14 Maggio 2006
l'Unità

Donne, quando la violenza è globale

Maria Pace Ottieri

Secondo dati del Consiglio d’Europa, la violenza domestica sarebbe la principale causa di morte o di attentato alla salute delle donne tra i 16 e i 44 anni, più degli incidenti stradali e del cancro.
Le statistiche variano considerevolmente da Paese a Paese, ma non c’è Paese che ne sia indenne. In India, circa 15.000 donne sono assassinate ogni anno a causa della dote, la maggior parte bruciate nella loro cucina per camuffare il crimine da incidente. In Bangladesh centinaia di donne vengono sfigurate, accecate e uccise dall’acido. In Pakistan, ogni anno, sono più di mille a morire assassinate in nome dell’onore. Nell’Africa del Sud si stuprano 147 donne al giorno e negli Stati Uniti una ogni 90 secondi.
La violenza contro le donne raggiunge proporzioni epidemiche durante i conflitti: in Ruanda, in Bosnia, nella Repubblica Democratica del Congo, gli stupri di massa sono stati utilizzati in modo sistematico come arma di guerra tanto dai belligeranti che dai rappresentanti delle Nazioni Unite inviati a proteggere le popolazioni. Senza contare gli altri effetti delle guerre, il fatto che la maggior parte dei rifugiati siano donne e bambini e che molte di loro molte siano costrette a vendere il proprio corpo per sopravvivere.
La tratta delle donne è diventata più redditizia del commercio di droga. L’Oim (Organizzazione Mondiale delle Migrazioni), stima che ogni anno circa 4 milioni di ragazze vengano vendute come prostitute, mogli o schiave. Solo la Bielorussia “esporterebbe” dieci milioni di ragazze, mentre la Germania ne importerebe cinquantamila all’anno.
Eppure i crimini contro le donne sfuggono spesso a controlli e sanzioni, di tutti i delitti del pianeta, l’aggressione sessuale è quello per cui gli autori rischiano meno di essere perseguiti. Certi Paesi non hanno leggi, altri ne hanno di imperfette che puniscono solo alcune categorie di crimini e quelli che hanno leggi adeguate non sempre le applicano fino in fondo. Molti episodi di violenza sessuale finiscono per passare sotto silenzio anche perché ci sono ragioni precise che impediscono alle vittime di segnalarle: la paura di rappresaglie, la dipendenza economica ed emotiva e l’impossibilità di essere risarcite.
La violenza sessuale riguarda in primo luogo gli uomini, ma viene percepita come una “faccenda di donne” e camuffata da emergenza, quando la maggior parte delle aggressioni sessuali sono perpetrate nella vita quotidiana di società in pace. È facile anche focalizzarsi su casi estremi, quando si tratta di un fenomeno endemico che riguarda le società arcaiche e quelle avanzate, più di ogni altro crimine ignora le barriere sociali ed economiche e attraversa tutti gli strati sociali, tutti i gradi di istruzione, le grandi città e la provincia. Chi si occupa di donne maltrattate sa bene che gli stupratori, gli uomini che le picchiano e le umiliano non sono maniaci o devianti, ma in primo luogo mariti, conviventi, fidanzati o parenti stretti, nel caso di violenza su minori. Le psicologhe del Centro Antiviolenza Cerchi d’Acqua di Milano confermano che oltre la metà dei violenti denunciati dalle donne che a loro si rivolgono sono professionisti, dirigenti, impiegati, “professoro-
ni” che pensano di poter agire in tutta impunità, per via della loro posizione sociale.
Stupratori e aggressori si annidano nelle famiglie normali, la cultura che li rende tali è anche la nostra e tuttavia la percezione maschile “ufficiale” continua a essere quella del rifiuto di ogni implicazione nelle aggressioni sessuali, gran parte degli uomini non riconosce nemmeno il problema e ancora meno accetta di ammettere una propria responsabilità nelle violenze subite dalle donne e questo rende estremamente difficile combattere questi comportamenti.
La lotta contro la violenza sessuale non ha niente di un’impresa esotica che mira a risolvere i problemi di Paesi stranieri e lontani, bisogna trovare il coraggio di guardare dentro le nostre case e i nostri rapporti, uomini e donne insieme, perché negare all’altro il diritto di vivere con dignità significa contribuire anche al proprio annientamento. Chi altri se non le donne, con la loro esperienza degli ultimi trent’anni, possono aiutare gli uomini nella lotta di liberazione dalla prigionia di un’identità costruita per generare violenza?

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