Piero Sansonetti
Nell’articolo di ieri abbiamo visto che il pensiero femminista ha molti punti di vista diversi. Prendiamone in considerazione due, piuttosto distanti tra loro.
Barbara Ehrenreich è una sociologa americana innamorata quasi carnalmente della sociologia. Il suo pensiero è un pensiero radicale e fortemente di sinistra. Quello però che in lei soprattutto è radicale è il modo di vivere la vita, lo studio, l’uso dell’intelligenza e delle conoscenze. Anni fa ha deciso di studiare il fenomeno dei lavoratori poveri, che è uno degli aspetti fondamentali (e sconosciuti) della società e dell’economia americana. Cosa ha fatto? È andata in biblioteca? Ha comprato dei libri? Ha realizzato delle interviste sul campo? No: ha distrutto le sue carte di credito, si è licenziata dal lavoro, ha buttato il cellulare, ha chiesto scusa alla famiglia, ed è partita sola, con una valigetta e con un centinaio di dollari in tasca, per la profonda America. Ha vissuto per due anni senza più nessun contatto con il mondo precedente, ha viaggiato in una decina di Stati, dal nord al sud, lavorando come cameriera, come barista, come donna delle pulizie, come operaia, o come commessa quando le andava bene, prendendo le paghe minime che trovava, dormendo in stanze luride in affitto, o in motel di quart’ordine, o in roulotte, o in baracca, e ha dimostrato come in America non basta avere un lavoro per vivere dignitosamente. Si può lavorare anche dieci ore al giorno, con un regolare contratto ma non avere soldi abbastanza per mantenersi in modo decente. «It’s american way», bellezza. È il sogno americano.
Poi Barbara Ehrenreich è tornata a casa sua, in California, ha ripreso il suo lavoro di sociologa e ha scritto un libro su questa sua esperienza. Era la fine degli anni novanta, del secolo.
Ora la Ehrenreich ha partecipato alla stesura di un altro libro che si chiama Donne globali (pubblicato in Italia da Feltrinelli) nel quale parla soprattutto dell’esperienza delle migranti. Il capitolo più drammatico di questo libro riguarda quella che possiamo un po’ rudemente chiamare la questione della servitù. Fenomeno diffusissimo in occidente, e in Italia, ma ignorato largamente. Situazione palese, sconosciuta, negata. Si tratta di questo: alcuni milioni di donne del terzo mondo vengono in occidente con un compito esclusivo: servire nelle case dei ricchi e della classe media del primo mondo, e occuparsi di tutte le cose – le necessità personali – delle quali i ricchi e i benestanti non vogliono occuparsi personalmente, perché li stanca, o li annoia, o li disgusta, o le ritengono degradanti: la pulizia delle loro case, dei loro vestiti, delle loro scarpe, delle loro stoviglie, la preparazione di pranzi e cene e il trasporto dei piatti dal fornello al tavolo e viceversa, la pulizia dei bagni dove i ricchi hanno depositato i propri bisogni corporali, l’accudimento dei figli piccoli o quasi grandi, lo svuotamento dei portacenere e degli orinatoi di cani e gatti, il riordino di tutti gli oggetti e le cianfrusaglie lasciati in giro per caso, il pagamento delle bollette, l’acquisto dei generi alimentari e molto altro ancora. Barbara Ehrenreich nel ’99 ha lavorato per qualche mese come cameriera, e racconta così la sua esperienza: «Ho lavato circa 350 pavimenti in quelle settimane: bagni, cucine e ingressi che richiedevano il trattamento a ginocchioni (come prometteva la pubblicità della ditta di pulizia che mi mandava nella case private: «noi puliamo a ginocchioni… »). Il mondo visto sulle ginocchia, è un mondo diverso da quello normale, ed è un mondo dove non si entra mai volontariamente. Vi si possono trovare elaborate strutture di polvere tenute assieme dai peli di cane, oppure frammenti secchi di pasta incollati a terra dalla loro stessa salsa, resti agglutinati di sughi, gelatine, creme contraccettive, vomito o urina. A volte si incontrano anche le gambine di un bambino arrabbiato perché le donne sono ancora lì quando lui torna da scuola, oppure i piedi calzati «Joan and David» della padrona di casa nervosa, che aspetta solo di indicare la macchiolina che vi è sfuggita». Tutto questo carico di lavoro e di umiliazioni in cambio di che cosa? Di stipendi molto modesti, che secondo le indagini ufficiali – e che quindi riguardano solo il lavoro emerso e non il lavoro nero, diffusissimo – sono mediamente di 23 dollari alla settimana al di sotto della soglia di povertà. Stipendi che naturalmente sono quasi ininfluenti nel bilancio di una famiglia ricca, e vengono comunque in gran parte risparmiati dalle migranti e inviate nei paesi d’origine ai mariti. Nel 1993 un personaggio famoso in California, la giudice Zoe Baird, fu coinvolta in uno scaldaletto che le costò la nomina a procuratore generale: pagava in nero la cameriera. Quanto? Cinque dollari l’ora, cioè al di sotto della paga minima e per di più senza contributi. La Baird guadagnava all’epoca 550.000 dollari all’anno, che diventavano 543.000 dopo aver pagato lo stipendio alla cameriera.
Questo tipo di immigrazione è ormai uno degli elementi di stabilità persino psicologica nelle famiglie occidentali, che non potrebbero mai rinunciarvi . La Ehrenreich la paragona alla schiavitù dei secoli scorsi. «In Medioriente, nell’antichità – scrive – le donne fatte prigioniere durante le guerre erano ridotte in schiavitù e vendute per svolgere compiti domestici o diventare le concubine dei vincitori; degli africani portati come schiavi in America, tra il sedicesimo e il diciannovesimo secolo, quasi un terzo erano donne e bambini e la grande maggioranza di loro fu usata come serva di casa o concubina».
L’uso delle donne dei paesi poveri come serve nei paesi ricchi, secondo la Ehrenreich è da un lato una ignobile ingiustizia, dall’altro – paradossalmente – il carburante che alimenta la liberazione delle donne in occidente. Nel rapporto tra maschi e femmine in occidente – scrive – è cambiato qualcosa negli ultimi anni: si è attenuato il grado di oppressione della donna. Però non è stato in nessun modo intaccato il privilegio dei maschi. Il miglioramento della condizione della donna non è determinato da un riequilibrio dei poteri e delle relazioni tra maschio e femmina. Come è possibile? A compensare lo squilibrio c’è stato il massiccio afflusso delle serve dal sud del mondo. E questo afflusso è organizzato come una vera e propria tratta, moderna e sofisticata. Determinate da precise scelte politiche dell’economia internazionale globalizzata. In questo modo: l’Fmi o la Banca mondiale, per concedere dei prestiti a un paese povero, chiedono che siano rispettate alcune condizioni. Ad esempio il taglio dei servizi sociali, dell’assistenza sanitaria, della scuola, dell’asilo, eccetera. E poi chiedono che sia svalutata la moneta. La svalutazione significa che il dollaro, o l’euro, o lo yen diventano oro pura e che la moneta del paese povero che ha svalutato diventa carta straccia. Bisogna andare a guadagnare dollari o euro o Yen. Il modo più sicuro è andare a fare le serve all’Ovest. Non ci sono più le navi coi negrieri, ci sono i decreti degli organismi economici internazionali.
Barbara Ehrenreich se la prende anche con il vecchio femminismo americano, in particolare con il Now (National Organization for Women, la più celebre organizzazione femminista americana) che accusa in sostanza di femminismo nazionalista e arretrato, non al passo con la globalizzazione.
Lia Cigarini è un’avvocata milanese di successo. Ma soprattutto è una femminista milanese di antichissime origini. È proprio una femminista della prima ora. Da ragazza stava nel Pci, o più precisamente nella Fgci (che era l’organizzazione giovanile del partito), quando il capo della Fgci era Occhetto, e poi dopo ancora con Petruccioli. Erano gli anni cinquanta e sessanta. Stava nel partito ai tempi eroici di Alberganti, Cossutta, Rossanda e Tortorella. Quando si consumò la battaglia dura tra vecchi e nuovi, tra stalinisti e innovatori. Lia è stata anche segretaria della Fgci milanese. Intorno al sessantotto, ma anche prima, ha mollato gli ormeggi, si è allontanata dalla politica tradizionale e ha deciso di dedicare tutta la sua passione e il suo intelletto al femminismo. Lia Cigarini è una delle massime esponenti del femminismo della «differenza». Cosa vuol dire? Schematizzando molto questo sistema di pensiero, vuol dire questo: non si tratta di porre rivendicazioni di parità e neanche di chiedere un riequilibrio nel potere politico o nella rappresentanza. Non interessa la parità nei vari campi della vita pubblica e lavorativa. L’operazione da compiere è un’altra, semplice e praticamente rivoluzionaria: mettere al centro di tutto – proprio di tutto: della vita, della politica, della filosofia – il conflitto tra i sessi. La lotta tra femmine e maschi (tra femmina e maschio, anche al singolare). Questo comporta che tutte le altre questioni diventano subordinate al conflitto di genere (lavoro, economia, rappresentanza, eccetera).
Il conflitto tra i sessi, sostiene la Cigarini, è diverso da tutti gli altri conflitti perché non è un conflitto distruttivo ma – si dice in gergo – è un conflitto relazionale. Cioè un modo per modificare costantemente le «relazioni», quelle tra le donne, quelle tra donna e uomo e quella tra gli uomini. Conflitto relazionale vuol dire che non è regolato dai rapporti di forza (che noi tradizionalmente consideriamo la chiave e il misuratore di ogni conflitto), ma dalla relazione tra persone. C’è una parentela probabilmente abbastanza stretta – mi sembra – tra questa concezione del conflitto e il vecchio «sathiagraha» inventato da Gandhi, cioè la battaglia nonviolenta che alla fine portò alla liberazione dell’India dagli inglesi.
Lia Cigarini dice che la politica della sinistra – della miglior sinistra – è quella che tutela innanzitutto gli interessi dei lavoratori subordinati, e che però sa accogliere le istanze culturali e politiche più recenti, come quelle femministe o quelle degli «altromondisti», cioè dei no-global. Alle femministe della differenza questo non va ancora bene. Non perché non siano interessate ai diritti dei lavoratori subordinati, ma perché non credono che possano essere il punto di partenza. Qual è il punto di partenza, la contraddizione principale (come si diceva una volta)? Non è quella tra capitale e lavoro ma è quella tra maschio e femmina. E si risolve non con lo scontro di potere ma col conflitto relazionale. Alle donne non interessa né prendere il potere, né fare nuove leggi, né imporre obblighi o divieti. E questo cambia completamente la natura stessa della politica (per esempio cancella Machiavelli). Non interessa per due ragioni. La prima è che leggi, e divieti, e potere sono lontanissimi dalla propria concezione della vita, dei rapporti umani e dal proprio immaginario. La seconda ragione è che li ritengono inutili. In Russia e in Cina, negli anni passati c’erano leggi quasi perfette a regolare i diritti delle donne: ma i diritti delle donne non erano rispettati e non lo sono neanche oggi. Perché? Non serve a niente cambiare le leggi, serve cambiare le teste. E per fare questo non basta o non è utile l’organizzazione – vecchio strumento essenziale della politica maschile – ma c’è bisogno della relazione, che è un modo di fare politica molto più complicato e molto più completo, che supera le vecchie idee di democrazia e di rappresentanza.
Il difetto della sinistra – dice la Cigarini – è di considerare la presenza delle donne nella società come una questione sociale. La sinistra equipara i problemi e la sensibilità delle donne a quelli di una certa categoria sociale – una qualsiasi – colpita da determinate ingiustizie. In questo modo le donne vengono ridotte da «presenza viva e parlante» in problema, in oggetto, in tema di un discorso neutro-maschile. Perché avviene questo? Perché il maschio sa fare politica solo riducendo ad uno le varie questioni. Le sa affrontare solo così: semplificandole. Le donne invece sono «irriducibili ad uno», e questo disturba, perché rompe la completezza del proprio pensiero e della propria politica. Le donne sono asimmetriche.