuna intenzione di tirarla a forza in polemiche, precisiamo. «Ci mancherebbe, nessun problema, non me ne potrebbe importare di meno – dice – di finire in controversie politiche. È che mi piacerebbe parlare di letteratura».

Un dettaglio minore è la storia di uno stupro, compiuto da un ufficiale israeliano su una ragazza beduina nel 1949, e la ricerca molti decenni dopo da parte di un’impiegata palestinese per conoscere la verità della ragazza. Sensi potrebbe anche essere l’educazione (esistenziale, più che sentimentale) di una ragazzina palestinese – mentre la vita del suo popolo è letta attraverso le esperienze dei suoi famigliari – fino alle nozze che lei non vuole, o non vorrebbe.

Shibli vive tra Berlino, Bir Zeit (in Palestina, dove insegna) e Londra, dove ha ottenuto un dottorato in Studi culturali. Ed è estremamente colta, con una solida base teorica, dentro il dibattito contemporaneo: si potrebbe anche dire che sia una delle voci dell’antirazzismo mondiale. Ma quando scrive, la sua è una lingua pura, fatta di pochi elementi, scorre quasi come una poesia: non a caso l’ha notata e incoraggiata a scrivere il grande poeta palestinese Mahmoud Darwish. Fluisce per immagini, quasi come un’installazione letteraria. E non la si dimentica più. «È un miracolo che la fiction che Shibli compone da un materiale abbondantemente politico sia così strettamente esistenziale», ha scritto di lei l’autore e critico inglese Adam Thirlwell. Difficile trovare parole più precise.

Lei sceglie spesso ragazze giovani come soggetto dei suoi libri, o adotta il loro punto di vista. In Sensi, la protagonista è una ragazza particolare: sente suoni, a poco a poco scopriamo che è molto intelligente. Perché?

«Non sono sicura che sia così, ma è certamente vero per Sensi, e forse per altre due storie brevi. In Sensi, la dimensione di essere una ragazzina suscita incontri con il mondo a molti livelli, e questo mondo è vissuto ogni volta per la prima volta. Man mano che la protagonista cresce, il modo in cui lo percepisce cambia. Infatti, è attraverso questi cambiamenti portati dai suoi sensi che vive la crescita, piuttosto che attraverso gli strumenti usuali per misurare il tempo, come contare i giorni e gli anni».

La morte del fratello, il suicidio di un vicino che si impicca in Sensi, l’uccisione della ragazza beduina in Un dettaglio minore. La morte sembra quasi una presenza naturale.

«Ma anche la vita. I personaggi in questi romanzi sono affascinati dalla vita che continua dopo la morte o la precede; da come la vita continua con le assenze degli altri. Forse i miei testi sono segnati da queste assenze, tormentati dalla domanda su come portiamo nelle nostre vite la presenza di coloro che non sono più con noi. O su come le morti stanno formando le nostre vite, talvolta deformandole».

Perché non dà nomi ai protagonisti?

«Finora non ho incontrato un personaggio che richiedesse un nome. I personaggi richiedono cose diverse in un testo: movimenti, passati, emozioni, amore, solitudine e a volte richiedono un nome, ma non sempre. Nel nostro rapporto intimo con noi stessi difficilmente abbiamo bisogno dei nostri nomi, per esempio».

L’ufficiale-assassino non prova empatia. E forse neppure la donna palestinese che indaga. Quant’è importante per lei esplorare come si partecipa alla vita degli altri, o l’impossibilità di farlo?

«La scrittura e la lettura, e l’arte in generale, ci permettono di fare spazio in noi per gli altri. Non soltanto condividiamo qualcosa con loro, piuttosto questi altri fittizi, attraverso la lettura o la scrittura, possono abitare in noi. Spesso possiamo dimenticarci di noi stessi quando leggiamo o scriviamo, a favore di ciò che stiamo leggendo e scrivendo. E questo è ciò che alcuni definiscono come l’effetto trasformativo della letteratura e dell’arte. Non è qualcosa che pianifichiamo, piuttosto qualcosa che ci accade. Non si tratta di identificarsi con un personaggio, ma di come i personaggi risvegliano qualcosa in noi che alla fine ci rende consapevoli di un luogo dentro di noi che non conoscevamo fino a quel momento, o che non avevamo notato. Una tale consapevolezza, per esempio, è la nostra capacità di causare dolore, che l’ufficiale potrebbe risvegliare quando stupra e uccide la ragazza».

Lei ha vinto premi importanti. La consegna del LiBeraturpreis alla Buchmesse, nel 2023, fu sospesa a causa delle controversie legate alla guerra israelo-palestinese. Si è sentita ferita?

«Innanzitutto, non chiamerei questo conflitto “guerra israelo-palestinese”. Lo definirei occupazione militare israeliana e colonizzazione della Palestina da decenni. Ed è questo che fa male, fa profondamente male, la distruzione che dura da decenni e che viene inflitta ai palestinesi e agli israeliani, ciascuno con il proprio ruolo e la propria posizione all’interno di tutto ciò. C’è stata una sottomissione continua dei palestinesi mediante l’oppressione militare e politica, attivata da un sistema di dominazione basato su una gerarchia etnica che è stata implementata in Palestina/Israele. Come questo sistema di gerarchia etnica continui a essere mantenuto e le sue conseguenze, che distruggono i palestinesi ma anche gli israeliani, ciascuno in modo diverso a seconda del proprio ruolo e delle proprie azioni in questo sistema, è ciò che fa male. Non la cancellazione del premio che era previsto».

È affascinata dalla storia come materiale di scrittura?

«Piuttosto, sono attratta e incuriosita da ciò che la storia non può narrare, o da ciò che la storia abbandona. La storia è stata la materia scolastica che ho odiato di più, perché già allora era evidente la moltitudine di assenze e esclusioni su cui si basa come disciplina».

Il dolore sembra centrale nei suoi libri. Rimane sospeso, osservato, spesso sembra indicibile.

«Fin dall’inizio la scrittura mi ha insegnato come esistere nel mondo causando il minor danno possibile, e permettendomi di vivere alcune esperienze che non possono essere vissute nella realtà in sé. Ciò che ha reso possibile tutto questo è la capacità della letteratura di orientare lo sguardo verso il dolore senza la necessità di praticarlo, e senza permettergli di diventare una forza distruttiva. In Sensi, per esempio, la bambina fatica a comprendere l’entità di un massacro come quello di Sabra e Shatila nel 1982, e ciò che potrebbe essere l’esperienza delle sue vittime, ma questo le consente di cercare di tentare di comprenderlo. In altre parole, di creare una consapevolezza che va oltre la questione dell’esperienza diretta».

Le sue storie sembrano dipinti: il deserto, le stelle, i fiori di mandorlo. È perché ama le arti visive?

«Se scrivo in questo modo, è probabilmente perché amo la lingua più di quanto ami le arti visive».

Perché è necessario raccontare storie?

«Sono più attratta dall’ascoltare storie che dal raccontarle. Qual è l’importanza di ascoltare storie? Suppongo sia un’espressione d’amore: permettere all’orecchio di essere presente e vicino agli altri, in ascolto».


(Corriere della Sera – La lettura, 16 febbraio 2025)

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