Le riflessioni di alcuni maschi sulla violenza maschile
Lea Melandri
Nel libro L’ultimo paradosso (Einaudi 1986), presentato come “un quaderno di appunti, note, osservazioni, pensieri sui problemi fondamentali dell’esistenza”, Alberto Asor Rosa scrive: “Uomini. Sediamo da secoli in gruppo intorno ad una tavola -non importa se rotonda o quadrata- impartendo il comando cui la nostra funzione ci abilita, distribuendo il potere che il nostro ruolo ci assegna. Anche fra amici indossiamo corazza: i momenti più intimi della nostra conversazione passano tra celate accuratamente abbassate. Le nostre mani sono chele in riposo. Gli orgogliosi sanno fare tutto questo con dignità e fierezza, i vili lo ostentano codardamente per incutere timore: ma gli uni e gli altri stanno diritti solamente perché c’è una corazza a sostenere il filo della schiena o una spada a cui appoggiare il fianco stanco. Il nostro volto, il nostro corpo sono pur là, dietro quelle biancheggianti, livide spoglie. Ma non oseremmo pensare di rinunciare al nostro circolo e alle sue leggi neanche se ci fosse promessa in cambio una libertà sconfinata, una gioia senza pari. Sediamo, intenti a noi stessi, alla nostra forma, al nostro decoro, al nostro eroismo, alla nostra dignità: al nostro essere-per-sé, custodito da un simulacro d’acciaio e da una maschera di ferro. Intorno a noi ci sono soltanto o subalterni o buffoni: e tra essi mettiamo le donne, alle quali per giunta presumiamo di piacere e di dar piacere ostentando le virtù cavalleresche, ossia tutto ciò che più ci allontana da loro. A forza di tenere il corpo in armatura, ne risultiamo un poco rattrappiti, le giunture scricchiolano e nel muovere ci procurano dolore. Talvolta ci sorge il sospetto che il nostro sacrificio, offerto a divinità tanto astratte quanto crudeli come quelle che compongono la religione dell’ascetismo guerriero, sia scontato ed inutile, e persino oggi un poco patetico: ed aspiriamo ad uscire da qualche crepa della vecchia armatura, a scivolare furtivi sotto quel tavolo, per guadagnare la porta della riunione a uscire a respirare aria pura”.
Ma appena fissiamo lo sguardo nello sguardo dei nostri compagni, attraverso la fessura della celata…e vi scorgiamo la nostra stessa disperazione, la nostra prigionia, il nostro dolore, il nostro stesso smisurato orgoglio, il nostro disprezzo per tutti gli estranei alla cerchia – non appena sguardo con sguardo di nuovo s’incatena, subito il desiderio di libertà, l’ansia di gioia ci abbandonano -, e scopriamo che non potremo mai lasciarli… L’unico passo in avanti nella cultura degli uomini da due millenni a questa parte è stato la soppressione del re: ma questa soppressione non ha cancellato il circolo, se mai lo ha rafforzato, liberandolo della maglia più debole. Sono secoli che gli esseri umani maschili vivono così; e con questo modo di vita affonderanno”.
Ho ripensato a questo frammento e al destino del libro che lo contiene – giudicato dagli intellettuali più vicini all’autore come meritevole di restare in solaio, dove sembra effettivamente rimasto -, dopo aver letto su Liberazione il punto di vista di dieci uomini sul tema “Maschi, perché uccidete le donne? ” (6/7 novembre 2005). Mi soffermo su due aspetti, che non finiscono di sorprendermi: la potenza – o prepotenza – che conserva tutt’ora la “neutralità”, l’abitudine dell’uomo di pensarsi e di parlare come prototipo unico della specie umana; e, per un altro verso, la repentinità con cui essa può eclissarsi, come se avesse in effetti la leggerezza di una maschera che si può mettere e togliere a volontà. Negli scritti pubblicati dal giornale, l’idea di un dominio maschile che attraversa da sempre la sfera privata e pubblica, la consapevolezza delle forme più o meno violente con cui si è imposto il patriarcato, appaiono come verità incontestabili, dati della propria esperienza e della propria formazione culturale, analisi che sembrano essere state presenti da sempre, sia pure in modo diverso, nell’impegno politico di ognuno.
Se le donne hanno dovuto faticosamente, tra mille inganni e ostacoli, “prendere coscienza” di un’oppressione, peraltro evidente, e sopportare che questa lucidità si rivelasse estremamente fragile, pronta a scomparire dopo ogni piccola conquista, gli uomini, ragionando su una rappresentazione del mondo prodotta dalla storia dei loro simili hanno evidentemente una via di accesso più facile alla messa a nudo del sessismo, delle logiche d’amore e di violenza che lo sostengono, nonostante i progressi della civiltà. Perché allora quella difesa estrema, sempre meno convinta eppure ostinata, della neutralità, che si esprime non solo nel cancellare dalle analisi politiche il rapporto tra i sessi, ma anche in quella copertura che è la sua distorta collocazione tra le questioni sociali: emarginazione, cittadinanza incompleta, sfruttamento economico, beni comuni, ecc.?
Le donne sembra che stentino a “sapere” quanto è profonda l’espropriazione che hanno subito, quanto siano ancora lontane dalla percezione di sé come individualità intere, corpo e pensiero, quanto siano propense ad accontentarsi di una emancipazione che le porta sulla scena del mondo con le stesse attribuzioni per cui ne sono state allontanate: corpo, sessualità, maternità. Anche sulla violenza che subiscono quotidianamente, e che risulta essere ancora la causa prima della loro morte, cala spesso l’invisibilità, frutto di paure, intimidazioni, così come di desideri e fantasie amorose mal riposte. Per quanto riguarda gli uomini, viene invece il sospetto che “sappiano” e che sia proprio l’evidenza del privilegio toccato loro storicamente e diventato “destino”, copione di comportamenti obbligati, a dover essere in qualche modo aggirata, perché colpevolizzante e quindi innominabile.
La comunità storica maschile ha visto cadere imperi, muraglie, confini, odi che sembravano irriducibili, eppure esita a far cadere le fragili pareti che separano la sua civiltà dalla porta di casa, l’immagine della sua “virilità” pubblica dalla posizione di figlio, fratello, padre, marito, amante.
Ma tutto ciò che scorre innominato sotto la storia rischia di diventare col tempo la galassia che la conduce a sua insaputa, che la ricopre via via di macerie e la tiene con lo sguardo rivolto all’indietro, cosicché la speranza finisce per confondersi con la nostalgia, e il corpo femminile, su cui ancora si pretende di esercitare un possesso indiscusso, diventa, immaginariamente, la terra feconda, incontaminata, di rinascite a venire.
Lo spazio che si è aperto su Liberazione, interrogando uomini e donne sul destino che li ha confusi e contrapposti, si spera che da piccolo rigagnolo di riflessioni inedite diventi un fiume capace di dare nuova linfa alla politica e di allargarne gli argini, prima che lo facciano distruttivamente il mercato, le guerre o il fanatismo religioso.