di Pasquale Albino e Gian Marco Glisoni
Nei suoi primi lavori si è occupata di Platone e Locke e la sua formazione filosofica è passata per la partecipazione al gruppo di ricerca sui concetti politici fondato dal professor Giuseppe Duso presso l’Università di Padova. In seguito è stata fondatrice, assieme a Luisa Muraro, della comunità filosofica Diotima di Verona. Ricostruirebbe questo passaggio dall’inizio della sua formazione filosofica a Padova all’apertura dell’orizzonte della differenza sessuale a Verona?
Cavarero: Padova per me è stata molto formativa come esperienza. Innanzitutto, perché ho imparato a leggere i classici con rigore, possibilmente in lingua originale. Mi sono formata con impegno, studiando sodo. Ho partecipato al gruppo di ricerca sui concetti politici con Duso ed altri, tra cui anche Pierangelo Schiera, che ci raggiungeva da Trento. Ho beneficiato particolarmente della sua presenza perché ci indicava testi fondamentali come quelli di Schmitt – ovviamente – ma anche di Hobbes, Locke, Rousseau, Hegel… Ma sin dall’inizio ciò che studiavo di più era Platone, sotto la guida di Franco Chiereghin. Ho conosciuto Hannah Arendt approcciandola come critica della filosofia platonica. Al tempo Arendt era davvero poco nota ma la profondità della sua lettura di Platone ha catturato da subito il mio interesse. Così ho scoperto la sua genialità, che mi ha spinto a leggere praticamente tutta la sua produzione. Alcuni testi non erano tradotti in italiano o erano difficili da reperire. Infatti, riuscii a trovare e leggere in italiano – se non ricordo male – solo Le origini del totalitarismo e Vita activa, il resto lo lessi in inglese. Da allora non l’ho più abbandonata poiché reputo che il suo pensiero offra una metodologia di indagine e di scrittura che è assolutamente originale. Per farsi un’idea, basti pensare che lei – in quell’epoca molto polarizzata tra tendenze marxiste e tendenze liberali (o cattoliche, soprattutto in Italia) – era stata in grado di elaborare una posizione autonoma e critica nei confronti di entrambe. Si tratta pertanto di un pensiero in grado di resistere alle polarizzazioni ideologiche. Al tempo trovai che quella di porre al centro della riflessione politica la categoria di nascita, così come la morte al centro della metafisica, fosse un’indicazione davvero preziosa. Mi sono poi trasferita a Verona semplicemente per comodità personale perché abitavo lì, avevo un bambino e quindi mi pesava molto questa pendolarità. A Verona ho incontrato Luisa Muraro, che era già una femminista di punta e aveva tradotto Irigaray del cui pensiero, perciò, aveva una buonissima conoscenza. Parlando con lei mi sono convinta che la differenza sessuale fosse un tema estremamente innovativo, se non eversivo. L’assunzione di questo problema centrale ha comportato, nella tradizione femminista, un lavoro di critica al patriarcato: la cosiddetta decostruzione. Questa operazione mi risultava abbastanza facile, perché se si conosce bene il testo della tradizione – non solo per sentito dire o di seconda mano, ma si frequentano direttamente i testi di Hegel, di Platone, di Aristotele – farne poi la decostruzione critica diventa molto più agevole. Sapevo come muovermi nei testi per individuare i punti deboli nella loro tessitura, riuscivo a comprendere dov’era celata una lacerazione o dove la logica conduceva ad un’aporia. Quindi abbiamo fondato Diotima che consisteva, da un lato, nella decostruzione del testo occidentale (ripeto, questa era la parte più facile) e, dall’altro, intendeva rispondere all’invito di Irigaray per cui la differenza sessuale è ciò che la nostra epoca ha da pensare. Così, si è cominciato a discutere in gruppo, a scrivere, e ne è nato il primo libro pubblicato per La tartaruga[1], ovvero Diotima. Il pensiero della differenza sessuale, nel quale il mio contributo era quello maggiormente teoretico.
Da cosa è scaturita l’idea della sua ultima pubblicazione, scritta con Olivia Guaraldo: Donna si nasce (e qualche volta lo si diventa)?
Cavarero: L’idea nasce sulla base di una proposta di Mondadori. Mi hanno contattata chiedendomi di scrivere un libro sul femminismo in grado di fare chiarezza sul vocabolario che circola attualmente, spesso in modo molto confuso e concettualmente non fondato. Mi riferisco al linguaggio che ruota intorno a categorie come gender, transgender, intersex, fluidity, non–binary… La parola gender viene utilizzata in maniera completamente diversa, da un lato, da coloro che fanno studi di genere o dalla comunità LGBTQIA+ e, dall’altro, da coloro che contrastano ideologicamente questo tipo di impostazioni come le forze neocattoliche e conservatrici. Avendo altri lavori in corso, mi sono avvalsa della collaborazione di Olivia Guaraldo che è stata, diciamo, una mia allieva e ora è professoressa ordinaria di filosofia politica a Verona. Olivia, come me, ha sempre studiato il femminismo e Hannah Arendt, del cui pensiero è una specialista. È stata una grande scommessa perché lo abbiamo scritto veramente a quattro mani: io facevo un pezzo, lei faceva un pezzo, poi ce lo scambiavamo e ognuna correggeva lo scritto dell’altra, cancellava e aggiungeva. Questo processo è stato naturalmente accompagnato da molte discussioni e mi ritengo soddisfatta del risultato. Certo, come tutti i testi è imperfetto, però è la nostra proposta. Insomma, il fine del testo è fare chiarezza sul linguaggio che circola, sui concetti che lo organizzano, tentando anche di spiegare posizioni che spesso vengono fraintese come quella di Judith Butler. I fraintendimenti derivano dal fatto che i testi di Butler sono molto difficili, per cui mi sembra che molti e molte di quelli che citano Butler non l’abbiano compresa fino in fondo. La sua scrittura è molto complessa e bisogna fare la fatica di seguire il suo ragionamento che si sviluppa attraverso tutta una serie di interrogativi, servendosi di un linguaggio molto articolato, quasi contorto. Per queste ragioni, abbiamo fatto anche un capitolo su Butler, cercando di fare chiarezza. L’idea, dunque, è stata in primo luogo della casa editrice, anche se io, Olivia e altre studiose pensavamo da tempo fosse necessario un intervento di chiarificazione del lessico femminista contemporaneo e degli equivoci a cui si espone. A noi che abbiamo seguito tutta la vicenda fin dagli albori e che conosciamo il panorama americano, internazionale, europeo, italiano, risultava insopportabile il livello di confusione nell’uso del vocabolario inerente al genere. Si pensi a quando le forze neocattoliche conservatrici hanno inventato la fantomatica “teoria gender”. Non esiste alcuna “teoria gender”, esistono gli studi di genere. La teoria gender è un’invenzione polemica.
Quali punti di continuità e di discontinuità possono esserci fra il suo pensiero e la prospettiva di Judith Butler? Ha parlato di una “radice filosofica” del pensiero di Butler che sarebbe in qualche modo venuta meno nella circolazione contemporanea del pensiero dell’autrice. Che cosa intende?
Cavarero: Judith Butler ha ottenuto il dottorato di ricerca all’Università di Yale, terminandolo con una dissertazione su Hegel. Inoltre, durante il dottorato ha avuto l’opportunità di soggiornare per un anno ad Heidelberg in Germania, dove ha potuto approfondire maggiormente il pensiero dell’autore. Questo denso percorso di formazione filosofica si sente nella sua scrittura. Intanto dal punto di vista della complessità: voi sapete che il linguaggio di Hegel – basti pensare alla Fenomenologia dello Spirito – non è proprio un linguaggio semplice. Dopodiché sono da tenere in considerazione anche le altre sue due radici filosofiche principali: Michel Foucault, che tramite il suo insegnamento a Berkeley ha esercitato una forte influenza sul pensiero americano post-moderno, e J.L. Austin da cui Butler ha tratto la nozione di performatività, mutuandola dal celebre How to do things with words. Il pensiero di Butler riposa, pertanto, almeno su questi tre importanti fondamenti filosofici. Inoltre, lei procede per problematizzazioni, per domande su domande che si specificano in altre domande ancora. Questo è un carattere – per così dire – rabbinico della sua argomentazione, probabilmente derivato dalla sua educazione ebraica. Altro tratto stilistico che, insieme alla già menzionata complessità del linguaggio, rende lo sviluppo del suo pensiero molto interessante ma al contempo molto complesso da seguire. Questo riguarda in particolare le sue prime opere come Gender Trouble: feminism and the subversion of identity (1990) e Bodies That Matter (1993) che ho fatto tradurre io stessa per Feltrinelli con il titolo Corpi che contano, scrivendo l’introduzione. Infine, Butler condivide con pressoché tutte le studiose e gli studiosi americani suoi contemporanei il riferimento alla psicanalisi, che complica ulteriormente le cose. Per ciò che concerne il mio rapporto con Butler – a parte l’amicizia personale che risale al 1990 – l’affinità principale è stata, almeno all’inizio, la critica al patriarcato. Mi sono occupata di elaborare una critica decostruttiva del patriarcato – per esempio – in Nonostante Platone, traendo da essa l’occasione per la parte costruttiva. Relativamente a questa pars construens ho un metodo su cui insisto spesso e che consiste nel riprendere dei concetti o delle figure del macrotesto patriarcale tentando di decodificarli per risignificarli diversamente. In questo modo intendo elaborare concetti o categorie che possano offrire una prospettiva femminista sulla differenza sessuale. Judith non ha questo metodo, ha piuttosto quello che definirei un “metodo a carrarmato hegeliano-rabbinico” che opera non tanto una risignificazione quanto una parodizzazione. Butler prende quelli che sono ritenuti i fondamenti del sistema patriarcale sovvertendoli. Come fa, ad esempio, in Gender Trouble, dove valorizza il potenziale eversivo del drag. Per Butler, infatti, lo scambio di genere posto in atto attraverso il travestimento non è uno scambio a somma zero bensì uno scambio che destabilizza e mette in ridicolo. Secondo lei questa destabilizzazione è un’operazione sovversiva che può avere un forte impatto critico sulla saldezza del sistema patriarcale e sulla sua immaginazione. Dunque, le nostre proposte sono molto diverse anche se abbiamo sempre dialogato con grande amicizia. Lei mi ha introdotto negli Stati Uniti, facendo tradurre i miei libri in inglese e scrivendone i blurb. Nel 2005 ha pubblicato il testo Giving an account of oneself dove dedica un capitolo al mio libro sulla narrazione [n.d.r. Tu che mi guardi, tu che mi racconti. Filosofia della narrazione (1997)]. Lei stessa ha dichiarato pubblicamente più volte che le ho insegnato a leggere Lévinas, lo dice sempre: «Adriana Cavarero taught me how to read Lévinas». Dunque il nostro è sempre stato uno scambio intenso. Inoltre, ultimamente la parte più teoretica, prettamente filosofica, del nostro lavoro intellettuale si è sempre più avvicinata, convergendo sul pensiero di Hannah Arendt. Nella nostra ultima produzione, io e Butler siamo entrambe interessate a concetti arendtiani come quelli di vulnerabilità, esposizione e soggetto relazionale. Io la cito molto nei miei libri e lei mi cita molto nei suoi. Trovo interessante il fatto che per ambedue si sia un po’ sopito l’interesse per i problemi relativi a sesso e genere mentre è aumentato l’interesse strettamente politico relativo a violenza, non-violenza e comunità.
Il suo pensiero e quello di Butler interrogano in modo molto determinato il concetto di ordine simbolico. Potrebbe spiegare in che cosa si differenziano i vostri approcci in relazione a questa nozione?
Cavarero: Sostanzialmente usiamo la nozione di ordine simbolico in maniere molto diverse. Butler, come ho detto, frequenta la psicanalisi e Jacques Lacan. Il pensiero dello psicoanalista francese era molto diffuso in America. Al tempo non si poteva assistere ad un talk, anche di un giovane ricercatore o di una giovane ricercatrice, che non cominciasse chiamando in causa il mirror stage di Lacan. Stava diventando veramente un ritornello ripetuto. Oggi non è più così in voga, per fortuna. Ad ogni modo, per chi studia Lacan, il Simbolico ha un significato tecnico che si può comprendere solo se lo si colloca tra gli altri due registri dell’Immaginario e del Reale. Per quanto mi riguarda invece, utilizzo la nozione di ordine simbolico come la possono usare gli antropologi o gli storici delle religioni. Preferisco questo genere di riferimenti culturali al Lacan “americano” con cui si confronta Butler. Per me le parole ordine simbolico indicano semplicemente quell’insieme di interpretazioni e di valori che è predominante. Quindi, uso questo concetto in una maniera più ampia e meno specifica di Butler che invece lo adopera in un senso più vicino a quello lacaniano. Sinceramente il pensiero di Lacan mi interessa poco. Per ciò che concerne la psicoanalisi ho letto con piacere Freud, Jung, Klein… Naturalmente come studiosa sono informata di queste teorie. Tuttavia, non mi affascinano e detesto l’uso che spesso se ne fa. Mi sembra che ci sia una tendenza a ricondurre tutto all’inconscio e che questa esponga al rischio di semplificare un po’ troppo.
Nel testo Nonostante Platone: figure femminili della filosofia antica (1990), cui ha fatto cenno, lei opera una risemantizzazione in chiave femminista di varie figure appartenenti alla cultura patriarcale dei greci. Ricostruirebbe l’operazione che ha effettuato sulla figura di Penelope per fornire un esempio di ciò che lei intende con risignificazione?
Cavarero: Certo, la figura di Penelope è una di quelle su cui mi sono maggiormente concentrata in Nonostante Platone. A ottobre ho tenuto una conferenza su Penelope a Roma, è stata organizzata una mostra che prevede una serie di incontri su Penelope la tessitrice. Ho trovato la mostra molto interessante perché è anche un omaggio a Maria Lai, la grande artista italiana che faceva opere con la tessitura e la filatura. Nel suo paese natale, in Sardegna, metteva fili di lana che attraversavano tutta la città. Penelope è una figura ancora viva, che non appartiene solamente al passato. La mia tesi in Nonostante Platone è che accanto alla Penelope canonica, tradizionale – la moglie fedele che sta nella stanza dei telai a filare con le ancelle, dove è destinata dall’ordine simbolico e sociale dell’epoca – ce ne sia un’altra, ben più interessante, che si tratta di far emergere. Ci sono dei segni, degli strappi, dei sintomi nel testo omerico che divengono rivelatori di altre possibili interpretazioni, qualora se ne faccia una lettura attenta. Ad esempio, quando torna dal suo viaggio, Ulisse è riconosciuto da tutti tranne che da Penelope. Altro elemento che non torna è l’attesa dei Proci: si può presumere avessero una minima intelligenza; eppure, credono che ci vogliano dieci anni per tessere il sudario di Laerte, il padre di Ulisse. Questa storia ripetuta da sempre è attraversata da alcune stranezze. Approfittando di questi due punti ambigui del racconto omerico, ho ricostruito la figura di Penelope rendendola una donna che non aspetta il marito e che, quando Ulisse torna, capisce che ciò significa la fine della sua funziona politica ad Itaca. Con il suo trucco di tessere e disfare, Penelope teneva di fatto in scacco il potere sull’isola. Attraverso questa ricostruzione ho offerto un’immagine, un simbolo all’esperienza femminista del separatismo, perché lei sta separata nella stanza delle ancelle e con la loro complicità elabora il trucco del sudario. Come il marito, ha una metis che non si esaurisce in un solo campo. L’uomo è guerriero, la donna tessitrice, questi sono i doni di Atena. Ma la metis di Ulisse non è solo guerriera, come dimostrano l’invenzione del cavallo di legno e l’inganno teso ai troiani facendo leva astutamente sulle comuni credenze religiose. In maniera analoga Penelope non è solamente tessitrice: stando nella stanza del telaio ed elaborando il suo stratagemma, tiene in scacco la politica, ambito al quale non dovrebbe avere accesso. Anche se, quando si reca nelle stanze dove si tengono le discussioni tra uomini, Telemaco le intima di tornare nella stanza del telaio, da questa Penelope riesce nondimeno a gestire la politica della città. Questa figura dà fiducia alle donne, simboleggia il fatto che anche a partire dal confinamento domestico o dalla costrizione a farsi carico della maggior parte del lavoro riproduttivo, come Penelope si può trovare il coraggio di sfidare il patriarcato e costruire la propria autonomia. Ma Penelope è solo un esempio, io non rubo una sola figura, ne rubo molte. Possono esserci molte vie di risignificazione dell’esperienza femminile, molti percorsi generativi.
Un riferimento significativo in Donna si nasce è quello al noto saggio Il contratto sessuale di Carole Pateman nonché a due importanti figure femminili contemporanee ai fatti della Rivoluzione francese, quali Olympe de Gouges e Mary Wollstonecraft. Che ruolo svolgono queste autrici nell’economia complessiva del vostro libro?
Cavarero: Dovreste porre questa domanda ad Olivia Guaraldo perché questa parte è stata scritta da lei! Ad ogni modo, approvo e condivido le sue tesi, quindi credo di poter rispondere in questo modo. Il discorso di Pateman sul contratto sessuale è molto interessante perché si pone in dialogo con l’antropologia e con la struttura portante della teoria politica moderna, ovvero il giusnaturalismo. Pateman ha come riferimento autori che a me e Guaraldo sono molto noti: Hobbes, Rousseau, Locke. In poche parole, i pensatori del contratto sociale, che è una specialità tutta moderna. Nessuno aveva mai teorizzato prima nulla di simile, la dichiarazione di un’uguaglianza e una libertà come determinazioni di ogni individuo. De Gouges e Wollstonecraft, invece, sono proprio sul terreno in cui queste cose si realizzano concretamente. Sia chiaro, non si tratta di studiose, di filosofe che si occupavano della teoria giusnaturalista. Wollstonecraft era una scrittrice inglese che aveva seguito da vicino gli eventi immediatamente successivi alla Rivoluzione francese, così come de Gouges che aveva pubblicato proprio in quegli anni alcuni pamphlet rivendicando l’uguaglianza delle donne agli uomini. Queste autrici si trovano di fronte a queste novità straordinarie vedendole trasformarsi, da puri concetti astratti, in elementi costituzionali, temi di operatività politica. Le teorie di Hobbes e Locke, prima di allora non avevano ancora avuto un risvolto pratico effettivo. Circolavano come pure teorie, come quelle mie e di Butler. Con la Rivoluzione americana e, soprattutto, con la Rivoluzione francese, quelle teorie e quei concetti avevano fatto irruzione nella scena della storia. Queste donne agiscono e scrivono mentre questi fatti si stanno verificando. Si capisce dunque che l’idea che donne e uomini siano titolari degli stessi diritti è davvero molto avanzata al tempo. Wollstonecraft è forse ancor più interessante di De Gouges, perché si avvicina molto alla struttura teorica della differenza sessuale sostenendo che vi sia una specificità femminile, come una maschile, che non deve però essere utilizzata come base per una discriminazione e una subordinazione. Questa specificità non corrisponde, infatti, a quella imposta al femminile dall’ordine simbolico patriarcale, cioè al fatto che le donne, a differenza degli uomini, non possono studiare, sono relegate in casa, devono essere lavandaie – se povere – o bamboline in attesa di marito – se appartenenti a famiglie abbienti. Questo è il giogo imposto dagli uomini sulle donne. Le donne, in forza della loro libertà e dell’uguaglianza agli uomini, sul piano dell’estensione dei diritti, devono avere accesso all’istruzione e alla libertà di movimento. Ma questo, sottolineo, non significa per Wollstonecraft che esse debbano identificarsi con gli uomini. Secondo lei, le donne hanno una certa esperienza di cura, di riflessione, che possono essere valorizzate nella costruzione complessiva di una buona società. Il suo orizzonte è quello di una società giusta, costituita da uomini e donne con uguali diritti ma differenti specificità. Divengono, a questo punto, complementari. Certo, io da sempre contesto la teoria della complementarietà dei sessi, ma se la si contestualizza nell’epoca in cui scrive Wollstonecraft, se ne comprende la dirompenza.
Le chiediamo, in riferimento a quest’ultimo tema, per quale ragione la sua riflessione sulla maternità, sviluppata nell’ultima parte del testo, giunga alla conclusione che la gestazione per altri riproduca surrettiziamente il controllo patriarcale sul corpo della donna?
Cavarero: Io parlerei proprio di una riproduzione diretta, nemmeno surrettizia. Nel senso che il vecchio padre della famiglia tradizionale controllava quando le donne potevano accoppiarsi, quando potevano rimanere incinte. Si trattava di un controllo immediato, esplicito per così dire. Ora si profila un tipo di controllo della capacità generativa della donna che penso sia per alcuni aspetti peggiore perché si tratta di uno sfruttamento commerciale. Ciò che non finirà mai di stupirmi è che la sinistra istituzionale sostenga questo o quanto meno che non vi si opponga con durezza. Mi chiedo come la sinistra possa sostenere quella che è un’evidente operazione di mercato. Ci sono agenzie che si reclamizzano per sfruttare il corpo di donne povere al fine di produrre bambini che, a loro volta, diventano merci vendibili. Resta da chiedersi: come si è giunti a questo? Attraverso la “scienza”, certo. La scienza progredisce strutturalmente, pertanto, fare una critica della scienza dal punto di vista della tendenza allo sviluppo mi sembra del tutto deleterio. La scienza ha un intrinseco desiderio di conoscere ed esplora ogni campo possibile. Un nuovo campo possibile, ora, è diventato quello della fecondazione in vitro. All’inizio essa permetteva di ovviare a problemi organici a causa dei quali la fecondazione non poteva avvenire in utero. A partire da questa opportunità, il mercato ha assorbito la rilevanza e il profitto che potevano generarsi dalla fecondazione in vitro. Questo profitto è cospicuo perché il flusso di denaro che circola in questo settore è in crescita costante. Io non ho molto da dire, se non mettere in guardia rispetto alla falsità di alcune narrazioni nelle quali si sostiene che le donne lo facciano gratuitamente perché vogliono donare la vita. Si tratta di invenzioni di marketing. Sono ipocrite. Se persone istruite che conoscono le retoriche delle strategie di marketing accettano queste narrazioni come vere e genuine, allora io, personalmente, non posso che parlare di ipocrisia.
Nel testo ricorre più di una volta la sottolineatura di un rischio che è quello di spostare l’asse del riferimento dalla differenza sessuale a un’altra modalità di concepire la differenza, ovvero nei termini di pura diversità individuale. In particolare, questo scivolamento viene da voi attribuito alle tendenze interne ai movimenti transfemministi contemporanei, che dal punto di vista teorico appaiono essere influenzati dalle riflessioni di Butler. In cosa consiste questa distinzione? Secondo lei è possibile elaborare una critica significativa al sistema patriarcale prescindendo dal riferimento alla differenza sessuale?
Cavarero: A questa seconda domanda voglio rispondere immediatamente: no. Il patriarcato è quel sistema che gerarchizza i sessi, garantisce privilegi agli uomini e subordina le donne, in una molteplicità di modi che divergono notevolmente a seconda del contesto storico, dagli antichi alla modernità, passando per il cristianesimo. Dal mio punto di vista, se prescindiamo dalla differenza tra uomo e donna, cioè dal fatto che si tratta di due soggetti sessuati diversi, bisogna tenere in considerazione che il patriarcato – al contrario – non dimentica questa differenza. Un esempio concreto: nell’organizzazione del lavoro la relazione patriarcale è ancora in vigore sebbene sottaciuta e apparentemente oscurata dalle agende che impongono di non considerare la differenza tra uomo e donna. Questo vale solo teoricamente. Il mercato del lavoro, dal punto di vista del riconoscimento del sesso maschile e femminile, non si sbaglia. Non si può elaborare il concetto di patriarcato se non si mette in primo piano che i sessi sono due e sono disposti gerarchicamente. Per quanto riguarda la distinzione tra differenza sessuale e differenze singolari, voglio chiarire che, essendo una studiosa di Hannah Arendt, penso che scopo della politica sia garantire uno spazio di interazione alle singolarità, alle “unicità incarnate”. Su questo tema ho scritto anche un libro, Democrazia Sorgiva. Note sul pensiero politico di Hannah Arendt (2019). Tuttavia, la differenza sessuale è un dato strutturale che attraversa le singolarità. Chi nasce è sempre un’unicità incarnata, ma ha anche, sempre, un sesso o l’altro. Abbiamo, ciascuno, una storia di vita, un’esperienza soggettiva che è singolare e unica. Il modo di esprimere questa singolarità è l’interazione in uno spazio comune, la costruzione di movimenti politici di riconoscimento delle differenze articolate all’interno della pluralità. Sottolineo pluralità, da non confondere né con la molteplicità delle diversità individuali, il cui rovescio è la radicale indifferenza, né con la moltitudine di Toni Negri. Eppure tutti noi abbiamo due gambe. Questo, forse, ci rende uguali? Certamente no. Il problema delle due gambe si pone a molti livelli, anche a livello filosofico perché siamo animali che non corrono molto in fretta, mentre le pantere, che hanno quattro zampe disposte diversamente, corrono più veloci. Ciò significa che esse hanno una modalità di adattamento ecologico e noi ne abbiamo un’altra. Nelle cacce primitive erano le pantere a cacciare noi, non viceversa. Questo ha determinato che la civiltà umana si organizzasse diversamente. Tutti gli elementi corporei non sono secondari rispetto alla storia umana, se è la storia umana che ci interessa… Ovviamente la differenza sessuale rientra fra questi elementi, non è secondaria quanto piuttosto strutturale, esattamente come lo è possedere uno stomaco.
Adriana Cavarero è professoressa onoraria all’Università di Verona dal 2019 ed ha insegnato come Visiting Professor nelle seguenti università americane e inglesi: University of California (Berkeley e Santa Barbara), New York University, Harvard University, University of Warwick e University of Chicago. Nel 1971 si è laureata cum laude in filosofia all’Università di Padova, dove ha poi svolto il dottorato di ricerca conclusosi nel 1974 con la pubblicazione della sua tesi di dottorato: Dialettica e politica in Platone. Ha poi collaborato con il gruppo di ricerca sui concetti politici fondato dal professor Giuseppe Duso, occupandosi del pensiero politico di John Locke e David Hume. Nel 1983, insieme, tra le altre, a Luisa Muraro, ha fondato la comunità filosofica Diotima a Verona, dove è stata professoressa ordinaria. Cavarero è riconosciuta, in Italia e all’estero, come una figura decisiva del pensiero della differenza sessuale. Tra le sue numerose pubblicazioni ricordiamo Nonostante Platone. Figure femminili della filosofia antica (1990), Tu che mi guardi, tu che mi racconti: filosofie della narrazione (1997), Democrazia sorgiva. Note sul pensiero politico di Hannah Arendt (2019) e l’ultimo testo, scritto assieme ad Olivia Guaraldo e pubblicato nel 2024 per Mondadori: Donna si nasce (e qualche volta lo si diventa).
Note
[1] N.d.r.: La Tartaruga è una casa editrice italiana fondata, nel 1975, da Laura Lepetit e Anna Maria Gregorietti Gandini. Si occupa di pubblicare libri di narrativa, critica letteraria, filosofia e politica scritti unicamente da donne. Legata a doppio filo con i movimenti femministi italiani, a partire dagli anni ’70 ha pubblicato – tra le altre – le opere di Virginia Woolf e Gertrude Stein oltre che la saggistica femminista prodotta da autrici appartenenti a Diotima come Adriana Cavarero, Luisa Muraro, Wanda Tommasi e Chiara Zamboni. Dal 2017, La Tartaruga fa parte del gruppo La Nave di Teseo e, dal 2021, è curata da Claudia Durastanti. Nel 2023 la casa editrice ha ripubblicato Sputiamo su Hegel (1970) e nel 2024 Taci, anzi parla (1978) di Carla Lonzi, nel contesto di un progetto editoriale che prevede una nuova pubblicazione dell’intera opera dell’autrice fiorentina.
(Blog Leparoleelecose.it, 19 febbraio 2025)