1 Marzo 2025
la Repubblica

Non cediamo la libertà alla dittatura digitale

di Miguel Benasayg


È difficile, in questo periodo storico, parlare di scelte e di capacità di agire in modo naïf. Non è un tema da dibattito superficiale. Bisogna innanzitutto proporre una contestualizzazione storica per cogliere come questa problematica sia tipica dell’Occidente moderno e muova proprio da un paradigma e un’ontologia (nel senso di Descola) ben precisi. La Modernità occidentale, con le sue molteplici sfumature e non senza eccezioni (pensiamo a Spinoza), ha eletto l’Uomo unico ente a essere, oltre alla divinità, causa sui, causa di se stesso, capace di scegliere razionalmente e quindi libero di agire secondo volontà. La libertà coincideva con il dominio: essere libero significava poter dominare le proprie passioni, le tentazioni, la propria fragilità – tutto ciò che ci sovra-determina. Soltanto l’umano, essere razionale e cosciente, poteva aspirare a un tale statuto. Ma in questo paradigma antropocentrico, l’anthropos che si trova al centro non è l’essere umano in quanto appartenente alla specie umana, ma l’Uomo prodotto dal dispositivo della Modernità, che corrisponde a un ritaglio ben preciso. L’Uomo della modernità, ossia l’individuo razionale e libero, si definisce ed è costruito per esclusione da tutti coloro che sono totalmente sovra-determinati, quindi non liberi: le donne, i bambini, i pazzi, gli indios e così via. La capacità di sfuggire alle sovra- determinazioni è data dalla ragione e dalla coscienza, come mostra bene il classico esempio di Buridano: di fronte a due fasci di fieno con accanto un secchio d’acqua ciascuno, un asino affamato e assetato non sa cosa scegliere e finisce per morire di fame e di sete. Le parole usate da Popper quando riprende il paradosso di Buridano sono chiare: «non c’è niente che lo determini ad andare da una parte o dall’altra», le sovra-determinazioni si equivalgono e la scelta, senza un’istanza “superiore” che sfugga alle determinazioni, risulta impossibile. Insomma, la problematica della scelta resa possibile dal libero arbitrio e dalla ragione umana è tipica della cultura occidentale. La libertà non è intesa, nelle culture para-moderne, come una proprietà dell’individuo razionale che deve emanciparsi dalle proprie determinazioni.

Ma l’individuo razionale e libero situato al centro del dispositivo antropocentrico della Modernità, oggi, non esiste più. Esso era infatti il prodotto di tale dispositivo e dell’epoca che l’ha modellato. I processi concreti di autoproduzione del mondo e dell’epoca attuale producono invece un profilo sovra-determinato, che può, tutt’al più, funzionare. In questo nuovo dispositivo caratterizzato dal funzionamento totale, l’umano ha perso il ruolo di causa sui a profitto della macchina e sperimenta un’impotenza senza pari. Se, in ogni caso, essere causa sui corrisponde più a una narrazione che a una realtà concreta, questa narrazione accompagna processi concreti e materiali. I processi di delega di funzioni alle macchine contribuiscono al sentimento di impotenza degli esseri umani, che ormai si sentono svuotati della loro singolarità e sovra-determinati dalle macchine e dal mondo digitale. È un’esperienza quotidiana e comune a tutti. L’entrata in scena di nuove sofisticate forme di intelligenza artificiale porta con sé la domanda angosciante: «cos’ha la macchina in più di noi?». Il problema è che, ponendoci questa domanda, stiamo accettando di porre il vivente – l’umano in questo caso – sullo stesso piano della macchina, negando quindi ogni alterità. Come se la differenza risiedesse in un modulo in più che mancherebbe agli umani per essere come la macchina. La vera sfida, oggi, è quindi capire come ristabilire un’alterità possibile tra il vivente e la cultura e il mondo digitale. Le macchine “di aiuto alla decisione”, ormai, “decidono” da sole e l’umano segue, “funzionario della tecnica” (Galimberti) che è ormai l’unica fonte di normatività (ciò che la tecnica rende possibile, diventa obbligatorio). In questo contesto, quindi, parlare di scelta e azione diventa ancora più complicato.

Sembra ormai chiaro che bisogna rinunciare a ogni divisione astratta tra “volontà” e “azione”. Lo schema classico di un individuo separato dal mondo che sceglie liberamente per poi agire non regge più ed è impotente nel capire i cambiamenti cui assistiamo. Seguendo Leibniz e Wittgenstein, possiamo affermare che non esiste una distinzione tra volontà e azione, che non esiste un soggetto libero che prima “vuole” e poi “agisce”, estraendosi dai processi che lo attraversano e dalle determinazioni che lo caratterizzano. Tutt’al più, possiamo affermare che la volontà si svela nell’agire: non è perché lo voglio che alzo il braccio, ma perché l’ho alzato che posso dire che lo volevo. È quindi nell’agire e nelle pratiche cui si partecipa che si svela la voglia di ciascuno, e l’agire emerge sempre da corpi territorializzati, sicuramente sovra-determinati, situati. La libertà, in senso spinozista, non consiste tanto nel poter scegliere liberamente ma nel riuscire a conoscere le determinazioni che ci fondano, il desiderio che ci attraversa, per sostenerlo o meno. Per far ciò, è necessario però prendersi il rischio di dare ascolto e fiducia ai nostri corpi, di sperimentarne la potenza, resistendo quindi a una colonizzazione digitale opprimente che schiaccia l’interiorità profonda di ogni persona da cui emerge ogni azione possibile, per renderla un profilo catturato in un funzionamento in cui non c’è né scelta né agire.


(la Repubblica, 1° marzo 2025)

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