Luisa Muraro
È un libro da leggere e che si fa leggere. L’autore si chiama Giulio Marcon, “uno dei protagonisti dell’impegno umanitario”, così lo presenta la quarta di copertina. Il libro s’intitola Le ambiguità degli aiuti umanitari, con un sottotitolo, più aderente allo scopo del libro: Indagine critica sul Terzo settore. Si chiama Terzo settore l’economia non basata su fondi pubblici né governata dalla logica del mercato e del profitto (perciò chiamata anche non profit). Il doppio titolo rispecchia il fatto che l’autore appartiene al mondo delle ONG (organizzazioni non governative) impegnate nella cooperazione internazionale e negli aiuti umanitari; di questo sa in prima persona. Però s’interessa dell’economia non profit nel suo insieme perché c’entra con la cooperazione e perché lui è convinto che sia il terreno di uno scontro da non evitare: “Bisogna far uscire il Terzo settore dalla condizione di ‘normalità’ e ‘accettabilità’ cui molti esegeti lo vorrebbero costringere”. Libro di un uomo impegnato nelle cose di cui parla, franco nelle critiche, non compiaciuto nella denuncia dei mali, onestamente in cerca di risposte praticabili, che sa spiegare le cose e che sa raccontarle. Spicca il racconto della missione Arcobaleno, durante la guerra del Kosovo, con un inconfondibile ritratto della ministra Livia Turco che manda bigliettini volti a smontare le sue oppositrici, in cui scrive “In questi momenti odio di essere ministro”.
Io l’ho letto (così come ho letto un libro diverso ma non meno valido, L’illusione umanitaria, di cui ha parlato Via Dogana 61) perché questi temi m’interessano e perché sono colpita dai rapporti sempre più squilibrati che caratterizzano la convivenza umana, in senso economico, politico, culturale. Non sopporto che si distribuisca l’etichetta di razzista a persone e popolazioni che sono messe in difficoltà dagli effetti di questo disordine, e cerco di capire come vi siamo finiti e come sia possibile uscirne. Per il comune della gente, a cominciare da me, questa situazione dà un senso di grande impotenza da cui molti si difendono male, con l’indifferenza o con l’ostilità. Il mio senso d’impotenza è accresciuto dal fatto che, essendo piuttosto vecchia, nella mia memoria si accumulano ricordi che risalgono alla crisi del Congo ex belga, con l’assassinio di Lumumba, formando una lunga sequenza di speranze uccise, di progetti naufragati, di politiche impraticabili, di guerre insane, di occasioni perdute, che questo libro non ignora né sottovaluta.
“Ha una logica questa spirale perversa?”, si chiede l’autore riferendosi agli aiuti internazionali che, di fatto, aiutano i paesi ricchi e non quelli ai quali gli aiuti sarebbero destinati. “Ancora una volta la risposta è sì. È quella dei profitti e degli interessi dei paesi ricchi”; le alternative ci sarebbero, aggiunge: “promuovere l’autosufficienza alimentare, utilizzare il più possibile le risorse locali, rivitalizzare le società contadine, impedire lo sviluppo delle biotecnologie e le iniziative predatorie delle multinazionali agro-alimentari. Proprio quello che viene progressivamente impedito dalle politiche delle istituzioni economiche internazionali” (pp. 46-47).
Ma c’è qualcosa che m’impressiona ancor più dell’aggressione continua e rapace del grande capitale alle economie e alle culture dei popoli e alla vita stessa dell’intero pianeta. Ed è la tendenza degli uomini europei (compresi i nordamericani di origine europea) a intromettersi nella vita degli altri paesi per ragioni le più diverse, capitalismo a parte, che vanno dalla salvezza dell’anima, la propria o l’altrui, allo spirito di avventura, passando per il progresso delle scienze, la salute, il turismo, la diffusione di una idea o di un’ideologia, la liberazione dei popoli, lo studio e la protezione di animali o di gruppi umani minacciati… Tante, tantissime ragioni che ci portano distante dal capitalismo e perfino in conflitto con esso, ma di cui sentiamo che gli sono imparentate come ispirazione e di cui sappiamo che spesso gli diventano complici, volontariamente o involontariamente.
L’autore di Le ambiguità degli aiuti umanitari ha ben presente questa deriva della complicità. Mi chiedo, invece, se abbia mai pensato all’ipotesi della parentela e se abbia riflettuto – a partire da sé, ossia da un punto di vista bene informato – su quella tendenza all’espansione universale di sé, propria della civiltà europea moderna.
Per parte mia ho cominciato a pensarci quando la tendenza ha influenzato il femminismo. Mi riferisco, per esempio, alla politica dei “luoghi difficili”, con le sue missioni nei campi profughi, o alle donne in nero che seguono (o precedono: non so come vanno le cose in pratica) la carovana dei giornalisti sui teatri della guerra, o a una recente proposta di rete informatica per intervenire prontamente nei casi di donne i cui diritti sono violati, in ogni parte del mondo. Fino al caso di Martha C. Nussbaum, una studiosa nata e vissuta negli Usa, specialista del mondo greco antico e quasi una seguace di Aristotele, che un giorno si presenta sul mercato delle idee con un libro, Diventare persone, sui diritti universali, libro destinato alla liberazione delle donne nei paesi in via di sviluppo. (Anche di questo libro e di questo caso Via Dogana ha parlato nel n. 61, pp. 9-10.)
Per tentare di non essere generica, preciso che mi lascia stupefatta la apparente facilità con cui questi (e queste) “missionari” riescono a stare, parlare, pensare e decidere, in contesti così differenti da quello in cui hanno imparato a parlare, sentire, comportarsi, e per giunta spesso contesti segnati da grandi problemi e grandi sofferenze. “Ma come fanno?” mi chiedo io che, se non mi sento in contatto di piacere, almeno un filo, con l’altro, perdo il contatto con me stessa. E tendo a pensare che, in queste perdite che non fanno problema, perdita del contatto e perdita del contesto, vi sia anche qui una radice di disordine.
Riflettendo sulla complicità con le politiche dei paesi più potenti, per quel che riguarda specialmente le ONG italiane, Marcon suggerisce la strada di un possibile rinnovamento. Una volta fatta la scelta impegnativa (e dolorosa) di autoriforma, basterebbe poco, scrive, dando una serie di indicazioni pratiche, come un minimo di autofinanziamento, una presenza assicurata di volontari anche nei ruoli direttivi, la rinuncia al gigantismo imprenditoriale, con relativi stipendi, e, soprattutto, il collegamento con i movimenti sociali (p. 55). È veramente poco? A me pare di no, ma non sono in condizione di giudicare, tanto più che lo stesso Marcon, più avanti, scrive che forse non basterebbe e che forse ci vuole una specie di “rivoluzione culturale”, senza fermarsi a precisare meglio. Nelle conclusioni, per evitare quelle che qui egli chiama le degenerazioni della corsa al centro (ma si tratta sempre della deriva della complicità), Marcon torna, per così dire, a minimizzare e parla di “tanti piccoli accorgimenti”. Segue la lista che ormai sappiamo, con una novità, la sex balance, così la chiama, senza virgolette né corsivo, spiegando che consiste nel dare alle donne e agli uomini le stesse opportunità e responsabilità.
Adesso mi diventa chiaro che sì, basterebbe poco, ma non è quello che Marcon suggerisce. Quello che Marcon suggerisce sono rimedi solo apparentemente pratici, quasi tecnici, e ben circoscritti; in realtà rispondono a istanze morali che gli uomini da secoli non fanno che darsi per poi perderle e ridarsele. Quel “sex balance” è, secondo me, la spia di un qualcosa di elementare ma dimenticato, di cruciale ma evitato. Lo è nella sua stessa espressione, perché Marcon sarebbe uno che, sacrosantamente, irride il gergo internazionale (inglese) degli esperti, che giudica buono soprattutto per le pseudosoluzioni da vendere in programmi preconfezionati. Ma non in questo caso, in questo caso sembra non sapere che quella “bilancia dei sessi” è sovrapposta ad una contraddizione politica che non si risolverà senza tutto un processo di ricontrattazione dei rapporti fra i sessi. E preferisce credere, o far credere, che si tratti di una risposta a portata di mano, un piccolo accorgimento. Eppure si tratta del suo, nostro essere donne e uomini che stiamo lasciandoci alle spalle una storia di rapporti patriarcali e di ruoli sessuali, per inventare tutto o quasi, paternità, famiglia, linguaggio amoroso, costumi sessuali, organizzazione della vita quotidiana, e via via, fino ai confini di quel continuum che è una civiltà.
Non so che cosa pensare di questa perdurante non-risposta della cultura politica maschile all’avvenimento della libertà femminile, con tutto quello che ha e avrà di dirompente per l’esistenza di ciascuno di noi in prima persona, e per le forme della vita sociale. Sono però persuasa che c’entri con quella tendenza non interrogata alla affermazione di sé in ideali di civiltà proiettati fuori di sé sugli altri per il loro bene, poco importa se questi altri vogliono, chiedono, sono d’accordo, condividono, oppure no. Questa tendenza come quella non-risposta, infatti, parlano di una difficoltà di esserci in carne e ossa nell’ordine del discorso, da cui la difficoltà di prendere coscienza che c’è altro da sè.
Questa sì che sarebbe una rivoluzione culturale. E in verità basterebbe poco, provo a dirlo. Basterebbe che tutta l’importanza che le donne hanno nelle vite degli uomini, dalla nascita, e prima ancora, in avanti, di cui troviamo segni di ogni tipo, sparsi per ogni dove, dall’arte più eccelsa alla più terribile cronaca nera, ma disseminati a caso, con una specie di perversa volontà di non sapere, basterebbe che gli uomini ne rendessero calmamente conto anche quando organizzano il mondo, fanno teorie, scrivono libri.