Di Stefano Ciccone e Catia Papa
Negli ultimi decenni il pensiero politico occidentale, i differenti saperi costruiti intorno alle relazioni umane ed anche le nostre concrete vite di donne e di uomini hanno dovuto misurarsi con un cambiamento radicale nella rappresentazione della realtà: con la scoperta cioè che il mondo è abitato da individui la cui identità sessuale non è né un dato accessorio né la declinazione di un neutro da ordinare gerarchicamente.
Dagli anni Settanta, infatti, dalla comparsa di una nuova soggettività femminile che non accetta più di essere raffigurata da una parola maschile che la definisca in termini di complementarietà o minorità, è finalmente divenuta visibile la presenza di due differenze, di due irriducibili forme dell’esperienza umana che, seppure continuamente ridisegnate storicamente e socialmente, al tempo stesso affondano nella ineludibile materialità dei corpi. Oggi è dunque diventato impossibile pensare un’idea della politica, della scienza, delle relazioni sociali, delle rappresentazioni del corpo che non faccia i conti con il pensiero politico delle donne e con ciò che questo rappresenta come critica a un sapere presunto neutro ordinatore dei corpi e delle parole.
Si tratta di un mutamento che troppo spesso viene letto come fonte di una “crisi” di identità del maschile incalzato da un femminile che lo insegue sul terreno della gestione del potere o dell’accesso alle opportunità di cittadinanza; mentre invece dovrebbe essere visto come una grande occasione fornita a donne e uomini per scoprire una diversa esperienza di sé e delle relazioni possibili con l’altro sesso e all’interno del proprio sesso. Ma per essere davvero un’occasione per ripensarsi, questo mutamento richiede di trovare nuove parole per raccontarsi reciprocamente, per rendere visibile un vissuto differente e pensabile una conoscenza e comunicazione non più fondate su una presunta specularità, bensì sull’ascolto dell’altro/a nella sua condizione di alterità mai comprensibile fino in fondo.
A dispetto di quanto ancora accade nei luoghi “misti” della politica o dell’accademia, in larga parte impermeabili alla riflessione sul carattere sessuato delle soggettività e quindi dei poteri e dei saperi, occasioni di confronto tra donne e uomini sono nate più volte negli anni scorsi. Molto spesso cercate e rese possibili dalle donne nel tentativo di riempire un vuoto nella riflessione e nell’iniziativa su nodi che chiamavano direttamente in causa i comportamenti maschili (come lo stupro, la prostituzione, o la condivisione del lavoro di cura), altre volte frutto di relazioni politiche cresciute senza un riconoscimento e una visibilità nei movimenti, nei partiti o nei luoghi della formazione. Si è trattato di incontri episodici, segnati da una disparità dovuta alla differente dimensione dell’esperienza politica delle donne rispetto alla fragile e quasi sotterranea riflessione avviatasi tra gli uomini sulla propria condizione sessuata. Eppure il desiderio di costruire un confronto politico tra donne e uomini, consapevoli della propria parzialità e disposti a metterla in gioco nella relazione, ha continuato ad inseguire in modo sotterraneo la ricerca di molte e di molti. Ed è infine emersa la necessità di dargli uno “spazio”, di costruirlo insieme, donne e uomini, riconoscendo un valore fondativo a questa scelta; uno spazio comune: né occasionale né fortuito, né istituzionale o già segnato, come più volte in passato, dall’essere frutto della storia e della pratica delle donne.
È nata così, questa estate, l’idea di un incontro di tre giorni fra donne e uomini alla Libera Università dell’Autobiografia di Anghiari. Nella lettera d’invito, girata perlopiù in rete, abbiamo esplicitato proprio questo nostro desiderio di creare un luogo di riflessione comune, nel quale interrogare le proprie appartenenze di genere, le complicità ed estraneità di ognuna e di ognuno nei confronti dei modelli identitari che le caratterizzano, nel quale misurarsi con lo sguardo dell’altro/a, con le continuità e discontinuità nelle relazioni tra i sessi, valorizzando e non misconoscendo i motivi di conflitto, perché giudicati una risorsa e non un ostacolo al dialogo. Un obiettivo ambizioso che, al di là delle nostre stesse aspettative, ha trovato una favorevole e diffusa accoglienza. Per la prima volta – e fuor di retorica – donne e uomini molto differenti tra loro per età, orientamenti sessuali, formazione culturale e politica, quindi con percorsi eterogenei di accostamento al problema delle identità sessuate e al pensiero sedimentato dal movimento femminista, hanno voluto e saputo incontrasi per dare vita a tre giorni di serrato dialogo. La scelta, non casuale, dell’approccio autobiografico, della pratica del racconto e dell’ascolto, vissuti con schiettezza anche quando sono emerse vicendevoli distanze, tensioni conflittuali nel rapporto tra i sessi e tra le generazioni, ha sicuramente aiutato questo dialogo. La dimensione generazionale ha infatti segnato profondamente l’incontro, disarticolando in vario modo linguaggi e complicità, mettendo soprattutto in luce le tante stratificazioni di senso che compongono i nuovi e molteplici universi femminili e maschili. L’eterogeneità, dunque, è riuscita ad essere un elemento di ricchezza, forse anche in virtù dell’eccezionalità dell’esperienza.
Sin dal primo giorno, infatti, facendo il giro delle presentazioni, il carattere “speciale” dell’iniziativa a cui stavamo dando vita ha cominciato ad emergere: mano a mano che ognuna e ognuno di noi prendeva la parola si andavano costruendo, con un po’ di stupore, i confini di uno spazio percepito come radicalmente “altro” da quelli frequentati abitualmente, in un quotidiano spesso vincolato da relazioni “silenziose”, ormai profondamente problematizzate e, nondimeno, ancora frequentemente costrette in tracciati tradizionali, segnate da un vago senso d’impotenza o solitudine. I differenti vissuti portati in dote, la reciproca curiosità, la disponibilità al dialogo anche a fronte di incomprensioni e tensioni conflittuali: sono stati questi alcuni degli elementi che hanno contribuito al riconoscimento della singolarità dell’evento. Una singolarità che potrebbe rappresentare anche un irrisolto, o meglio un’ambiguità di questa esperienza, proprio perché vissuta in un luogo “protetto” e in un tempo “sospeso” rispetto alle urgenze e priorità, alle miserie dei rapporti sociali e dell’agire politico che contraddistinguono la nostra quotidianità. La stessa eccezionalità della situazione potrebbe quindi rappresentare un suo limite, come ben esprimeva la domanda che, sebbene sottintesa, già circolava ad Anghiari: “che “uso” posso farne di tutto questo una volta uscita/o da qui?”.
E tuttavia non è stata la difficoltà di pensare in prospettiva l’esperienza che stavamo vivendo a costituire la fonte di maggior disagio dei tre giorni d’incontro. Il disagio, che crediamo abbia comunque contribuito a suscitare interrogativi e liberare desideri anche in coloro che l’hanno percepito con più forza, è stato piuttosto generato dal confronto con la pluralità dei punti di vista presenti, dall’essere stati chiamati e chiamate in causa su terreni poco praticati e magari non sentiti come propri, e, soprattutto, dalla paura del misconoscimento delle identità in gioco.
Tra le tensioni che hanno attraversato quelle giornate, infatti, senz’altro la più sentita – com’era forse prevedibile – è stata quella dettata dal timore di un possibile trasversale “misconoscimento”, cioè dall’essere ricondotte e ricondotti agli stereotipi di genere o generazionali, mentre, al contrario, il desiderio era di essere guardate e guardati nella propria irriducibile singolarità, di poter valorizzare a pieno l’originalità dei percorsi individuali, della propria storia, della propria ricerca. Il rischio della banalizzazione o del fraintendimento è stato sempre presente.
Sugli uomini ha continuato a pesare il rapporto con la “storia degli oppressori”, sia come aspettativa (più o meno fiduciosa) di poter essere diversi dai modelli maschili incontrati dalle donne presenti, sia come necessità di anteporre al dialogo una preliminare legittimazione della parola maschile o una verifica di “autenticità” del loro mettersi in gioco, sentite in quanto tali nel corso delle tre giornate oppure, com’è stato suggerito da alcune donne, retaggio del confronto con la generazione del cosiddetto “femminismo storico”. Proprio la questione di una “diffidenza” verso la parola maschile ha fatto esplodere il conflitto forse più profondo di quei giorni fra quegli uomini che, ponendola, non intendevano disconoscere la disposizione all’ascolto delle partecipanti all’incontro, quanto piuttosto porre un problema politico-culturale che investe loro stessi nel rapporto col maschile, e quelle donne che, misurando invece la propria esplicita apertura nei confronti del percorso maschile, si sono sentite ugualmente non riconosciute oppure, com’è stato detto, “trasparenti” allo sguardo degli uomini presenti (e da qui una rinnovata “diffidenza”). Quest’ultima questione non ha riguardato però solo il rapporto tra donne e uomini, bensì anche, o soprattutto, quello tra le differenti generazioni di donne, arricchito da un pensiero femminile ormai sedimentato ma, al contempo, non di rado appesantito da quella stessa “eredità”, percepita come qualcosa di fissato che inibisce i nuovi percorsi soggettivi e collettivi di riflessione e produzione critica del sapere. E ancora altre estraneità si sono fatte sentire, da parte di chi, uomini e donne, vuoi per età, per orientamento sessuale, per formazione e vissuti differenti, non si è riconosciuto/a in nessuna di queste problematiche. La presenza di omosessuali, ad esempio, ha permesso di “disarticolare” alcune rigidità del confronto tra generi, di disvelarne gli schematismi, di proporre “ridislocazioni” di conflitti e identità. L’omosessualità maschile, che anche in questa occasione è stata molto più visibile ed espressa di quella femminile, ha finito con il disorientare positivamente anche le donne, che hanno trovato di fronte a sé un universo maschile non riducibile ad unità ed univocità.
Più in generale, le categorie che siamo stati abituati ad usare: di “femministe storiche”, di “nuove generazioni di donne”, di “uomini critici”, di omosessuali ed eterosessuali ecc., sono infine apparse a tutte e tutti degli abiti stretti in cui non era possibile esprimere a pieno la propria realtà e le proprie domande. L’irriducibilità delle singolarità, la molteplicità dei percorsi politici di donne e uomini, le diverse declinazioni della differenza sessuale, non riducibile a due, la conseguente non “rappresentatività del genere” sono emerse, nei tre giorni ad Anghiari, come il principale nodo politico ed esistenziale.
Questo bisogno di riconoscimento si è espresso in varie forme, traducendosi anche nella riproposizione dell’immagine della “persona”, come ricerca di una soggettività liberata dai contenuti prescrittivi dell’identità collettiva, del dover essere – quasi fosse un codice indifferente alla propria unicità – prima di tutto donna oppure uomo. Lungamente si è discusso intorno a questo tema, riuscendo a far affiorare, in un percorso condiviso, il potenziale di liberazione insito nella stessa ammissione della propria soggettività incarnata: prima e irrinunciabile differenza da cui muovere per rivendicare la cittadinanza di ogni differenza: non una gabbia, dunque, ma un piano assolutamente individuale e al contempo pienamente relazionale, perché prodotto dell’intreccio di forze materiali e simboliche, di risorse affettive e costrutti culturali. Di non altro voleva parlare l’iniziativa di Anghiari se non della ricchezza relazionale che proviene dal riconoscimento dell’essere “incarnati” in corpi di donne e di uomini. E però senza incorrere nell’ingenuità di considerare il corpo come il luogo di un’autenticità, di una verità che solo aspetta di poter emergere, magari emarginando la parola, diffidando dell’astrattezza del pensiero formalizzato, come se il corpo non fosse – lo si è detto – un campo di intersezione tra forze differenti, come se non fosse anch’esso un segno diversamente decifrabile.
Il coinvolgimento del corpo attraverso alcuni giochi ha semmai infranto alcune rigidità iniziali, generando anche inconsapevolmente uno scarto nella comunicazione, facendo emergere difficoltà che le parole avevano parzialmente omesso od occultato. Seguendo la modalità di lavoro che avevamo scelto, basata sulla divisione in gruppi che tornavano a confrontarsi in plenarie, abbiamo infatti sperimentato momenti comuni di “gioco” in cui far incontrare i corpi, sperimentare la disponibilità ad affidarsi, lasciandosi cadere tra le braccia dei partecipanti o facendosi condurre ad occhi chiusi oppure, ancora, vivendo l’intensità, e forse il disagio, del prendere le mani ad occhi chiusi di qualcuno/a di cui non si conosceva l’identità e quindi sperimentare questa inattesa intimità. Riflettendo nei gruppi sulle emozioni vissute, è emerso tutto l’imbarazzo di alcune situazioni ma anche un’inedita e ricca esperienza di sé come donne e uomini in carne ed ossa, con i nostri desideri e le nostre resistenze, con il peso della storia che il nostro corpo ci rimanda: i confini tra generi sono affiorati nella loro dimensione meno razionale e così anche, nella relazione privilegiata e più intima dei piccoli gruppi, le tensioni di ognuno e di ognuna nel rapporto col proprio corpo.
La comunicazione nei piccoli gruppi ha rappresentato uno dei momenti più intensi e significativi dell’incontro toscano, costruendo quel patrimonio di fiducia e ascolto reciproco che ha permesso di sviluppare il confronto più ampio e di “sopportare” le molte strettoie e fatiche dei tre giorni; sebbene senza la divisione in due gruppi, di sole donne e soli uomini, l’andamento dell’incontro avrebbe forse risentito di troppi non detti, della non emersione, nella dimensione “mista”, di alcune questioni conflittuali.
In realtà, nella preparazione dell’incontro avevamo sottovalutato la necessità di prevedere occasioni dove sperimentare un rapporto privilegiato tra sole donne e tra soli uomini, per poi coglierne l’utilità nel corso dell’ultima giornata. La stessa possibilità di un incontro tra donne e uomini, di una relazione anche conflittuale ma costruttiva, si è rivelata più facilmente praticabile sulla scorta di una comunicazione all’interno del proprio genere dove misurare con più libertà le proprie ambiguità, le proprie diffidenze, i propri desideri. Al tempo stesso, l’incontrarsi di nuovo in un luogo misto, dopo il confronto in gruppi separati, ha generato significativamente uno dei momenti di più intenso contrasto, le parole sono tornate ad irrigidirsi in formulazioni come “voi uomini – voi donne…”, che sono state percepite come un “tradimento” della comunicazione costruita nei giorni precedenti nei gruppi misti, dove le aspettative e diffidenze avevano potuto misurarsi e rispecchiarsi nell’esperienza asimmetrica delle/degli altre/i.
Anche nelle tre giornate ad Anghiari, insomma, la ricchezza e curiosità del dialogo non ha sottaciuto i conflitti tra donne e uomini, seppure abbiano spesso oscillato tra la loro costrizione nei vincoli del “politicamente corretto”, la loro espressione con una carica di rivalsa che non sempre ha trovato le parole per divenire conflitto politico e, infine, la reciproca diffidenza o delusione per l’impossibilità a capirsi che non trova l’agio per divenire semplicemente ascolto. Rispetto a questo, la presenza dell’omosessualità maschile ha rappresentato, come abbiamo già detto, un’occasione per arricchire il confronto, anche se a volte, la scelta di mettere in gioco la propria omosessualità è sembrata rispondere, non senza ambiguità, al tentativo di “porsi fuori” da un conflitto di genere e da una genealogia maschile, giocando la propria alterità come “vantaggio” che emancipa dalla normatività dei modelli. La possibilità di agire forme del maschile non univoche, ma al tempo stesso tutte appartenenti allo stesso universo, ha comunque ampliato molto la capacità di dialogo del gruppo, facendoci uscire spesso dall’impasse: permettendo agli uomini eterosessuali di lasciare che il conflitto, che non riuscivano ad agire in modo diverso, venisse “detto” da altri uomini che lo rappresentavano attraverso una diversa declinazione, e alle donne di misurarsi con un interlocutore differente che le interrogava e permetteva loro di esprimere una “differenza” non riducibile alla contrapposizione con il maschile dominante.
Il rapporto delle donne con gli uomini omosessuali è apparso tra l’altro più libero dalla dinamica della seduttività, o meglio, ha permesso di esercitarla perché scevra della sua connotazione più immediatamente sessuale o erotica. Ma la tensione seduttiva ha attraversato, seppure in modo sotterraneo, quelle giornate, esprimendo la sua potenzialità in termini di attivazione della curiosità, della comunicazione, di uno sguardo attivo e di un ascolto partecipato. Anche quando è stato percepita come “rischio” di inquinamento della relazione e delle reciproche autonomie. Ciò che conta, è che nel vivere questo gioco seduttivo, la forza della relazione tra donne e tra uomini, la costruzione di un discorso comune e di un reciproco riconoscersi e darsi valore, si è rivelata una risorsa capace di mutarne il segno e di invertire l’esperienza spesso subita quando vissuta individualmente nella quotidianità.
Tra le aspettative riversate nelle tre, intensissime, giornate l’ultima che vogliamo qui ricordare riguarda l’aspirazione e la ricerca di “modelli” positivi da ricostruire sia nelle relazioni tra i sessi sia nella costruzione della propria identità di genere. Un’aspettativa evidentemente illusoria ma che parla di un disagio, di un desiderio a cui le pratiche che abbiamo costruito fino ad oggi non sono state in grado di rispondere. Come creare una relazione tra generazioni diverse di donne che dia significato alle differenti esperienze e ai diversi linguaggi e permetta un riconoscimento e uno scambio di senso? Come proseguire la riflessione maschile sulla propria condizione sessuata? Come dare vita a percorsi comuni di donne e uomini che rispondano al desiderio di “essere nel mondo” e che non occultino o rimuovano la ricchezza che abbiamo sperimentato emergere dal “dire la differenza”? Come fare di questo nuovo sguardo sul mondo uno strumento e non un impaccio?
Forse per l’aver posto tutte queste domane, i tre giorni trascorsi ad Anghiari hanno lasciato in molti e molte di noi la sensazione di una grande risorsa da non perdere e semmai da alimentare L’esperienza che abbiamo vissuto ci dice che è possibile costruire uno spazio condiviso tra donne e uomini in cui le reciproche differenze non siano taciute e in cui la comunicazione, per realizzarsi, non debba necessariamente fare ricorso ai codici condivisi dei ruoli e delle rappresentazioni sociali e la ricerca di una pratica collettiva di trasformazione del mondo non debba passare dalla rimozione dei conflitti tra noi e dalla riduzione delle nostre domande di libertà.
Insomma è possibile rompere la solitudine esistenziale, politica e generazionale in cui le nostre ricerche di senso si sviluppano, senza pagare il prezzo di una rinuncia alla irriducibilità delle nostre individuali differenze e dell’accettazione di categorie, ruoli, linguaggi che tradiscono la “verità” di ognuno e ognuna. Ora la scommessa è fare di questa ricerca una pratica che non resti relegata a “luoghi speciali” ma trovi cittadinanza nel mondo che abitiamo.