Testo scritto per queer (Liberazione) – ma non pubblicato
Stefano Ciccone
Car* queer,
ti scrivo per riproporre di nuovo all’attenzione un tema che in diversi momenti è stato oggetto delle tue pagine: mi riferisco al sesso maschile nella sua doppia accezione come organo e come e pratica. Forse già in questa unificazione di due “oggetti”, o meglio di un oggetto e di una esperienza stanno molte delle cose che vorrei dire.
Parto da una rettifica dell’intervento che come maschileplurale abbiamo proposto sul numero di novembre: facevamo riferimento alle email che inondano la nostra posta le elettronica proponendoci viagra e strumenti chimici e meccanici. Il taglio di un “non” ha fatto cadere il paradosso su cui volevamo riflettere: infatti questi ritrovati non ci propongono maggior piacere, un orgasmo più intenso, un’esperienza sessuale più appagante ma ci garantiscono di non sfigurare con la nostra partner, di non lasciarla delusa, di poter emulare le performance di un attore porno. Lasciamo stare per ora la povertà di una sessualità che affidi esclusivamente alla capacità erettiva del nostro “organo” la soddisfazione sessuale della nostra compagna. Mi interessa ora guardare a come nell’immaginario maschile la prestazione sia prioritaria rispetto al proprio stesso piacere. Forse, addirittura questa riduzione della propria sessualità a luogo di verifica della propria virilità implica l’impoverimento della propria esperienza, l’incapacità a “espandere” la propria capacità di provare piacere.
Nello stesso numero di queer Gaia Maqi Giuliani parte dalla stesso riferimento alla pubblicità del viagra per intraprendere una strada molto diversa, quasi opposta che propone di considerare il pene come uno dei tanti strumenti per dare piacere, associandolo a un dito o un dildo, superando anche, come dice, un’ostilità propria del femminismo degli anni settanta alla penetrazione e all’organo sessuale maschile che la prospettiva queer è tornata a valorizzare.
Gaia ci dice che il piacere può anche essere simbolico: piacere nel vedere o sentire qualcun’altr* che prova piacere o meglio nel far provare piacere con il proprio pene o il proprio dildo.
Questa esperienza in me riecheggia una sensazione credo molto comune tra gli uomini e di cui sento di dover diffidare. Non si tratta infatti di un generico “altruismo” contrapposto all’egoismo dell’uomo che “si prende il suo piacere” senza ascoltare quello della donna, ma anche di un esercizio di “controllo” del corpo: del proprio corpo e di quello della donna. Nel coito interrotto (una pratica “contraccettiva” ancora diffusissima) la mia capacità di controllare il mio corpo è condizione per “ottenere” il piacere della donna e proprio l’orgasmo di lei (quante volte simulato in questo gioco di specchi) è il segnale-condizione per il mio godimento facendo apparire i due piaceri per un verso contrapposti e per un verso legati più sul piano simbolico e immaginario che corporeo. Ma di che natura e che qualità è quel piacere o quell’eccitazione che viviamo nello sperimentare il potere-controllo sul nostro corpo e sul corpo dell’altra che “portiamo” al piacere ( o ci illudiamo di farlo?).
Ma, come Gaia ci ricorda, un pene non è una zucchina: questa non solo non eiacula, ma neanche è capace di provare piacere. Ora ho paura che sia i pubblicitari del viagra che il movimento queer vogliano ridurre il mio pene a una zucchina (che, per quanto riguarda la capacità di percepire piacere è paragonabile a un astratto simbolo fallico seppur meno autorevole).
Perché la mia prospettiva politica ed esistenziale resiste a questa riduzione?
Innanzitutto perché credo che la riduzione del proprio corpo a “strumento” da parte del maschile sia inscindibilmente legata ad una operazione di potere simbolico e al tempo stesso di immiserimento della nostra esperienza umana.
In secondo luogo perché non credo che il terreno del simbolico sia un luogo neutro ma al contrario oggetto di un conflitto continuo tra normatività e soggettività. Miseria e esercizio del potere sono parte della costruzione sociale del maschile che ne deriva.
Torno per comodità al testo di Gaia che dice: “il piacere simbolico che chi “possiede” il dito-dildo ottiene nel “dare”o addirittura nel “subire una fellatio” non è cosa da nulla”. Ecco. In cosa consiste questo piacere simbolico? Cosa rivela? Io credo che il fatto che la fellatio sia in tutte le indagini rappresentata come una fantasia erotica degli uomini non rimandi tanto alla capacità di provare piacere del nostro “sesso corpo” ma all’eccitante immagine di una estrema violazione con il nostro “fallo zucchina” della bocca della donna. Pratica che molte donne rifiutano un po’ schifate confermandone la valenza simbolica di ulteriore soglia di verginità. Questa fantasia rimanda credo all’immagine più volte proposta nelle nostre riflessioni della scissione maschile tra propri bassi istinti e relazioni in cui anche alcune pratiche sessuali vengono relegate alla fantasia o, come raccontavano le prostitute intervistate nel numero speciale di “diario” dedicato allo stupro, al rapporto dove pago e faccio quello che non farei con la donna che amo e che rispetto.
Ma del sesso orale ho gia letto nel dialogo tra Aldo Nove e Elena Stancaneli sempre apparso su queer. Ed anche lì sono rimasto perplesso: il confronto tra l’esperienza maschile e femminile riproponeva un luogo comune di un piacere femminile “difficile da trovare” (sia topograficamente che come esito del rapporto sessuale) da parte del maschio impacciato e di un piacere maschile banale, esteriore, scontato. Forse l’eccitazione maschile per questa pratica è legata al fatto che la donna si inchini a baciare quelle nudità cosi sconce da condannare, come ci racconta sullo stesso numero Roberto Gigliucci, Cam e la sua discendenza alla maledizione per non aver coperto quelle del padre Noè addormentato ubriaco. Ma anche nella mia esperienza non è per nulla scontata, proprio per l’ipersensibilità di questa parte del mio corpo e forse per il “disagio” simbolico che l’accompagna. Il pene-corpo proprio perché non solo “strumento” concreto e simbolico di penetrazione ma anche attraversato da mille terminazioni sensoriali, irrorato da vasi sanguigni e ricoperto in parte da una mucosa, è molto più sensibile, “delicato” da maneggiare di quanto la sua funzione simbolica richiederebbe. Nella riflessione sulla sessualità maschile ci sono molti tentativi (fatti un po’ a tentoni) di guardare quella complessità della nostra sessualità che il nostro discorso rende opaca: penso alla riflessione sull’essere l’erezione del nostro pene non affidata , come dice una vignetta di Altan ad un osso che resti testimone della nostra virilità dopo la morte, ma al riempimento di sangue dei “corpi cavernosi” (anche noi una caverna) che richiede un rilassamento, o alla collocazione del nostro piacere non solo pene ma tutto attorno ad esso, in luoghi interni al nostro ventre dove si trova una ghiandola spesso bersaglio di ironia, o in luoghi pericolosamente vicini a un luogo che ci potrebbe rappresentare come “penetrabili”. Questa ricerca non è ricorso alla “biologia” per ridefinire la sessualità maschile ma esplorazione del nostro corpo oltre la sua rappresentazione alla ricerca di una sua diversa esperienza possibile. Siamo certi che l’eiaculazione del nostro pene-fallo sia sempre associata ad un’esperienza orgasmica per la sua capacità di coinvolgerci-travolgerci? E quando la nostra esperienza è più intensa non è anche più “diffusa”? E quanto può incidere la nostra capacità di ascoltare e sperimentare il nostro essere corpo anziché soggetti portatori di pene-dildo-fallo?
La rappresentazione simbolica che accompagna il nostro immaginario sessuale spesso ne inverte la stessa esperienza corporea che resta invece un terreno a cui restare ancorati per disvelare la colonizzazione e la “complicità” del nostro desiderio e del nostro immaginario. Penso al sesso anale rappresentato come estrema “sottomissione-passivizzazione dell’altr* e che al contrario può rappresentare un’esperienza che contraddice la rappresentazione di una vagina passiva penetrata da un pene attivo. Non solo abbiamo capito che ciò non è vero, ma la penetrazione anale ci fa fare esperienza del ruolo “attivo” nel “lasciar entrare” il nostro pene, . Se l’aspettativa simbolica ( e con essa il disagio o l’eccitazione del caso) ci rimanda ad un’ulteriore soglia di “verginità-violazione” l’esperienza corporea della penetrazione anale ci fa conoscere in modo più nitido che il nostro penetrare non è violazione di un corpo passivo ma è essere accettati in un corpo soggetto, con propri desideri (irriducibili a specchio dei nostri), proprie dinamiche fisiologiche.
Non so se sia per subalternità ai canoni dell’eterosessualità normativa o perché la mia sessualità è parte integrante della mia esperienza esistenziale, simbolica e relazionale eterosessuale che non ho mai vissuto l’esperienza di essere penetrato. So però che l’esperienza dei miei compagni omosessuali è per me una fonte di conoscenza anche del mio corpo.
Il corpo non come destino, ne’ come lavagna bianca su cui incidere la mia “volontà” o “strumento” per la sua espressione, ma come esperienza in cui conoscere me, i miei limiti, le mie potenzialità in relazione con l’altr*. Forse dovremmo cominciare a far tornare il nostro pene ad essere parte inscindibile del nostro corpo e scoprire che il corpo non è solo strumento per andare nel mondo, per penetrare, per dare piacere ma anche “territorio” del desiderio dell’altr*, esperienza di piacere che è percezione di sé. Anche nelle sue dimensioni che percepiamo più “proiettive”, le mani che accarezzano sono anch’esse accarezzate dal corpo su cui scorrono, gli occhi, sono “penetrati” dai corpi che guardano. Il pene è luogo della nostra esperienza di piacere, di percezione in relazione con la totalità del nostro corpo. Sarebbe misero se restasse un simbolo fallico, uno strumento o una zucchina.