Lia Cigarini
Mentre pensavo il testo sulla passione della libertà (per il Congresso internazionale delle filosofe che si è tenuto a Barcellona l’ottobre scorso), mi è venuto in mente con grande vivezza un fatto, più precisamente un’esperienza che sta agli inizi del mio femminismo.
La ripropongo qui perché mi sembra sia in tema.
Riflettendo su quel periodo, siamo nel 1967, posso dire che il mio io politico di giovane donna comunista, che insieme a quella degli operai, voleva la liberazione delle donne, si era dileguato, era defluito da me in brevissimo tempo.
Non c’è stato un particolare trauma bensì un sommarsi di coincidenze: la sconfitta della sinistra comunista all’undicesimo congresso del P.C.I.; la decisione di iniziare un’analisi perché mi sentivo stordita, muta anche di fronte agli accadimenti politici che fino ad allora mi avevano tanto coinvolta; e infine, l’incontro con una donna che si aggirava insieme a me nelle più svariate riunioni del pre-sessantotto milanese, anche lei senza parlare ma con in mano un documento un po’ contorto dove si parlava di trascendenza femminile.
Fatto sta che la mia decisione di fare parte di un gruppo di donne e di lasciare perdere le vicende di partito e gruppi fu repentina.
Dopo poco tempo, com’è noto, molte altre donne che avevano partecipato al ’68 hanno fatto la scelta di riunirsi solo tra donne.
Sicuramente la separazione dalla politica maschile e in molti casi dagli uomini in carne ed ossa – coi gruppi di sole donne – è stata un’azione attraverso la quale la libertà femminile ha parlato.
Un gesto dirompente: un mio amico psicanalista, acuto osservatore della realtà che cambia diceva che le donne, quelle che conosceva, all’improvviso erano entrate in clandestinità. Non sapeva cosa succedesse in quei gruppi. Non poteva osservarle. E ciò, diceva, lo metteva in ansia. Attraverso i suoi pazienti, donne e uomini, aveva capito che quella separazione aveva colpito l’inconscio ma non poteva interpretarlo perché in preda alla sua stessa ansia.
Racconto questa esperienza per dire molto schematicamente alcune cose attuali per l’oggi. La prima è che attraverso quella estrema sottrazione di sé si è creata una gamma di posizioni che rendevano e rendono possibile la relazione con l’altro. La seconda è che alcuni uomini come il mio amico psicanalista di cui parlavo prima, e altri, hanno registrato la forza di quel gesto. Ne sono stati colpiti, ma l’angoscia per la perdita del conforto delle donne che erano abituati a vedere al loro fianco, forse ha impedito loro di capire il significato di quel gesto imprevisto.
Comunque sia – non voglio qui teorizzare sugli uomini – il silenzio maschile sul conflitto tra i sessi è stato impressionante. Il rapporto tra donna e uomo che era al centro dell’analisi dei Gruppi di autocoscienza non ha trovato alcuna rispondenza nella riflessione maschile. E le interpretazioni proposte a livello politico, (comparsa di un nuovo soggetto politico, richiesta di inserimento alla pari…) sono talmente ridicole da far pensare ad una totale incomprensione di quello che stava capitando.
Penso, quindi, che a causa della rimozione del conflitto tra i sessi e del poco ascolto alla parola femminile, da allora le forme della politica si siano ristrette, e siano diventate sempre più ripetitive. Ciò ha dato a molte di noi una specie di conferma che l’altro sesso era immodificabile e le sue forme politiche, impraticabili.
Luisa Muraro, a questo punto, direbbe che questo vale per gli intellettuali e i politici, molto meno per gli uomini comuni che in questi anni hanno fatto molti spostamenti nella vita quotidiana. Sono d’accordo con lei, perché ho la stessa impressione quando, come avvocata, incontro e sento parlare appunto uomini comuni. Ma, ovviamente, questi uomini sono capaci di reimpostare le cose a livello della vita quotidiana, per il resto però devono affidarsi alle risposte teoriche e politiche di intellettuali e politici.
Perciò rimane e cresce il nodo da sciogliere, vale a dire l’incredulità maschile rispetto alla possibilità di pensare e cambiare il mondo con la pratica di relazione, che è il tratto peculiare della politica delle donne rispetto a quella maschile la quale delle relazioni fa un uso solo strumentale. Ridiscutendo con i miei amici della sinistra, più volte li ho sentiti dire: è una pratica che indubbiamente ha modificato il rapporto donna-uomo e così ha cambiato tante cose della vita sociale, ma essa lascia completamente scoperta sia la rappresentanza degli interessi contrapposti sia gli strumenti di decisione politica ed economica.
In sostanza permane il disconoscimento della forza delle relazioni non strumentali, e di una critica dell’esistente che non oggettivizza nulla, ma tenta di procedere incorporando l’oggetto (realtà parziale) nella relazione con l’altra/o.
Perciò molte pensano che le relazioni di differenza che si è cercato di intrecciare con alcuni uomini in questi anni, siano insignificanti politicamente, in pura perdita. In sintesi esse dicono: gli uomini sono per lo più cambiati nella vita privata in quanto in una certa misura accettano l’autonomia femminile ma a livello del discorso teorico politico, della critica e del sapere, tagliando fuori la differenza dei sessi e la loro stessa soggettività, sono imprendibili per la relazione di differenza. Quindi si tratta di una strada sbarrata.
Altre (vedi il recente incontro a Roma sulle pratiche del femminismo) indicano come strada percorribile – per chi vuole essere presente ad esempio nelle lotte contro il capitalismo globale e la guerra – il collegamento tra l’irrinunciabile esperienza dei piccoli gruppi come luoghi di provenienza indispensabili per la formazione e la autorizzazione reciproca delle donne, da una parte, e i “nessi globali” con la presenza nei luoghi misti del movimento dei movimenti, dall’altra.
A me sembra che la prima posizione rispecchi un’interpretazione povera del non starci alle regole maschili. Si pensa cioè che l’unica possibile sottrazione di sé sia quella di tagliare i ponti con l’altro e continuare a praticare lo stare tra donne. E da lì giudicare se gli uomini si collocano oppure no là dove loro stesse li aspettano. Dicevo prima che tale interpretazione è povera. Aggiungo che è anche in contraddizione con quel gesto iniziale di separazione, che fu fatto per esserci – nel mondo – in libertà. E in contraddizione con il presente con un dato di realtà: non c’è un movimento delle donne che vada in questo senso.
La seconda posizione ricalca uno schema tentato da molte in questi anni. Senza grandi risultati. Perché salta la questione, secondo me centrale, della pratica politica dei “nessi globali” e si illude, standoci, di convincere gli uomini del movimento o dei partiti o dei sindacati che il modo di far politica delle donne è un bene per tutti, convincerli attraverso parole e discorsi. Ma a questo punto, mi chiedo, qual’è la politica delle donne?
Io non ho mai considerato la sottrazione di me dalla politica maschile, che è stato un momento di esaltante libertà, come tagliare i ponti con il mio orientamento anticapitalista. Penso, ora (e molte ne hanno scritto su Via Dogana) che siamo in un momento di cambio di civiltà nel quale si sta riscrivendo il mondo e tutte le relazioni sociali; essendo consapevole di quello che accade, e che quello che accade mi accade anche per via dell’altro (Oriella Savoldi). Voglio esserci con tutta me stessa, senza tuttavia adeguarmi alle forme politiche maschili (comprese quelle di lotta), che per me erano e restano impraticabili, anche se il numero delle donne presenti è grandemente aumentato.
Perciò sono convinta che al centro della nostra pratica debbano essere messe le relazioni di differenza, interrogando i rapporti di scambio di conflitto, di differenza, in presenza di uomini singoli, quelli con cui le abbiamo intrecciate e altri ancora nei quali si sente risuonare il dubbio della ripetizione, la disperazione per il precipitare della civiltà o semplicemente un’emozione per la proposta di una esperienza in comune. Il simbolico che stiamo creando e che a sua volta sta creando noi si basa sull’esperienza dell’alterità (Luisa Muraro). Ciò ci ha impedito fortunatamente di identificarci con le donne, (abbiamo cioè sperimentato che neppure l’altra donna è fonte di un riconoscimento appagante). E ciò ci impedisce anche di considerare gli uomini un genere indifferenziato.
Si può pensare, ora, a una relazione nella quale io non vedo affatto lui come portatore di una universale ma lo tratto come il mio altro.
Non mi faccio, cioè, né subordinare né assimilare. Nè ho bisogno che lui si subordini a me.
Per concludere, a me quello che sta a cuore è non perdere il privilegio della prossimità, la forma non finita della scena pubblica che abbiamo creato, la pratica del partire da sé, la mia libertà.
Per il resto sono pronta a rinegoziare da capo tutto quello che ho capito e guadagnato.