10 Maggio 2006
l'Unità

L’urlo e la bestia

Lidia Ravera

Vent’anni, sta per diventare madre, il padre di suo figlio la prende a calci lì dove cresce il bambino, tenta di strozzarla, la seppellisce, ancora viva. Morirà lentamente, respirando fango. A vent’anni. Senza diventare madre. Morirà con lei il suo bambino. Leggetele queste righe, leggetele e rileggetele. Proverete sconcerto, poi dolore. Vi sentirete impotenti, la compassione si tramuterà in rabbia e la rabbia in voglia di spaccare tutto. Cercherete di dominarvi, ed è giusto che sia così. Ci sono già abbastanza macerie in giro. Però la rabbia non lasciatela sfumare. L’assassinio di Jenny non è uno dei tanti, non è soltanto cronaca nera. Non è una delle tante storie tristi di ometti che perdono la testa perché l’oggetto del loro desiderio prepotente non si presta più ad incarnare il ruolo. L’assassinio di Jenny è un punto di non ritorno, un atto inaccettabile. Una sfida alla regole minime, alla minima decenza. La sensazione è che sia stato varcato un confine. Ancora uno. Il corpo della donna, quando è gravido di un’altra vita umana, è sacro per qualsiasi tribù, in tutte le culture. Aggredire una donna incinta è un gesto di disprezzo della vita. Precivile, innaturale. Nessun animale lo farebbe. Se poi la vita che sopprimi è quella della donna che hai amato, e la nascita che impedisci è quella del figlio che hai generato l’orrore diventa spavento. In che mondo viviamo? Che cosa siamo diventati? Che cosa ha nutrito alcuni di noi, quale barbarica incultura, che morale? Leggo sul giornale: Lucio e Jenny hanno litigato, lui non voleva riconoscere il frutto del loro amore. Un vigliacco. Non voleva riconoscerlo, non voleva pagare, non voleva essere scoperto dalla moglie. Un bravo padre di famiglia, uno di quelli che si fanno la ragazzina di nascosto e decidono di eliminarla quando non serve più, quando si raddoppia indebitamente, quando diventa scomoda. Quando minaccia l’ordine apparente della sua piccola vita bugiarda. L’accusa è di omicidio volontario aggravato, leggo sul giornale. Non sarà duplice omicidio, perché un bambino che sta per nascere «non può essere tecnicamente considerato una persona giuridica». Anche questo, l’ho letto sul giornale. In una pagina di cronaca. La pagina numero nove. Le prime erano occupate da altro: Rifondazione contro Cofferati, il Polo che si spacca su Napolitano, ennesima puntata del toto-presidente, per dare un Padre a questa nostra torturata Patria.
Tutto importante, per carità. Tutto relativo, leggero, perfino fatuo se ne leggiamo dopo aver letto e riletto quelle poche righe, che raccontano l’agonia di Jenny. È troppo facile archiviare una morte così atroce come «delitto», evento eccezionale, da mettere via nella categoria del mostruoso, fuori dalle norme e dalla regola. È troppo facile e anche un pochino falso. Tanto per cominciare: non è la prima volta. Sono sempre più frequenti, questi «eventi eccezionali». Ragazze strozzate, uccise a pietrate, bruciate, sepolte, bambini rapiti e massacrati. Se è vero che sono «la punta dell’iceberg», allora è legittimo chiedersi: quanto è grande la montagna di ghiaccio che c’è sotto? Per un grande vigliacco che uccide per non assumersi la responsabilità di aver generato, quanti piccoli vigliacchi in fuga, quanti mascalzoni pronti a tramutare il desiderio in persecuzione e la persecuzione in minaccia si contano alla base dell’iceberg? Quanti calci, pugni, coltellate? Tutti mostri? Tutti pazzi? Io non credo che la patologia individuale possa spiegare tutto. Non credo che la reazione giusta, sia ritrarsi schifati, allontanare il male con una formula rassicurante, negare d’esserne permeati, respingere ogni addebito collettivo, minimizzare. Dalla violenza sulle donne, sui bambini, si giudica il grado di salute di una società. Ragionando sulla violenza nelle relazioni famigliari, sul numero di amori finiti nel sangue, sui casi sempre più frequenti di sopraffazione, prende corpo un ipotesi di malattia. Ci sono tutti i sintomi: una belligeranza permanente, quasi una febbre, una fragilità del sistema immunitario, quello che si nutre di valori condivisi, che si rafforza nell’esercizio del dialogo. Si può azzardare qualche accenno di diagnosi: le donne sono cambiate troppo in fretta, nel giro di un paio di generazioni hanno imparato ad alzare la testa, a parlare, a chiedere rispetto. Non sono più disposte a farsi usare e per farsi poi spostare un po’ più in là, dove non diano ingombro. Le donne sono cresciute, sono cresciute anche le ragazze. Una ventenne incinta non viene più cacciata via da suo padre e non è più disposta a non presentare il conto al suo amante. Le donne hanno alzato la testa e non sono più disposte ad abbassarla.
È questo che scatena la febbre in certi uomini? Esistono gli allergici alla parità, quelli che proprio non ce la fanno, ad avere una donna accanto, hanno bisogno di averla sotto. Esistono i nostalgici del silenzio femminile. Quelli che non hanno mai accettato, nel profondo, di non poter più fare il proprio comodo, sul corpo delle donne e poi lasciarle lì, da sole, a gestirne le conseguenze, poiché loro, le donne, è con il loro corpo che fanno i figli e dai figli non possono/vogliono scappare. Quella a cui appartiene Lucio è una minoranza di umanità maschile residuale, infantile ed egoista, aggrappata al ricordo di un privilegio che è stato dei loro nonni, forse dei loro padri, ma non esiste più, non deve più esistere. È una minoranza, d’accordo. Ma questo non rende la situazione meno grave. O meno pericolosa. Chiedere per l’uomo che ha sepolto Jenny, ancora viva, nella terra, una pena esemplare (l’ergastolo, senza sconti) non è abbastanza. Non basta tagliare via dalla società il colpevole di questo crimine, come un arto infetto. Bisogna anche capire e curare, capire perché gli assassini delle donne, spesso delle «loro» donne, sentono il bisogno di infierire, di esercitare la massima crudeltà, di straziare. Perché non si contentano di uccidere, ma condannano all’insopportabile, la morte lenta, la soffocazione. Perché non riescono a provare un sentimento di pietà, perché non capiscono quello che fanno? Se ci sarà, nel nuovo governo di centrosinistra, una ministero per le pari opportunità, e io mi auguro che ci sia e non sia marginale, forse dovrebbe organizzare un gruppo di lavoro, di ricerca, di studio su questa deriva di atrocità contro le donne. Che cosa c’è dietro gli uomini cattivi?

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