20 Novembre 2005
Liberazione

Perché gli uomini uccidono le donne? Lo so perché non l’ho ancora fatto.

Pino Ferraro

E’ Perché gli uomini uccidono le donne? Credo di saperlo, ma non so dirlo. Sarà certo una scusa. Ma è la verità. Sento di saperlo, ma non so dirlo. La verità sta in questo scarto simbolico del dire, che ne custodisce il segreto, lo rivela, lo mente e ne autorizza la consegna. Una questione di ordine. Imposto dagli uomini. Certo da sovvertire, ma secondo quale altro spettro di significati e di valori, secondo quali altri spettri, che non siano nuovi fantasmi della mente pronti ad agitare brividi e violenze? Converrà allora saltare fuori dell’ordine, avanzare sull’extraordinario, in un mondo che produce già i suoi extra su tanti fronti, comunitari e sociali, sempre più vicini alla soglia di uno sconvolgimento culturale necessario. Fuori dell’ordine. Aprendo varchi alle periferie del Sé. A stabilire altre relazioni. Altre storie d’amore. Un altro modo di amare. Il punto è questo.
Perché gli uomini uccidono le donne? Lo so, perché non lo ho “ancora” fatto. Il “non ancora” sta a dichiarare un già “fatto” da altri di cui faccio parte. Non so dirlo, perché sta, e sto, al fondo della trama simbolica in cui quel sapere organizza il suo potere. La neutralità non c’entra, perché mai il potere è di nessuno e mai è neutrale, quanto più invoca la sua fondazione sul nulla e sulla scelta decisionista. Ecco ci sono. Il nulla. Eccola la neutralità di parte, la paura del nulla. La paura di morire, di perdere l’oggetto cui si è ancorati, circoscrivendo un piccolo mondo privato. Non basta.
Angela Azzaro lo ha scritto con una chiarezza che non lascia scampo. Non ci sono alibi di neutralità. Ditecelo, uomini, perché ammazzate le donne? Ognuno risponda, anche se dice di non aver ucciso, non ancora, anche se non si riconosce nel più efferato dei gesti. E non c’è neppure l’alibi di una scala di distinguo, per cui solo in fondo all’ultimo scalino ci si sporca di sangue le scarpe. C’è chi è sceso fino al pavimento o al sottoscala della miseria umana, c’è chi invece parla dal sesto piano, ma il palazzo è lo stesso. Tutti gli uomini sono Hans, ha scritto Ingebor Bachmann. Mi sono sempre ribellato a un tale richiamo e sempre ho dovuto capire che non si trattava di difendermi da quella accusa. Una questione di rappresentanza, non di rappresentazione. Ne sono un esponente, comunque sia e chiunque sia. Il punto di volta è questo. Non è più una questione personale, ma di rappresentanza di genere. Allora cambiare, cercare altre parole, dire un altro sapere di se stessi, per un’altra relazione a sé, non introspettiva: un sé senza se stessi. Una questione di luoghi. A cominciare dal luogo interiore, perciò dall’Ethos e dal daimon col quale coabitiamo. Occorre sapere perderci per qualche tempo, se vogliamo imparare qualche cosa da ciò che non siamo noi stessi. “Perderci”, sì, “qualche volta”, dire “sempre” sarebbe ancora un alibi; “qualche volta”, cioè quando si incontra qualcuno o qualcuna che ti chiama Hans o che ti chiede perché gli uomini uccidono le donne, senza per questo cercare spiegazioni, ma altre relazioni. Un “perché” che non è domandare, ma un protestare e rifiutare, continuando ancora a cercare una relazione d’amore. Di un altro amore. Allora si tratta non semplicemente di che cosa ne sappiamo o crediamo di sapere, si tratta, piuttosto, di saper credere. Di rivedere questo rapporto, tra credere e sapere, sulla cui distinzione si è fondata la cultura maschile e su cui sempre ritorna, distinguendo. In maniera essenziale: si tratta non più di credere di sapere, ma di saper credere a chi ti sta davanti, la sua voce, il suo volto, la sua parola, la singolarità e la differenza.
Qualche volta, ogni volta, sempre di nuovo, davanti a un’altra. E non solo. Davanti a sé. La differenza non si dà mai in saldo, non è mai scontata. E’ sempre a prezzo del dono. Inscambiabile. Né gli uomini possono “imitare” le pratiche delle donne. La loro cultura. Assurdo, oltre che “innaturale”, un esproprio, quando non è una semplice intrusione. No, gli uomini devono restituire al mondo la loro differenza senza preponderanza, senza violenza. Sarà poi possibile, senza, rimettere in questione l’ordine che quella violenza salvaguarda e autorizza? Sarà possibile senza convocare su nuovi scenari sesso e società, desiderio e sentimento, passione e ragione? Come vedere insieme cosa accade nel mondo, come guardare il mondo con due occhi, con tanti occhi, che non siano quelli satellitari informatizzati di violenze e stupri? Gli occhi che informano non “fanno sapere”, non producono conoscenze e atteggiamenti. Condividere vuol dire mettere insieme le proprie divisioni. Troppa cultura analitica ha continuato a separare per giustificare. Lasciando indiscusso e indiscutibile il rapporto tra eros ed ethos, registrando solo l’altro tra eros e thanatos.
Io lo so perché gli uomini uccidono le donne, ma non so dirlo. Ne sono perciò capace. Ed è questa la verità: gli uomini uccidono le donne non perché abbiano paura della crescita del potere femminile, sarebbe come ammettere che gli uomini ammazzano le donne allo stesso modo in cui si ammazzano tra loro. Sarebbe come riconoscere alle donne lo stesso ordine e uso del potere degli uomini. Certo è una ragione. E’ anche una questione fisica. Di uso della forza bruta. Forse è più certo che gli uomini soffrono un potere che non sanno riconoscere o lo riconosco a tal punto con i propri codici che rispondono con la violenza di cui il loro potere è capace. Ci deve essere qualcosa custodita dentro la relazione d’amore. Ed è a sua rovina. La donna diviene sempre un “corpo d’eccezione”. La parità che pure si invoca, sul piano giuridico, riguarda le quote di rappresentanza (quale?!), non certo quella del corpo proprio, che resta nei confronti delle donne, per gli uomini un corpo d’eccezione. Se ne può fare di tutto. Prenderlo, usarlo, occultarlo, farlo a pezzi o non considerarlo affatto, è lo stesso. Corpo intendo anche il corpo che piange come piange, che ride come ride, che cammina come cammina, che si guarda come lo guardano… E’ l’uso dell’amore che autorizza e spiega queste stragi. E’ la relazione d’amore che permette queste stragi. Il fatto è che si ammazza “per amore”. Ma non è amore, non più, se mai lo è stato e lo è qualche volta un amore che sa credere. E’ questo l’inciampo. Si ammazza “per amore”, all’interno dell’uso che un tale dispositivo d’ordine autorizza. Su questo piano scivolano come biglie tutte le altre considerazioni e non si riesce a tenerle. Convocano al confronto sesso e società, amore e comunità, possesso e proprietà, cupidigia e amore. Si ammazza per amore, per possessione, per gelosie, per omertà. Allo stesso modo in cui si dice che le guerre si fanno nel nome di Dio, per religione e per democrazia. Tornano qui le altre considerazioni sostenute su questo giornale dalla Melandri e dalla Ingrao, diversamente. Il fatto è che bisogna spezzare questo intreccio di connivenza estetizzante, e psicanalizzante, tra amore e guerra. La psiche forse va scombinata e cambiata. Ci servono altre culture di luoghi interiori. Certo va messo via quanto fin qui abbiamo chiamato amore e che continua a fare stragi di donne, amate, innamorate, volute, ripudiate. Bisogna imparare un altro amore. Una questione anche di luoghi, per questo è una questione interiore, del sé come luogo dell’io, ethos, ancora, perciò una questione politica, di luoghi comuni cioè. Di case. Si arriva sempre tra gli spazi di casa. Si arriva sempre all’abitare e al coabitare. Quando si parla di casa, non basta parlarne per mattoni evidentemente, se non in ragione della qualità della loro disposizione. Ma questo a chi importa? Una questione di spazi e di stanze non interessa. E gli sfrattati che sono “cacciati” dalle case. Sarebbe opportuno parlare di queste cose cominciando dalle case, da luoghi e spazi, da stanze e di distanze.
Bisogna imparare ad amare. Un altro amore. Cominciare a pensare alla educazione sessuale non in termini contraccettivi, ma come educazione alla differenza. Fare della differenza un sentimento. Sentirla. Non enunciarla. L’etica deve fare i conti con l’amore che fin qui ne è stato l’inciampo. Fin qui ne è stato fuori, pericoloso per lo stato. Meglio la famigliarità, l’amicizia di chi si divide le cose, non certo la condivisione che mette insieme le proprie divisioni. L’etica è stato il discorso del padre al figlio, da Aristotele a Savater. Che sia Vittorio (Nicomaco in greco) o Diego, è lo stesso. Il giusto mezzo. L’amore è stato lasciato di qua dall’etica. Agli omosessuali è stato riconosciuto e censurato, agli uomini e le donne è stato invece registrato con firma, chiuso in un contratto, comprensivo di clausole di rescissione. Dietro quelle mura può succedere di tutto. Il fatto che le uccisioni di donne per mano dei “loro” uomini sale il livello della questione sociale, impone che si trovi un’etica a più voci. Un’etica della differenza.
Penso ad una relazione d’amore restitutiva, quando si restituisce all’altro il proprio essere così come si è, senza voler essere altro, riconosciuto per l’unico e solo di là dal dono d’amore. Senza proprietà. Dove ci sia il possesso senza la proprietà. Dove si possa dire da una parte e dall’altra “mia e non di me”. Per dirlo anche più a gran voce, penso ad un amore senza futuro, ad una relazione d’amore senza futuro e inattuale. Senza domani. Solo presente e viva.

Quando la si programma, la relazione d’amore cede il posto all’economia dello scambio.
Per tutto questo ci mancano le parole, ci manca la società, le distanze, gli spazi, i luoghi. Ci mancano le maglie simboliche, perché una relazione d’amore tra differenti chiede di un sapere e un dire differente. Imparare ad amare forse anche morire diversamente. Con diritto. Non per mano di altri.

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