1 Giugno 2002
Via Dogana n. 61

Non uccideremo più: indizi di un percorso maschile

Una lettura di “Capitani d’aprile” della regista portoghese Maria de Medeiros
Cinzia Soldano

Quasi 30 anni sono dovuti passare perché la gioia della rivoluzione che nel 1974 pose fine alla dittatura in Portogallo potesse essere presa in mano e felicemente raccontata in un film: un intervallo simile all’elaborazione di un trauma, un distanziarsi nel tempo in cui l’esperienza non perde il suo contenuto originale ma, non essendo più tutta occupata dall’unicità delle vite dei protagonisti, è in grado di mostrarsi come strutturante per la storia di un paese o di una generazione, e portare a galla significati condivisibili da persone lontane.
La vicenda del capitano Maia, che ebbe una parte fondamentale nella rivoluzione dei garofani, coglie il punto di come può farsi strada in una coscienza maschile il momento in cui un uomo non sta più al “gioco” della violenza e del potere senza per questo andare “contro”, senza avere un progetto di costruzione alternativa fondato sull’abbattimento e la cancellazione di qualcosa di preesistente: spezza cioè il meccanismo della ripetizione sterile, uguale a se stessa. Insieme a lui, l’altra coscienza maschile presa come filo conduttore del racconto è quella dell’amico Manuel, anche lui militare e appena tornato dal Mozambico. L’ispirazione che muove questi due uomini sembra essere di origine femminile, in un senso non idealizzato ma come limite concreto posto dalla realtà delle relazioni. Per Manuel è il bisogno di riavere la stima e l’amore della moglie Antonia, docente universitaria legata alle organizzazioni clandestine di resistenza, e la tragedia dell’uccisione in Africa di una donna e di un bambino avuto con lei; per Maia l’amicizia giovanile intensa con Antonia e Manuel, il sogno condiviso di una vita e una società migliore, il rapporto affettivo che continua con loro e con la loro figlia. Ma entrambi, il capitano Maia come Manuel, sono passati per i terribili massacri del Mozambico, mostrati con breve crudezza prima dell’inizio del film come un “fuori”, uno sfondo, qualcosa che accade lontano, fuori scena, ma che viene continuamente richiamato nei dialoghi ed è di importanza cruciale nelle scelte di questa generazione di uomini portoghesi. Forse dall’orrore di questo attraversamento, di cui non veniamo a sapere nulla (“non posso scriverne”, dice Manuel ad Antonia, “comincio solo ora a pensare che posso tentare di comprendere”), Maia ha ricavato una serenità che gli permette l’azione: il modo in cui agisce è straordinariamente semplice e chiaro, e chiaro è il modo in cui sostiene i conflitti con gli altri uomini, soldati semplici e ufficiali suoi colleghi. A questo proposito è bello il contrasto iniziale con il giovane tenente di picchetto, che poi lo seguirà: il quale dapprima gli dice che non ci sta, che la rivoluzione non la possono fare i militari ma deve venire dal popolo, e parlando con lui Maia mostra cosa accade quando cessa il meccanismo di delega all’azione programmatica e un uomo diventa titolare di se stesso e del proprio agire. Il dialogo più conflittuale e politicamente interessante avviene tra Maia e il maggiore Gervasio, legato a Maia da inquieta amicizia. Il conflitto è tra chi ha deciso di agire in prima persona, non sottrarsi alla propria parte e aver fiducia, rischiare la possibilità del cambiamento, e chi si rifugia con gusto estetizzante nelle acque torbide del nichilismo e del cinismo: ci fa capire la differenza tra azione reale volta alla modificazione e messa in scena, un agire che rimescola le cose, confondendole, perché ripropongano un identico schema e scongiurino il presentarsi del nuovo. Sono anche due atteggiamenti diversi verso la dipendenza: Maia sa che dipende dagli altri soldati, fin dal discorso iniziale in caserma rischia tutto se stesso nel rapporto con loro, per guadagnare la loro partecipazione libera e spontanea e non fondata sul comando di un superiore in grado; questo risalta soprattutto nel momento in cui, fronteggiando in strada le truppe capeggiate da un generale fedele alla dittatura, si espone alla collera di questo comandante senza armi e parlando: soprattutto Maia fa questo, non smette mai di parlare, ma non è un parlare diversivo, per guadagnare tempo, è una pratica in cui lui crede davvero. “E’ la collera di un padre”, dice quel generale dopo aver picchiato il primo tenente mandato da Maia a parlamentare con lui, il film trasmette anche questa coscienza di rottura generazionale in linea maschile, lo scandalo di un uomo adulto per un giovane che ha deciso di non passare per le armi e le uccisioni; costui vorrebbe reagire con la forza e ordina ai suoi soldati di sparare addosso a Maia, fino al momento impensabile in cui quelli si rifiutano e attraversano la strada per unirsi a lui. Una scena particolarmente importante per l’emozione che mette in campo, che è l’emozione di quando qualcuno ti dice di sì, non perché tu hai fatto in modo che… – questo è il modo in cui funziona la persuasione delle tecniche di potere -, ma come insondabile imprevisto, qualcosa che viene completamente dall’altro e in cui tu non hai parte, l’unica cosa che hai fatto è stata restare nel tuo proprio luogo. L’antagonista di Maia nel ragionamento, il maggiore Gervasio, non accetta questa dipendenza, ma finisce col rivelarsi succube della dipendenza gerarchica da un generale che non ha avuto parte negli avvenimenti e non stimato da nessuno: baratta la radicalità di una dipendenza vera con l’inconsistenza di una dipendenza fittizia. L’autentico dato via per il surrogato. Ricomincia subito, in maniera quasi impercettibile per gli attori coinvolti, il gioco del potere che usurpa l’autorità conquistata sul campo.
“Tutti non possono fare tutto, io confesso la mia incompetenza nelle questioni politiche”, dice Maia aggirandosi nel palazzo presidenziale che ha appena pacificamente liberato insieme ai suoi soldati: questa sua capacità di non spaventarsi della propria incompetenza simbolica è uno dei fattori che lo mettono in grado di agire efficacemente. Come la sua mancanza di risentimento verso le nefandezze della dittatura, che tiene la sua azione completamente calata nel presente e lo segnala come uomo per qualche via uscito dalla nostalgia di un mondo ideale: che affligge invece la piccola folla arrabbiata che lo attacca nella sua macchina, scambiandolo per un membro della famigerata Pide, la polizia politica dei torturatori. Maia e Manuel sono fino alla fine quelli che fanno politica in un senso rivoluzionario: il primo non partecipando all’agone democratico e adottando due bambini (“Sei un uomo fortunato perché hai una figlia”, – dice a Manuel); il secondo rimanendo aderente all’amore per sua moglie e vivendo la sua malattia (si trascina da un ospedale all’altro con la cirrosi e la depressione, veniamo a sapere dalla figlia narrante). “La libertà è in gran parte una lotta interiore, niente di spettacolare”, dice ancora Maia a Manuel, come se la libertà fosse qualcosa che ti mette in grado di fare proprio la vita che ti aspetta, e non un’altra. In qualche modo è Antonia che sembra non cogliere la novità di questa idea della politica: dopo essere stata, con la fedeltà a se stessa nei rapporti personali, il tener duro nel criticare e non accettare quello che gli uomini a lei cari erano andati a fare in Mozambico, il riferimento simbolico delle loro azioni, parrebbe come incapace di accettare il regalo di un riconoscimento: in continuità con la sua precedente resistenza alla dittatura si butta nella politica democratica delle regole con il partito socialista ritornato dall’esilio e nel rapporto amoroso con il giovane Emilio, rivoluzionario programmatico che presto approderà ai partiti del centro-destra.
Per Maia e Manuel la libertà nasce dalla promessa che si erano scambiati in Africa, e che costituisce il vincolo del loro rapporto e del loro fare: non uccideremo più. La preoccupazione costante del primo, nel condurre i suoi soldati all’interno di Lisbona, è che non ci siano feriti o morti, né militari né civili. “Se non ci fossero stati quei quattro morti sarebbe stato perfetto”, dice commentando le vittime della feroce sparatoria del capo della Pide sulla folla riunita in piazza. Maia da parte sua ha avuto l’occasione di rimettersi alla prova in uno scontro armato, a cui come militare era abituato, salvandolo dall’esperienza di uccidere ma non da quella della paura di essere ucciso: poter sopportare pazientemente questa pena è la sua forza, ciò che gli permette di afferrare la novità del presente senza coltivare ossessioni o dover compiere una cesura totale sul passato, per quanto orribile.
Da quell’esperienza di uccidere i due capitani erano passati. Dell’energia particolare generata dalla morte sia donne che uomini possono trovarsi a partecipare. Affrontando questo punto, l’autrice di Capitani d’aprile sa riconoscere e far fruttare, per sé e per noi, gli indizi di liberazione di un percorso maschile: che l’affiorare alla coscienza della capacità femminile di tenere vivo lo sguardo sulla differenza sia un elemento di accelerazione per uscire dall’inesorabilità delle nostre stesse ripetizioni?

 

Per la stesura di questo articolo ringrazio: Alessandra Poli, Letizia Bianchi, Luisa Muraro.

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