Carla Turola
Devo subito avvertire che non sono una specialista. Nel senso che non sono né una storica né una cronista e neppure una studiosa di fenomeni sociali. Posso solo parlare a partire dalla mia personale esperienza e dire quello che sento e penso, perché ho vissuto e vivo questo conflitto, come ognuna e ognuno di noi. Cercherò quindi di darvi la mia lettura, rendendo conto della mia parzialità e invitandovi a fare altrettanto. Voglio però che sappiate che quello che dirò oggi, viene dopo tre anni di relazione e di ricerca con Adriana e con altre donne dell’associazione. Tutta la nostra attività si basa su alcune pratiche molto precise, di cui quella fondamentale è lo stare in relazione. E’ quindi molto evidente che questo significa anche saper gestire i conflitti, essendo questi un aspetto della relazione stessa.
La parola “relazione”, oggigiorno, ha molta circolazione. Però, come succede spesso alle parole, con significati diversi. Dicevo che quello che dirò sul conflitto tra i sessi tiene conto della mia personale lettura dell’esperienza, insieme al dialogo che ho con alcune donne. Il dialogo che c’è tra noi mi rende più chiaro e comunicabile il significato delle mie esperienze e mi aiuta a ricercare e ad inventare pratiche e modalità di rapporto con la realtà, in modo che questo rapporto abbia un senso che vada bene per me. Vorrei sottolineare che si tratta di una pratica molto femminile. Nasce dalla convinzione che il significato che voglio dare alle cose non lo trovo già bell’e pronto dentro di me, e tanto meno nella cultura e nel linguaggio correnti, in quanto rispecchiano tuttora, in maniera predominante, l’esperienza e il potere maschile. L’esperienza femminile è profondamente differente da quella maschile e deve trovare il suo linguaggio e la sua autorità. Ora, in questi anni, dopo il femminismo, c’è, almeno per le donne della mia generazione, una diffusa consapevolezza in questo relazionarsi tra donne. Ma il “parlarsi tra donne” è una pratica antica che gli uomini hanno sempre molto banalizzato (gli uomini tra loro si parlano, le donne tra loro chiacchierano). In realtà, questi scambi comunicativi hanno permesso alle donne di conoscersi e di conoscere il mondo in maniera molto più approfondita di quanto non abbia mai fatto il pensiero (scienza, filosofia, teologia) maschile. (sicuramente per quanto riguarda il mondo femminile, ma io credo anche per quanto riguarda il mondo intero). Gli uomini hanno sempre provato un forte disagio di fronte a donne che parlano tra loro escludendoli. Sanno bene che c’è un sapere femminile originario che loro sentono come segreto e inaccessibile e quindi, per difesa, cercano di sminuirne la portata banalizzandolo.
Certe forme di relazione, ma con un significato molto diverso, vengono usate nella pratica politica dei partiti, nelle aziende, come uno strumento per ottenere dei risultati. Sono pratiche che vengono insegnate da professionisti come veicolo di informazioni selezionate, per ottenere consensi, per convincere, per vendere prodotti, per aumentare la produttività, eccetera.
Vorrei sottolineare bene la differenza che passa tra una pratica di relazione insegnata da specialisti e strumentale all’ottenimento di risultati, e la nostra pratica di relazione, ricavata dalla nostra stessa esperienza di donne e che non è strumentale in quanto ha in sé la sua finalità. Il fine è la relazione stessa, il fine è lo scambio tra noi. Certo che poi ha delle conseguenze, perché rende dicibile il desiderio, si fa progetto, impresa, invenzione. Come dice Adriana, allarga l’ambito del possibile. Cioè realizza qualcosa che, date le condizioni, parrebbe impossibile.
Ho sentito necessaria questa premessa per capire come le stesse parole, anche quando hanno molta circolazione e sono parole del linguaggio comune, significano spesso esperienze molto diverse. Ci siamo accorte, infatti, che parole come “potere”, o, per entrare nel tema, “conflitto” vengono usate per indicare esperienze profondamente differenti a seconda se chi parla è una donna o un uomo. Voglio dire che ad una donna la parola conflitto non evoca la stessa esperienza che evoca ad un uomo.
Ho detto “ci siamo accorte”, perché gli uomini, di solito, di questa differenza non si accorgono. Loro pensano, anche in buona fede, che la loro esperienza abbia un valore universale. Fanno fatica a rendersi conto che esiste un soggetto altro che non è riducibile alla loro esperienza e al significato che le danno.
E’ evidente, per esempio, che un conflitto tra una madre e la figlia è profondamente differente di un conflitto tra madre e figlio maschio. Un’altra differenza che mi ha sempre colpito per la sua evidenza è quella tra le pratiche di competizione degli uomini nei luoghi di lavoro e i conflitti tra colleghe negli stessi luoghi. Penso anche ad altri comportamenti tipicamente maschili: agli spostamenti del conflitto in altri ambiti, come l’attività sportiva, o all’identificazione in un gruppo molto caratterizzato da aspetti antagonistici (dalla squadra del cuore, all’appartenenza ad un partito, un sindacato, per non parlare di un presunto gruppo etnico, eccetera).
Nei conflitti tra donne c’è sempre qualcosa di personale e di essenziale che va a toccare il modo di essere di ciascuna, perché nelle relazioni le donne investono anche le loro parti emotive ed affettive. L’oggetto del conflitto rimane spesso oscuro o ambiguo o, anche se chiaro, porta comunque attorno un’aura non ben definibile. Il conflitto tra donne non è regolato dai precisi codici che ritualizzano il conflitto maschile. Ma non raggiunge quasi mai la distruttivi del conflitto maschile anche se comporta aspetti spesso molto dolorosi.
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Ci sono uomini (pochi, ma io dico i più intelligenti, certamente i più coraggiosi) che anche a causa della crisi di identità maschile che la fine del patriarcato comportava, hanno iniziato ad interrogarsi sulla differenza e sul conflitto sessuale in modo nuovo. Soprattutto hanno iniziato a prestare attenzione senza pregiudizi al pensiero e alle pratiche femminili e a riconoscere loro autorità.
Dopo la prima ricerca sul conflitto ci eravamo dunque rese conto di trovarci di fronte ad una fase nuova del conflitto sessuale e di avere a che fare con nuove tipologie maschili che stavano, in qualche modo, rispondendo ai cambiamenti realizzati dalle donne. Ci siamo allora chieste come “stare in relazione” con questi uomini.
Ecco, dunque la domanda che ci siamo poste: qualora ci sia un autentico desiderio di dialogo tra donne e uomini, e quindi il riconoscersi reciprocamente come soggetti a pieno titolo, è possibile parlarsi e intendersi a partire da esperienze radicalmente differenti? Mantenendo quindi la propria autonomia?
Non è facile, perché c’é la contraddizione tra la viva esperienza di donne e uomini, da una parte e, dall’altra, le forme di pensiero e di linguaggio che pretendono di leggere e interpretare questa realtà secondo un ordine che vorrebbe essere universale, che dovrebbe andar bene per gli uomini e per le donne, ma che in realtà deriva quasi esclusivamente dal pensiero e dal desiderio maschili.
Il problema è che c’è un valore femminile (e non solo quello relativo al lavoro svolto in casa, ma ovunque) che non ha corrispondenza nelle misure maschili. Ogni donna sa benissimo che il sapere e l’autorità femminili, in qualsiasi campo ci sia l’impegno delle donne, non centrano con le regole mercantili. La cultura maschile ha pressoché un’unica misura di valore: il denaro. La creatività femminile, il lavoro di cura, il sapere delle relazioni, la capacità di far interagire esperienze diverse hanno differente natura e non possono tradursi in denaro. Almeno non senza ulteriori mediazioni che però, ora come ora, non ci sono.
La gratuità del lavoro femminile e delle sue qualità sta nel fatto che non traducendosi in denaro, non si traducono in niente. Ci sono, esistono, sono assolutamente indispensabili al mantenimento di questo mondo, ma, o rimangono relegate alla loro dimensione materiale o, tutt’al più vengono ricondotte a valori maschili astratti e retorici.
Il lavoro femminile e le sue qualità non si fanno modello per una nuova società, una nuova politica, un nuovo modo di produrre.
Nonostante la fine del patriarcato, nonostante la richiesta pressante, più o meno esplicita, delle donne di cambiare, permane una cultura maschile che in larga misura oppone resistenza alle modifiche. Sulle cose che sono più connaturate con il maschile: potere, competizione, processi di identificazione, gerarchie, gli uomini non sono cambiati. Ammettono la loro crisi e le “nefandezze del potere” di cui si sentono ora anche, come singoli individui, vittime, ma hanno paura di modificare le loro pratiche.
Evidentemente le mediazioni che noi donne stiamo mettendo in atto, a tutt’oggi, non sono ancora sufficienti. Il desiderio femminile ha però in sé una forza creativa tale che riesce a far accadere quello che nessuna scienza sociale può prevedere. E noi donne sappiamo stare nella sproporzione tra quello che una donna fa e il riconoscimento che le è dato, tra il nostro desiderio e la realtà che viviamo.
Anche da questa sproporzione, secondo me, nasce la difficoltà di nominare il conflitto tra i sessi. Si tratta della difficoltà di descrivere la contraddizione tra un mondo già realizzato che è quello dell’ordine maschile (potere, gerarchie, istituzioni, produzione) e un mondo “altro” del desiderio femminile che sentiamo che è realizzato solo in parte, e comunque molto al di sotto delle sue possibilità.
Un conflitto così inteso è dagli uomini pressoché totalmente ignorato, oppure appena intuito e temuto. (La vera paura degli uomini non è tanto delle donne al potere, quanto del misterioso desiderio femminile.) Dalle donne è percepito come il conflitto tra il proprio enorme desiderio e il mondo che non lo comprende. Certo, il mondo comprende ovviamente anche le donne, e il loro desiderio, ma “nel segreto”.
Nella nostra Associazione ci sono uomini che non si riconoscono nella cultura dominante che pretende definire la loro identità. Partono da sé e fanno ricerca nella relazione. S’interrogano sui loro desideri. Testimoniano interesse e gratitudine per la politica delle donne. Avversano il potere fine a se stesso e il potere economico. II dialogo con loro mi dà fiducia anche se non è facile. Non perché ci siano scontri, ma perché dietro le stesse parole ci sono esperienze profondamente diverse. Qualsiasi tentativo di traduzione mi sembra insufficiente. Bisogna accettare questo scarto, questa distanza tra noi e loro, non avere paura di uno spazio vuoto dove poter sostare un po’ in assenza di senso. Bisogna accettare la nostra reciproca asimmetria. Bisogna accettare di non potersi rispecchiare nell’altro e nell’altra. Noi donne lo sappiamo fare, gli uomini stanno imparando. Però ci si può dire, finalmente, la verità, spogliati dei ruoli, dei luoghi comuni, dei cliché. Con il coraggio di dire anche verità sgradite, o addirittura, per il pensare comune, scandalose. Non voglio prefigurarmi dei risultati. Questo cammino è difficile ma è anche affascinante. Preferisco pensarmi, pensarci in un processo di modifica fluido e ininterrotto.
Nota. Questo testo è nato come contributo di Carla Turola dell’associazione Identità e Differenza a un ciclo di incontri pubblici organizzato dal Comune di Spinea (Venezia) sul tema “Educare alla relazione: confliggere senza distruggere” (N.d.R.)