21 Giugno 2003
l'Unità

Diogene, le femministe e i maschi d’oggi

Mario Ferrari

I percorsi del femminismo hanno scombinato gli stereotipi tradizionali relativi a uomini e donne e hanno reso possibili esperienze di sé in rapporto agli altri/e che accadono al di là d’ogni prefigurazione. Ai processi di liberazione femminile inizialmente gli uomini non hanno preso parte, se non come attenti o interessati osservatori, in alcuni casi; in altri, o ne sono rimasti estranei o, se invasivi, sono stati messi alla porta. Soltanto con il tempo piccoli gruppi di maschi si sono resi conto di poter collaborare al movimento di liberazione femminile senza dover per forza occupare una posizione di rilievo, ma entrando in un processo di trasformazione di sé.

E si sono ritrovati a un punto di partenza nuovo. Perché un punto di partenza antico c’è già stato nella tradizione. Infatti, il pensiero occidentale si è largamente impegnato a indagare chi è l’uomo sia sul piano teoretico sia su quello pratico. Uno dei filosofi antichi che ha affrontato la questione mediante un percorso etico è Diogene di Sinope, vissuto tra il V e il IV secolo a.C.. Di lui si racconta che vagasse nelle zone più affollate della città in pieno giorno con una lanterna accesa dicendo: “cerco l’uomo”. Praticando un virtuoso ritorno alla natura, a ciò che è essenziale e che basta per vivere, Diogene esternava disprezzo verso tutto ciò che produce sicurezza: ruoli, poteri, averi, e si esprimeva con sfacciataggine libera e ironica anche di fronte ai potenti.

Oggi l’audace filosofo può provocare ancora profonda simpatia in chi cerca di mettere al centro della vita il bisogno di ricerca e radicalità, l’essere piuttosto che l’avere.

Ma proprio su questo punto si riscontra una certa affinità e molta distanza tra il percorso di Diogene, e con lui della tradizione, rispetto all’esperienza del femminismo. Diogene cercava l’uomo. Denunciava, cioè, la mancanza di umanità – quella, almeno, da lui scoperta e apprezzata – nei maschi. Oggi alcune donne, cresciute nella relazione con altre donne, lamentano l’assenza di legami significativi con gli uomini. Quindi sentono, in qualche maniera, il bisogno e la mancanza di tali relazioni a cui, per vari motivi, i maschi si sottraggono. Entrambi i punti di vista, quello della ricerca e quello della mancanza, permettono di intuire la triste situazione in cui si possono trovare quei maschi che rinunciano, per vari motivi, alla possibilità di evolversi umanamente.

Tuttavia, se a distanza di secoli l’antica provocazione di Diogene rispunta, è pur vero che si presenta sotto nuova veste, cambia la sua natura e dispone a conseguenze nuove. Infatti, mentre Diogene, e con lui la tradizione, ha incoraggiato gli uomini a un percorso etico radicale, coerente, in grado di metterli a contatto con ciò che è essenziale; le donne invitano gli uomini a non opporre resistenza a un contatto essenziale con sé e con altri/e invitandoli alla relazione. Per Diogene è essenziale alterarsi, cioè diventare altro – prendere le distanze – dalla propria disumanità mediante una via di riscatto che prevede il disprezzo e l’abbandono dei beni, un ritorno a sobrietà per imparare a vivere come gli animali di ciò che serve; per le donne, invece, è essenziale lo svolgimento e l’accrescimento di sé che accade quando si accetta il rischio della relazione a partire dal suo punto originario, lo scambio cioè con altri/e di quell’indigenza e di quella mancanza che la tradizione ha scartato per vergogna e per paura. Diogene ha fatto cadere in ombra l’incapacità di esprimersi umanamente e ha sostenuto l’importanza di cambiare strada; le donne hanno fatto della propria incapacità il luogo più appropriato per stabilire con sé e con altri una relazione reale, capace di trasformazione.

Se il nuovo inizio, dunque, consiste nel riconoscere come parte di sé, nominare e scambiare con altri/e la propria mancanza, gran parte degli uomini, mi pare, non conosce ancora quest’esperienza. Anche Diogene ha scavalcato questo passaggio e, per lo meno, non ci è stato d’aiuto nell’affrontarlo. Egli ha, in qualche modo, soccorso se stesso e altri rinunciando alle sicurezze e rimanendo in uno stato permanente di indigenza. Ma quale criterio garantisce la misura autentica di tale indigenza? Probabilmente a Diogene è mancata la misura del proprio bisogno che si riconosce all’interno della relazione. La sua esperienza, comunque, si ripete con molta spontaneità tra uomini quando tentiamo di parlarci in maniera nuova. Ci riesce piuttosto difficile addentrarci nella relazione fino a svelare qual è il nostro bisogno personale, le contraddizioni che proviamo, le paure e le inquietudini che premono dentro di noi, le angosce che emergono, le complicazioni esistenziali che incontriamo… Ci è più congeniale scivolare lentamente, quasi senza accorgimento, su questioni di metodo che garantiscano la correttezza del pensiero.

L’esperienza femminile del partire da sé ci invita a fare un passo indietro rispetto al percorso di Diogene; rinunciando a contenuti, risposte, dottrine e significati prodotti dalla tradizione, che provocano sicurezza e distrazione, occultamento e distanza da un’esperienza che può spaventare.

È possibile intercettare infiniti segnali di paura e di vergogna all’interno della nostra esperienza. La cultura dominante blocca l’accesso al nostro senso di impotenza, trattandolo come una specie di orribile sventura o come una forma di patologia: la sola impotenza di cui si sente parlare è l’impotenza sessuale. Ma essa non è che uno dei tanti punti di avvistamento di un’esperienza nella quale, con onestà, possiamo riconoscerci tutti.

Come potrebbe, ad esempio, immaginare il proprio successo un politico impotente? Come potrebbe costruire la sua vittoria sugli avversari senza ostentare sicurezza? Come farebbe a gestire situazioni conflittuali senza giocare al braccio di ferro? È assurdo, ma non gli è permesso di mettere in gioco ciò che vive a partire da un sentire spontaneo e da un pensare onesto. La sua potenza trova riconoscimento nel codice aggressivo di difesa e attacco. Poco conta se dietro al suo ostentato senso di onnipotenza egli abbia a che fare con un mancato rapporto con il proprio senso di impotenza.

Se il percorso femminista contiene in sé questa valenza rivelatrice, anche noi possiamo correre il rischio di uno sbilanciamento e oltrepassare la soglia del sospetto e della distanza per costruire relazioni autentiche che ci permettono di fare esperienza della sorprendente potenzialità di cui è gravida la nostra carenza.

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