Roberto Esposito
Da qualche tempo. un’attenzione crescente si è andata concentrando intorno al fenomeno della nascita. Dalle antiche, ma mai spente, polemiche sull’aborto alla fecondazione artificiale, fino alla minaccia della clonazione il dibattito politico, filosofico, scientifico sembra avvitarsi sempre più nervosamente intorno alle prescrizioni che i governi, l’opinione pubblica la morale cattolica o laica, possono o devono fornire a coloro che, in qualsiasi modo ciò accada, generano una vita.
Cosa la politica, l’etica, la filosofia hanno da dire sulla nascita? E’ su questo interrogativo che verte l’intero dibattito di quella disciplina a statuto debole e contraddittorio che è la bioetica. Ho l’impressione che, senza metterlo da parte, si possa affiancare ad esso un’altra domanda, apparentemente rovesciata. E cioè: che cosa, la categoria di nascita, ha da dire alla politica e alla filosofia? Cosa ci insegna – sul piano metaforico, ma anche su quello biologico – la circostanza che il corpo della madre tolleri, dentro di sé un’altra identità, connotata da un sistema immunitario diverso dal proprio, senza espellerla o rigettarla, come avviene in tutti gli altri casi di trapianto? E anzi che quanto più il bambino è geneticamente diverso dalla madre tanto più sia protetto da eventuali minacce d’aborto?
Intanto ci mostra che la funzione biologica dell’immunità più che come una barriera o un’arma nei confronti di ciò che è estraneo, può essere intesa con un filtro o una cassa di risonanza attraverso cui entriamo in contatto con esso. E’ evidente il risvolto etico-politico che ne possiamo trarre. Contro ogni difesa intransigente dell’identità, nel caso della gravidanza è proprio la diversità dei due organismi che vengono a contatto a proteggere il prodotto della loro unione. La madre è diversa dal figlio e il figlio dalla madre. Eppure il frutto di tale diversità è la scintilla della vita. Mai come da questo angolo di visuale, dotato di pregnanza particolare perché relativo al carattere primigenio di ogni esistenza, si dischiude il senso di quella enigmatica relazione etimologica tra “hospes” e “hostis”, tra ospite e nemico, situata all’origine del pensiero occidentale. Il nato, colui che entra per la prima volta nel mondo, è l’espressione infinitamente ripetuta per quante sono le nascite, del fatto che non soltanto l’estraneo e lo straniero, ma anche il potenziale nemico, almeno una volta, la prima volta, è stato ospitato non nonostante, ma in ragione, della sua stessa eterogeneità.
18 Gennaio 2003
l'Unità