Stefano Ciccone
Da alcuni anni cerco di portare avanti con altri uomini, tra alterne vicende, una riflessione sulla nostra identità di genere, sui nostri rapporti con gli altri uomini e con le donne, sui nostri desideri e sulle nostre complicità con l’universo simbolico patriarcale, sulla percezione che abbiamo di noi stessi e sulla ricerca di una difficile strada di cambiamento che noi – forse con una forzatura – ci ostiniamo a chiamare di liberazione.
In questo percorso è stato fondamentale l’incontro con il pensiero politico e con la pratica delle donne ma anche la scelta di costruire spazi di confronto e di riconoscimento reciproco tra uomini.
Il dialogo con il femminile, è avvenuto sempre in forma molto privata: o attraverso la lettura di scritti che mi hanno fornito parole e sguardi per la mia ricerca o attraverso relazioni personali.
Questo dialogo ha poi costituito nei luoghi costruiti dalle donne un’altra occasione per riflettere, per misurarsi con tematiche e contraddizioni nuove: luoghi fisici come i tanti seminari, corsi, laboratori organizzati da associazioni di donne, ma anche riviste, saggi pubblicati da gruppi politici o accademici femminili .
Ma sentivo che tale esperienza aveva generato ormai una nuova necessità, peraltro condivisa anche con quelle donne con cui avevo costruito uno scambio politico: dare alla relazione tra donne e uomini una dimensione pubblica e di reciproca autonomia. Non più l’uomo invitato a portare il proprio contributo in un luogo definito dalle donne, ma la costruzione di uno spazio comune di ricerca e interlocuzione, di reciproco riconoscimento e responsabilità. Un tentativo non facile e non scontato, avviato molte volte e con molti arretramenti;. spesso segnato dal carattere dell’episodicità o dalla cornice formale del convegno o del seminario di studio.
La scorsa primavera decidemmo di tentare di costruire qualcosa di diverso: un’occasione in cui avere lo spazio e il tempo per stare insieme, per far decantare i pensieri e le emozioni, la scelta di dedicarsi reciprocamente del tempo per ascoltarsi e dirsi, l’opzione per una modalità di comunicazione il meno formale e astratta possibile, basata sulla ricerca e la narrazione autobiografica come strumento.
Abbiamo così organizzato un incontro di tre giorni ospitato dalla libera università dell’autobiografia di Anghiari, ricevendo l’adesione di donne e uomini di ogni zona d’Italia, di età e formazioni diverse
Nel corso degli incontri è emersa una intensa domanda conflittuale di comunicazione. Tutti e tutte siamo stati – credo – sorpresi dall’intensità del desiderio di costruire un luogo di comunicazione tra donne e uomini che superasse le secche della quotidianità, dei ruoli e dei luoghi comuni; che interrogasse nel profondo l’esperienza di ogni singolarità. Ma al tempo stesso siamo giunti a questo appuntamento con tutto il peso delle reciproche rappresentazioni e anche delle personali delusioni e diffidenze.
Soprattutto con il timore di essere fraintesi nell’essenzialità della nostra esperienza e delle nostre domande, di essere schiacciati da stereotipi e pregiudizi, di essere ridotti a “categorie”. Una tensione che riguarda i rapporti tra generi ma anche quelli tra diverse generazioni all’interno dello stesso genere e tra diversi orientamenti sessuali.
In questa tensione credo esista un nodo specifico riguardante la diffidenza verso il maschile. Ed è quello che intendo brevemente approfondire. Non solo perché mi riguarda ma perché mi pare alluda ad una questione più generale e cioè non la relazione con gli uomini in carne e ossa (in corpo e desideri, direi) ma con la storia del maschile come istituzione normatrice, appunto, dei corpi, delle relazioni, dei desideri.
Non è facile svincolarsi da questo retaggio, affermare che la propria individualità è altro da questa storia, perché sarebbe al tempo stesso vero ma inautentico. E soprattutto legherebbe la propria legittimazione ad accedere ad una relazione politica con le donne, la possibilità di costruire un percorso di ricerca di libertà con altri uomini, ad un atto di distacco, ad un’estraneità sempre esposti all’ambiguità.
Questa questione è emersa in tutta la sua esemplarità nell’affermazione di una donna che nell’incontro di presentazione tenutosi nella prima giornata, ha affermato di essere lì per capire se poteva cambiare idea sugli uomini e sulla rappresentazione che se ne era fatta negli incontri della sua vita.
La sua diffidenza, esplicitamente raccontata come frutto di una storia personale, sembrava richiamare nel nostro immaginario o una domanda di dimostrare di essere diversi (la responsabilità di mutare la sua idea degli uomini) o una chiusura di credito senza speranza (gli uomini sono in fondo tutti uguali).
Lo stesso si è configurato nell’incontro finale dove, dopo esserci separati, di nuovo nello spazio comune le donne hanno riferito un giudizio secondo cui “gli uomini si erano messi poco in gioco, poco esprimendo della propria individualità e spesso preferendo fuggire sul terreno dell’astrazione o del politicamente corretto”.
Una lettura che ha prodotto un cortocircuito tra quel desiderio di comunicazione e quella paura di non essere riconosciuti/e. Proprio facendo affidamento sulla forza di questo incontro ho sentito di voler condividere con le donne presenti un nodo che spesso segna la comunicazione tra i generi e cioè il fatto che quando le donne si pongono in una relazione che tenta di essere politica esercitano comunque una diffidente valutazione delle parole e dei gesti maschili.
Quanto la tua lettura di un disagio del maschile è figlia di una strategia vittimistica? Quanto la tua assunzione di alcune categorie prodotte dal pensiero delle donne è scimmiottamento o parte di un loro furbo uso mimetico? Quanto la tua ricerca di analisi della percezione del tuo corpo, delle dinamiche che nell’intimità parlano della relazione tra i corpi è una manovra diversiva per eludere il tema del potere e della politica?
Una diffidenza che può ostacolare un dialogo vero, fondato sulla reciproca autonomia ma anche una risorsa che mi ha aiutato a scavare meglio nelle mie rappresentazioni in cui tutti i conti tornano. Lo stupore reciproco è spesso occasione di conoscenza di sé e degli altri. E sarebbe riduttivo e ingeneroso leggere l’asimmetria dello sguardo femminile sulle mie parole o sui miei gesti solo con la categoria della diffidenza. Né chiedo come uomo una disponibilità incondizionata, un azzeramento dello sguardo critico e del conflitto per costruire un confronto politico con le donne che, in questa forma, perderebbe ogni valenza reale.
La diffidenza verso il maschile, inoltre, non è solo frutto di indisponibilità al confronto, facile rifugio per evitare di mettersi in gioco. E’ qualcosa che appartiene anche a me, anche a noi uomini che tentiamo di riattraversare criticamente la nostra appartenenza di genere e tentiamo di farlo anche collettivamente.
Per questo richiamarla non vuol dire esprimere un limite della relazione con le donne ma chiede di attraversare insieme una categoria che nella sua ambiguità ha una forza conoscitiva e di cambiamento.
A un certo punto della mia vita ho imparato a diffidare del maschile. Di quella facile complicità basata sul sorriso di sufficienza davanti alle intemperanze femminili, o sull’incrocio di sguardi dopo il passaggio di una donna. Ho imparato a diffidare di quella facile gratificazione derivante dallo scalare gerarchie nel gruppo di uomini, o dall’essere individuato da altri uomini come riferimento per la loro appartenenza o come oggetto della loro tensione competitiva. Ho imparato a diffidare dalla facile sensazione di avere un posto certo nel mondo, dell’uso raffinato delle costruzioni intellettuali che nascondono miserie umane.
Ho scritto facile ma avrei potuto dire “naturale”.
La naturalità dell’essere uomo, dei miei gesti, del mio posto nel mondo, delle gerarchie in cui mi muovo. Questa diffidenza mi ha costretto continuamente a un secondo sguardo che andasse oltre la presunta naturalità di quell’universo di cui sono parte e ne indagasse il senso e le radici.
Questo sguardo, questa distanza oggi mi porta a cercarne le ragioni, i bisogni e i desideri senza restare distacco, fastidio, diffidenza inevitabile.
E’ inevitabile perché ormai un universo si è incrinato ed ha perso, appunto, la possibilità di apparire ai nostri occhi come naturale. Così come i tentativi di ripristinarlo non possono che apparire delle goffe caricature. Inevitabile perché frutto di un disvelamento che mi impedisce di guardare con occhi “innocenti”, mi impedisce di ignorare nella loro valenza le continue chiamate di correità, le richieste di complicità che quotidianamente l’universo maschile, ma spesso anche quello femminile mi propongono. Non è più possibile per me ascoltare la retorica di un discorso, osservare il senso di sufficienza di un sorrisetto, assistere all’ostentazione muscolare ed eroica in un corteo o in un telegiornale senza quel senso di estraneità, quel fastidio epidermico che sono l’esito della fine di un credito ad un universo di valori e comportamenti ormai ineluttabile.
E’ una risorsa per la capacità di offrire anticorpi rispetto alla seduttività e alla potenza identitaria che modelli e linguaggi patriarcali sembrano nuovamente operare sugli uomini a fronte della crisi di prospettive diverse di costruzione di senso individuali e collettive. Ma questa diffidenza è anche una zavorra che mi porto dietro, un ostacolo che mi impedisce di ascoltare fino in fondo un altro uomo, che mi impedisce di nominare fino in fondo i miei desideri di costruire una socialità maschile che vada oltre l’alternativa tra complicità e competizione, tra cameratismo e silenzio.
Come costruire una comunicazione politica tra donne e uomini in cui l’ascolto non sia l’esito di una rimozione inautentica di questa diffidenza, di un gesto ineguale di apertura di credito incondizionata, ma neanche resti incompiuto lasciando ognuno/a con le proprie sicurezze e le proprie pigrizie?
Come costruire un percorso di ricerca e liberazione tra uomini in cui il riconoscimento reciproco, la creazione di uno spazio dove fare emergere tutti i propri sentimenti i propri bisogni, i conflitti che si vivono anche nella loro contraddittorietà resti sguardo critico e non si tramuti in mutuo sostegno, solidarietà verso l’incomprensione femminile, reciproco riconoscimento complice, occasione per esprimere l’indicibile nel mondo del politicamente corretto?
I tre giorni vissuti ad Anghiari hanno rappresentato, prima ancora che nei contenuti emersi, nella forma e nella qualità della relazione tra noi, una possibilità.
Di questo voglio ringraziare le donne e gli uomini che vi hanno partecipato sperando che anche questo intervento sia riuscito a spiegare come quel mio richiamo alla “diffidenza verso il maschile” non fosse frutto di una incapacità di vedere la forza e l’autenticità con cui le donne presenti hanno scelto di porsi in ascolto e in relazione ma, al contrario, della percezione che proprio la capacità di aver costruito insieme quel luogo di ascolto reciproco permettesse di condividere e attraversare insieme quel nodo problematico.
Questo confronto tra donne e uomini è aperto, continuerà ad Anghiari e nei molti luoghi che si sono aperti in questi ultimi tempi.