Lia Cigarini
Scrivo questo articolo sulle relazioni di differenza – termine con cui nomino le relazioni di scambio politiche e affettive con uomini- in un contesto politico dove si rende visibile un movimento che contesta le attuali forme di sviluppo del capitalismo.
Naomi Klein chiama questa lotta “il movimento dei movimenti”, sottolineandone la grande presenza di donne. Sia nei paesi ricchi dove la contestazione ha fatto propria la pratica del movimento delle donne (piccoli gruppi autonomi collegati in rete e decisioni collettive), sia nei paesi poveri dove sono molto combattive le giovani donne delle fabbriche che lavorano per i marchi occidentali. Klein dice dunque che l’anima vera del movimento sono le donne e le loro pratiche. Di ciò, secondo lei, negli Stati Uniti e in Canada c’è consapevolezza da parte di tutti gli altri movimenti.
Al contrario, a me pare che in Italia, non vi sia consapevolezza del debito che il “movimento dei movimenti” ha nei confronti del saper politico delle donne. Ciò è tanto più strano (e rimanda, quindi, ad una nostra difficoltà politica) in quanto la politica delle donne e in particolare la pratica della differenza, proprio in Italia, ha insistito nel mettere al centro, come dice C. Marazzi nell’ultimo numero di Via Dogana, “il corpo, la relazione intersoggettiva, la parte per il tutto, l’incommensurabilità, la sproporzione tra sapere e potere”. E prosegue: “mentre il capitale si rivoluzionava facendo suo l’agire comunicativo-relazionale con nuovi modelli di organizzazione aziendale e nuovi rapporti tra produzione e mercato e tra locale e globale, la vostra ricerca mirava a costruire percorsi di lotta metonimica all’interno del linguaggio simbolico-metaforico, all’interno della sua falsa universalità”.
Perché allora l’assenza (che non è certo quantitativa, poiché nelle 500 e più associazioni, che hanno aderito ad esempio alla contestazione di Genova le donne sono tante) di una parola politica di donne che sottolineasse le forme politiche originali delle associazioni (politica prima) non riconducibili e non rappresentate nel binomio potere/contropotere?
Io penso che sia perché negli Stati Uniti in Canada una parte grande delle femministe ha accettato o addirittura aiutato a formulare la teoria dei diritti umani universali che tutto comprende fino a cancellare il conflitto fra i sessi, mentre in Italia si è cercato di contrastarla mettendo al centro la modificazione di sé e la relazione con gli altri, una pratica politica, cioè, senza obiettivi e nemici esterni. Cosicchè per quello che mi riguarda quando c’è un evento come quello di Genova sono contenta perché non mi piace il modo borghese di vivere, ma contemporaneamente sento come una sproporzione tra la radicalità della nostra pratica e l’evento politico in cui gli uomini, che di preferenza si orientano sul potere, sono in prima fila, il che mi fa passare la voglia di intervenire.
La stessa Naomi Klein che ha scritto un bel libro per dire che le multinazionali sono essenzialmente “produttrici di significati”, conclude poi per la lotta in favore di diritti umani universali. Sembra non capire che i marchi offrono una risposta fasulla al bisogno di esistenza simbolica che è bisogno di esserci per sé e per gli altri, fedelmente alla nostra esperienza. Se non si vince su questo terreno, vince la politica delle multinazionali, per quanto grandiose manifestazioni di protesta si facciano.
Fatto sta che io mi trovo in questo momento a sottolineare la potenzialità, proprio al presente, della teoria e pratica della differenza, ma incerta su come camminare. Le mediazioni politiche tentate in questi anni sia con donne impegnate in pratiche differenti o interessate alla politica istituzionale sia con uomini critici del modo di fare politica tradizionale, sono state relativamente sterili.
Vorrei quindi raccontare la mia esperienza delle relazioni con alcuni uomini coinvolti nella ricerca e nel cambiamento delle forme della politica. Ho cercato questi scambi pubblici per dare sostanza ad un’idea che ho da sempre, cioè che le pratiche delle donne hanno una forza di modificazione del reale che vale per donne e uomini. Ho sempre cercato di avere in vista la realtà come tale. In sintesi ho sempre cercato di fare della relazione fra i sessi, anche quella conflittuale, una leva per cambiare la realtà.
Perciò, dal luogo di autorità femminile, in cui mi trovavo, la Libreria delle donne, e come atto di libertà, ho nominato il bisogno che abbiamo di uomini coinvolti nella nostra pratica politica. Molte altre donne hanno iniziato questi scambi per realizzare il proprio progetto di modificare la realtà attraverso la pratica di relazione (scuola, lavoro, forme della politica, ecc.).
Tuttavia, da discussioni recenti (fra cui il dibattito su Via Dogana “Donne dell’altro mondo”), risulta drasticamente ridimensionata la fiducia nel confronto-scambio con gli uomini.
Una complicazione dannosa l’abbiamo introdotta noi stesse, chiedendo il preventivo riconoscimento di autorità femminile perché vi fosse relazione. Ho riflettuto sul punto e sono arrivata alla conclusione che solo il gesto iniziale di apertura verso l’altro (amore, direbbe Luisa Muraro) racchiude quel tanto di forza e libertà femminile che sono necessarie allo scambio. Il resto deve essere giocato quotidianamente nell’agire politico e affettivo.
Tolta di mezzo questa impostazione schematica che finiva col mangiarsi la coda rimangono delle reali difficoltà da imputarsi alla differenza maschile. Per prima la separazione dei piani, dei campi del discorso e della ricerca, degli ambiti, dei luoghi, del pensiero dalla vita, che essi operano. Per cui quando discutono della differenza (o si confrontano con il pensiero e la pratica delle donne) usano un linguaggio e sembra che la differenza sia l’asse centrale della loro passione e del loro ragionamento, mentre quando agiscono nella politica maschile usano un altro linguaggio e un’altra centralità. Un comportamento schizofrenico che annulla proprio la premessa della relazione di differenza che è quella di un partire dall’esistenza di un mondo abitato da uomini e donne.
Poi – ed è una cosa che potrebbe mettere in discussione alla radice la possibilità di relazioni di differenza- essi tendono a far sparire il conflitto fra i sessi nella relazione in cui sono coinvolti evitando così di giocarselo in prima persona. C’è dunque una tendenza maschile ad addebitare alla società genericamente intesa l’eventuale cancellazione della differenza femminile (o, per i più, la discriminazione politica delle donne). In sostanza proprio in nome della loro attenzione al sapere femminile essi si tirano fuori dal conflitto fra i sessi e quindi, io dico, dalla relazione.
E’ difficile convincerli che ci può esser un conflitto senza lotta contro. Perciò fanno pratica politica insieme a donne solo quando c’è un interesse contingente comune. Personalmente, non posso dire di avere una relazione con un uomo che possa essere definita una relazione per sé stessa. Produttiva, quindi, di un vero sapere della differenza maschile e femminile.
Infine molte volte ho l’impressione che il pensiero della differenza sia preso in considerazione perché, in un momentaneo vuoto di teoria, permette di aggiornare la lotta anticapitalistica o di rispondere ad altre preoccupazioni dominanti. Nulla di male in sé, se non fosse che, anche in questo caso, si tende a cancellare il conflitto fra i sessi e la differenza.
C’è quindi da discutere di questa contraddittoria esperienza. Io non penso che si possa lasciare perdere le possibilità che offre una pratica di relazioni donne-uomini che hanno il senso della loro differenza. C’è infatti la necessità dell’agire politico e nell’agire politico mi sono accorta che se non si giocano tutte le proprie possibilità, si è destinate a perdere qualcosa (o anche molto).
So che alcune pensano di godersi la libertà femminile fra donne, in sintonia fra loro. Le stesse e altre pensano che la indiscutibile forza conquistata dalle donne nel mondo andrà comunque avanti senza che loro si sforzino di capire come. Però io non sono d’accordo. Sono convinta che in questo momento la relazione di differenza sia indispensabile all’agire politico. Anche per evitare di dipendere dalle mediazioni delle rappresentanti, ufficiali o spontanee, delle donne che fanno mediazioni al ribasso e danno un’immagine modesta della differenza femminile.
Discutendo con Luisa ci siamo trovate d’accordo sulla necessità dell’agire politico e sul fatto che la porta da cui passa il possibile (del cambiamento di una relazione donna-uomo con incremento di libertà femminile) è il reale. La pratica si vive realmente, non e’ una pensata pura. Luisa con parole filosofiche la esprime così: il pensabile puro, la possibilità di questo o di quello, pur integrato da tutte le condizioni per realizzarsi, come capita nei progetti politici a tavolino, è inerte e di solito resta nel suo stato di possibile inerte. La pratica di relazione, al contrario, risveglia le potenzialità dell’esistente, perché risveglia il desiderio.