Stefano Sarfati Nahmad
Nel suo articolo sul Sessantotto, apparso nel supplemento per i 35 anni del manifesto, Luisa Muraro evoca una figura chesento drammaticamente vera, «il linguaggio di un soggetto che in parte non esiste».
Lo fa ricordando che il protagonismo, che lei e gli altri hanno scoperto in quegli anni, escludeva dalla dimensione politica «gli aspetti e i momenti d’impotenza, di passività, di fragilità».
È come quando Ignacio Ramonet, in un editoriale di alcuni mesi fa su Le Monde Diplomatique, commentando i dati europei sulla violenza domestica degli uomini sulle donne, si indigna, chiede più leggi e le chiede subito, con un linguaggio che non lascia spazio alla sua sessualità (che è una sessualità coatta, lo so, sono un uomo anch’io), alla sua storia di relazioni con donne, che mi immagino, pensando alla mia, non priva di sbavature.
La sessualità maschile, a differenza di quella femminile, è tutta giocata all’esterno, fa costruzioni. Una delle costruzioni è l’identità maschile, che non è l’uomo. Cosa è un uomo, l’uomo lo scopre solo (io dico) in relazione con una donna, in una libera relazione di differenza.
Cosa è l’identità maschile, è una costruzione all’interno della quale c’è posto per Dio, la Legge, la Famiglia, la Patria, la Bandiera ma non per l’uomo.
Io la chiamo la madre (ma dovrei dire il padre) di tutte le identità, perché infatti l’identità è un fatto che riguarda più uomini che donne. Il crollo dell’Unione Sovietica ha causato il crollo dell’uomo sovietico (dicono gli epidemiologi) ma non il crollo della donna sovietica.
A differenza di Ramonet, io leggo l’alto numero di violenze sulle donne, non come una mancanza di leggi, ma come una reazione disperata al recente protagonismo femminile, che intacca l’identità maschile, ossia la visione che molti uomini hanno di sé.
Figlia dell’identità maschile (dovrei dire figlio) è anche l’identità ebraica, che non è la tradizione millenaria ebraica, essenzialmente una cultura della diaspora, ma si esprime soprattutto con l’identificazione nello stato di Israele (e la sua bandiera).
Un uomo che brucia una bandiera è un uomo che parla il linguaggio dell’uomo che si identifica in quella bandiera ed è il linguaggio di un uomo che in parte non esiste e da cui la realtà resta esclusa: i palestinesi ridotti alla fame, i rappresentanti ufficiali della comunità ebraica che ricordano quando erano vittime sventolando le bandiere dello stato che riduce i palestinesi alla fame, la destra che strumentalmente si indigna per la contestazione alla bandiera, la sinistra che servilmente si scusa, tutti insieme, in vista delle elezioni amministrative, alla sinagoga che rimane aperta.
A me dispiace perché io ho un senso del mio essere ebreo che è vivo, che si riflette soprattutto in una lunga tradizione di minoranza pensante dentro una società, una tradizione abituata ad ascoltare l’altro – a vederlo innanzi tutto e ascoltarlo – e interagire, mettendo in circolo una differenza che arricchisce la società, magari facendo cadere delle convinzioni che parevano assolute e aprendo così nuove prospetttive.