Daniela Padoan
New York, Afganistan, Palestina, Israele, Bali, Iraq: luoghi lontani – di alcuni conservo immagini inevitabilmente superficiali di viaggi, altri non li ho nemmeno mai visti – eppure sono dentro di me, in una mia personale geografia della lacerazione. Uno scenario interiore reso muto dalla consapevolezza che, davanti a ciò che accade, la cifra della mia esistenza è l’irrilevanza. Sta per scatenarsi una guerra dettata dall’arbitrio di un nudo potere, non più mediato da dispositivi di alcun tipo, nemmeno simbolici. Un potere sordo, mediatico, inarrivabile, che genera angoscia ed estraneità. Come esserci, allora, sapendo che le forme di mobilitazione della politica che conosciamo servono tutt’al più a dare un senso di conforto nel trovarsi con altri, ma non certo a spostare gli accadimenti, e nemmeno il consenso che questi trovano nelle persone? Non solo, naturalmente, non ho alcuna risposta, ma sento un inceppamento nella mia stessa vita. L’abitudine, forse, ma anche il sentimento, mi dicono che dovrei stare con le compagne e i compagni che continuano, non senza sforzo, ad andare in piazza contro i bombardamenti in Iraq, contro la politica assassina di Sharon, contro le politiche sull’immigrazione che contemplano l’esistenza di sottocategorie di esseri umani. L’abitudine e il sentimento mi porterebbero in piazza; solo che non riesco più ad andarci. In questo stesso momento, mentre scrivo – è il 18 ottobre, il giorno dello sciopero generale indetto dalla CGIL – sento quasi fisicamente il corteo che sta procedendo dai Bastioni di Porta Venezia verso il Duomo di Milano. Una parte di me pensa che dovrei essere lì, o magari nel corteo partito da Piazza Cairoli, quello degli studenti e della Flmu. Il fatto è che in realtà mi sento dolorosamente estranea all’uno e all’altro. Non so più quante volte, dopo aver partecipato a una manifestazione, sono tornata a casa con il senso di aver ottemperato a un rituale vuoto, il cui unico effetto è quello di rinsaldare un’appartenenza identitaria. Non voglio dire che le manifestazioni non servano in assoluto: quelle contro il Vietnam, per esempio, hanno prodotto la fine della guerra, anche se certo non era irrilevante che dall’altra parte ci fossero i vietcong.
Quello che mi manca è una misura di realtà fattiva che mi appartenga, fuori dalle logiche identitarie, e fuori anche dal singolo gesto di buona volontà. Una possibilità di pensare e agire in un confronto con altre/altri che restituisca il senso di essere proprio là dove si parla e si agisce.