16 Febbraio 2025
Corriere della Sera

Irrequieta Leonor Fini. Il surrealismo sono io

di Stefano Bucci


Nella coda delle celebrazioni per i cent’anni del movimento di André Breton, Palazzo Reale di Milano


Nel 2024, anno delle celebrazioni ufficiali per i cent’anni del Surrealismo, l’ondata delle riscoperte aveva (finalmente) toccato Leonora Carrington (1917-2011), Ithell Colquhoun (1906-1988), Remedios Varo (1908-1963), Dora Maar (1907-1997), Dorothea Tanning (1910-2012): artiste irrequiete ma consapevoli del proprio talento, alle quali quel movimento surrealista del poeta André Breton e di Max Ernst, Salvador Dalí, Man Ray, Jean Cocteau, Georges Bataille sembrava andare terribilmente stretto.

Proprio come Leonora, Ithell, Remedios, Dora e Dorothea anche Leonor Fini (Buenos Aires, 30 agosto 1907 – Parigi, 18 gennaio 1996), protagonista della personale che si inaugura il 26 febbraio al Palazzo Reale di Milano (Io sono Leonor Fini, a cura di Tere Arcq e Carlos Martín) riconquista con questa mostra (nata sempre sull’onda del centenario) quel ruolo che in qualche modo le era stato troppo a lungo negato: forse per quel carattere spinoso e orgoglioso che traspare dall’Autoritratto con il cappello rosso (1968); forse per quelle sue figure troppo inquietanti e troppo oscure per un salotto alto-borghese (Stryges Amaouri, 1947); forse per quell’erotismo molto fluido e transgender (Rasch, Rasch, Rasch, meine Puppen warten!, 1975).

L’universo di Leonor Fini è l’universo trasgressivo di Démons et sortilèges (1943), dell’Escalier dans la tour (1952), della Cérémoine (1960), della Grande Racine (1943), di Crâne de poisson africain (1945-1950). Dopo la Biennale di Venezia (Il latte dei sogni) che nel 2022 l’aveva ospitata nel Padiglione Centrale ai Giardini e dopo la mostra Insomnia al Mart di Rovereto nel 2023 che l’aveva messa a confronto con un altro visionario come Fabrizio Clerici (1913-1993), Palazzo Reale propone la definitiva riscoperta dell’universo di Leonor attraverso un centinaio tra dipinti (una settantina), disegni, fotografie, costumi, libri, video che di fatto superano ogni possibile confine di stile, genere, ruolo, convenzioni. Con la sua dedica una retrospettiva alla pittrice che indagò e stravolse genere, identità, appartenenza, ribaltando i ruoli di uomo e donna in società e sulla tela

pittura, pervasa di una nuova mitologia costellata di creature inquietanti e fantastiche (L’ange de l’anatomie, 1949), Leonor rilegge la realtà attraverso una lente intrisa di sensualità, magia e potere. Mettendo in scena un potere tutto o quasi al femminile che trova degna rappresentazione in un’altra opera simbolo della mostra milanese, Femme assise sur un homme nu (1942), dove una donna vestita con un sontuoso abito di velluto torreggia letteralmente seduta su un uomo nudo addormentato, sullo sfondo di un paesaggio neo-rinascimentale: un modo per invertire i ruoli, negando le tradizionali caratteristiche maschili (potere, virilità, stoicismo) ed esplorando allo stesso tempo le tematiche della dominazione e della sottomissione.

Nata a Buenos Aires da Herminio Fini, argentino di origini italiane (proprietario di numerose haciendas) e Malvina Braun, triestina appartenente all’alta borghesia ebraica, all’età di due anni Leonor si rifugia con la madre a Trieste per fuggire da un padre oppressivo. I molteplici tentativi con cui quest’ultimo prova a riportarla in Argentina nel corso degli anni la spingono a camuffarsi da ragazzo, gettando le basi per i suoi travestimenti e le sue inversioni di genere. Durante un breve “passaggio” milanese Leonor conoscerà Carlo Carrà, Gio Ponti (che le commissiona alcuni disegni per la rivista “Domus”), Mario Sironi, Giorgio de Chirico, e poi Achille Funi, con cui stringe una relazione sentimentale e grazie al quale scopre l’arte classica e la pittura quattrocentesca.

Sarà proprio de Chirico che le consiglierà di trasferirsi a Parigi e che le farà conoscere i surrealisti. Pur sviluppando legami significativi con artisti di spicco come André Breton, Luis Buñuel e Max Ernst, Fini rifiuterà l’invito a unirsi ufficialmente al gruppo, rigettando l’idea tradizionale che Breton e gli altri avevano delle donne. Comincia così a lavorare per la stilista italiana Elsa Schiaparelli (per lei inventerà la boccetta del profumo «Shocking» ispirata al busto dell’attrice Mae West) e a disegnare costumi per il balletto, il teatro e il cinema. Allo scoppio della Seconda guerra mondiale, Leonor Fini lascia Parigi e si rifugia in un primo momento nella casa di campagna di Max Ernst e Leonora Carrington (all’epoca amanti assai turbolenti), poi a Montecarlo. Dove conosce il console italiano Stanislao Lepri, che abbandonerà la carriera diplomatica per la pittura. La loro storia d’amore durerà fino alla morte di lui nel 1980, con un (breve) soggiorno a Roma, dove Leonor stringerà amicizia con Anna Magnani, Elsa Morante («Leonor unisce in sé due grazie: l’infanzia e la maestà»), Mario Praz, Carlo Levi, Luchino Visconti, Alberto Moravia.

L’arte di Fini (che guarda sempre ai grandi maestri come Piero della Francesca e Michelangelo e ai manieristi) è dunque un veicolo non solo per esplorare le sfide della condizione femminile, ma anche per contemplare la spiritualità e l’esoterismo. Un destino che ancora una volta avvicina Leonor Fini a Leonora Carrington (il titolo della Biennale di Venezia 2022 era una citazione di un suo libro di favole), un destino confermato dalla scelta di Palazzo Reale di dedicare proprio alla Carrington una grande retrospettiva che si inaugurerà a settembre 2025. Entrambe le artiste hanno fatto «da modello» per intere generazioni di artisti. Non a caso Leonor Fini – Italian Fury era il titolo della mostra che Francesco Vezzoli le aveva dedicato nel 2022 alla Galleria Tommaso Calabro («The Italian Fury» era uno dei soprannomi di Leonor): «Fini è l’antidoto a questo momento storico dominato dal mercato: – aveva spiegato Vezzoli – è identità, eccentricità, messa in scena, tutto ciò che il mercato non può controllare. È insieme la Contessa di Castiglione, Eleonora Duse, Marina Abramović: anticipando la contemporaneità, la sua opera d’arte era la performance della sua esistenza».


(Corriere della Sera, 16 febbraio 2025)

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