Giacomo Mambriani
Le relazioni sono bisogni primari perché un’esistenza senza di esse è letteralmente inconcepibile. Sono le relazioni, infatti, che creano nuova vita e la sostengono. Il sogno (o illusione, o incubo) della assoluta autonomia o del perfetto isolamento, è il prodotto di un pensiero, soprattutto maschile, incapace di riconoscere l’importanza fondamentale delle relazioni nella nostra esistenza; a cominciare dalla relazione con la madre, come alcune donne hanno insegnato.
Non possiamo pensare a ciò che siamo senza riferirci alle centinaia di volti, di mani, di voci che abbiamo incontrato e che ci hanno formato, trasformato, ferito e accarezzato nel corso degli anni; e che continueranno a farlo. Gli altri e le altre fanno necessariamente parte del mondo in cui ci muoviamo. Anzi, insieme a noi continuamente lo mettono al mondo (come hanno scritto le donne di Diotima). Degli altri e delle altre abbiamo insomma un estremo e ineliminabile bisogno.
Le nostre dipendenze sono innumerevoli: di ordine fisico, emotivo, psicologico, spirituale, estetico, linguistico, e altro ancora. Quasi sempre sono saldamente intrecciate tra loro, ed è difficile, forse inutile, tentare di distinguerle e farne una casistica.
In tutto questo, il soddisfacimento dei nostri bisogni resta per molti versi al di fuori del nostro controllo; per esempio, alcune persone cominciano ad amarci, o smettono di farlo, senza che la nostra volontà possa nulla; oppure l’azienda ci licenzia senza giusta causa, o riceviamo una promozione grazie al pensionamento di qualcun altro. Oppure, tragicamente, catastrofi naturali o deliberate scelte umane possono spazzare via le nostre esistenze in pochi secondi.
Non si tratta di fatalismo, perché la nostra libertà (responsabilità) esiste davvero, ma è semplicemente immersa in un infinito sistema di relazioni, le quali in larga misura non dipendono da noi; idea molto dura da digerire soprattutto per la civiltà tecnologico-mercantile occidentale, che aspira al controllo sulla natura e sugli esseri viventi. Ma accettare che il mondo indipende da noi (come scrive Clarice Lispector in “La passione secondo G.H.”) e che noi invece dipendiamo da lui, può essere una grande fonte di libertà e di forza, se non ci si lascia sopraffare dall’immediato e inevitabile senso di perdita (di sicurezza e potere, soprattutto). È come fare un passo verso la realtà, compresa la propria, e di conseguenza poterla leggere e vedere meglio, muovendosi più adeguatamente al suo interno. È diventare un po’ taoisti, cominciando ad assecondare la natura delle cose, senza incaponirsi: “Mai, per esempio, aprì un canale là dove la terra era dura” (altro romanzo di Clarice).
È bene aggiungere che la dipendenza è “buona” a una condizione: che venga riconosciuta. Quando chi è dipendente non sa di esserlo e/o non offre alcun tipo di riconoscimento alla persona o cosa da cui dipende, allora la sua dipendenza è tossica, cioè irrigidisce ed esaurisce la vita invece di muoverla e arricchirla.
La tanto nominata e invocata indipendenza (spesso considerata un fine educativo fondamentale, o una priorità politica) mi sembra sempre più un’idea inquietante o quantomeno fuorviante. Preferisco pensare alla capacità di sostituire o trasformare le nostre dipendenze nel corso della vita, diventando a nostra volta capaci di accogliere e sostenere chi (che cosa) dipende o dipenderà da noi.
Un’ultima cosa, molto importante perché influisce su tutto quanto ho scritto finora: è meglio non immaginare la relazione di dipendenza come una freccia a senso unico. Qualcosa viene sempre scambiato, c’è comunque una reciprocità, anche se asimmetrica.
Giacomo Mambriani
Le relazioni sono bisogni primari perché un’esistenza senza di esse è letteralmente inconcepibile. Sono le relazioni, infatti, che creano nuova vita e la sostengono. Il sogno (o illusione, o incubo) della assoluta autonomia o del perfetto isolamento, è il prodotto di un pensiero, soprattutto maschile, incapace di riconoscere l’importanza fondamentale delle relazioni nella nostra esistenza; a cominciare dalla relazione con la madre, come alcune donne hanno insegnato.
Non possiamo pensare a ciò che siamo senza riferirci alle centinaia di volti, di mani, di voci che abbiamo incontrato e che ci hanno formato, trasformato, ferito e accarezzato nel corso degli anni; e che continueranno a farlo. Gli altri e le altre fanno necessariamente parte del mondo in cui ci muoviamo. Anzi, insieme a noi continuamente lo mettono al mondo (come hanno scritto le donne di Diotima). Degli altri e delle altre abbiamo insomma un estremo e ineliminabile bisogno.
Le nostre dipendenze sono innumerevoli: di ordine fisico, emotivo, psicologico, spirituale, estetico, linguistico, e altro ancora. Quasi sempre sono saldamente intrecciate tra loro, ed è difficile, forse inutile, tentare di distinguerle e farne una casistica.
In tutto questo, il soddisfacimento dei nostri bisogni resta per molti versi al di fuori del nostro controllo; per esempio, alcune persone cominciano ad amarci, o smettono di farlo, senza che la nostra volontà possa nulla; oppure l’azienda ci licenzia senza giusta causa, o riceviamo una promozione grazie al pensionamento di qualcun altro. Oppure, tragicamente, catastrofi naturali o deliberate scelte umane possono spazzare via le nostre esistenze in pochi secondi.
Non si tratta di fatalismo, perché la nostra libertà (responsabilità) esiste davvero, ma è semplicemente immersa in un infinito sistema di relazioni, le quali in larga misura non dipendono da noi; idea molto dura da digerire soprattutto per la civiltà tecnologico-mercantile occidentale, che aspira al controllo sulla natura e sugli esseri viventi. Ma accettare che il mondo indipende da noi (come scrive Clarice Lispector in “La passione secondo G.H.”) e che noi invece dipendiamo da lui, può essere una grande fonte di libertà e di forza, se non ci si lascia sopraffare dall’immediato e inevitabile senso di perdita (di sicurezza e potere, soprattutto). È come fare un passo verso la realtà, compresa la propria, e di conseguenza poterla leggere e vedere meglio, muovendosi più adeguatamente al suo interno. È diventare un po’ taoisti, cominciando ad assecondare la natura delle cose, senza incaponirsi: “Mai, per esempio, aprì un canale là dove la terra era dura” (altro romanzo di Clarice).
È bene aggiungere che la dipendenza è “buona” a una condizione: che venga riconosciuta. Quando chi è dipendente non sa di esserlo e/o non offre alcun tipo di riconoscimento alla persona o cosa da cui dipende, allora la sua dipendenza è tossica, cioè irrigidisce ed esaurisce la vita invece di muoverla e arricchirla.
La tanto nominata e invocata indipendenza (spesso considerata un fine educativo fondamentale, o una priorità politica) mi sembra sempre più un’idea inquietante o quantomeno fuorviante. Preferisco pensare alla capacità di sostituire o trasformare le nostre dipendenze nel corso della vita, diventando a nostra volta capaci di accogliere e sostenere chi (che cosa) dipende o dipenderà da noi.
Un’ultima cosa, molto importante perché influisce su tutto quanto ho scritto finora: è meglio non immaginare la relazione di dipendenza come una freccia a senso unico. Qualcosa viene sempre scambiato, c’è comunque una reciprocità, anche se asimmetrica.