Aldo Tortorella
Cara Lia,
poiché mi sento vivamente coinvolto nella discussione apertasi su Via Dogana vorrei far sapere quello che penso.
La nuova guerra, dopo quella del Kossovo, mi ha nuovamente fatto riflettere su un punto. Parlo dell’accenno che tu facesti alla necessità di nuovi “universali”, relativi al pensiero alla differenza e alla pratica politica della relazione. La guerra, mi sembra, ripropone la questione. Può darsi che io avverta troppo enfaticamente questa nuova tragedia, come mi accadde per il Kossovo. E, tuttavia, mi colpisce quella che a me sembra la incapacità di comprensione della realtà o di domande sulla realtà. Per esempio, solo un sentimento pazzescamente meschino ha impedito di vedere l’oceano di disperazione degli esclusi del mondo su cui galleggiano le società occidentali. C’è qui un tema concreto, che forse dovremmo discutere, a proposito di nuovi criteri di giudizio non più solo ricavabili dal maschile. Si dice che la forza del modello capitalistico sia nella sua capacità di fondarsi sul desiderio. Ma di che desiderio si parla? E non è la natura acquisitiva – ancor prima che proprietaria – la caratteristica propria di questo desiderio in modo che ne viene travolta ogni altra possibile partecipazione alla realtà?
Mi ha colpito la esperienza riferita dal vostro gruppo sul lavoro a proposito della differenza tra le preferenze di molte lavoratrici in materia di organizzazione della propria prestazione lavorativa. Ricordo che ci fu un tempo, non troppo lontano, in cui anche la rivendicazione sindacale chiedeva esplicitamente di non monetizzare tutto, per esempio la salute. Dunque, ci può essere un altro modo di pensare e agire la lotta contro l’ingiustizia sociale. Naturalmente, non intendo dire che ci si debba disinteressare del salario o del fatto che l’accumulazione realizzata con il lavoro sia gestita solo con il criterio del massimo profitto nel minimo tempo.
Ma la discussione su questo medesimo fenomeno, credo, non può essere produttiva di altri convincimenti se non intervengono nuovi criteri di misura. E’ senz’altro vero che le società basate sul profitto (e dunque anche sulla tensione permanente tra il lavoro e il profitto) hanno prodotto gli straordinari risultati di ricchezza che si conoscono. Ma ciò ha potuto avvenire perché c’era, prima di esse, una concezione della realtà che consentiva l’accantonamento, la messa in parentesi – come cosa ovvia – del prezzo in termini di vita di un meccanismo sociale fondato sul dominio del più forte, più aggressivo, più intimamente violento. Questo accantonamento, questo non-vedere non è una resa della ragione ma il suo piegarsi strumentale ad una naturalità dogmaticamente assunta, ma che in realtà è la naturalità vista secondo le pulsioni del maschile.
In che cosa, allora, dovrebbe consistere quella “emendazione dell’intelletto” (maschile, appunto) cui tu ti richiami parlando di quegli uomini i quali hanno cercato di intendere il significato del pensiero della differenza? Per quello che mi riguarda ritengo che esso dovrebbe consistere in uno sforzo per cooperare alla formazione (o, dovrei dire, creazione) di una nuova ragionevolezza, fondata sull’accertamento della realtà non più vista secondo il parametro ultimo determinato dalla razionalità strumentale maschile. Credo che questo apra un campo al possibile lavoro comune. Se, per fare un esempio attuale, penso alla discussione odierna sulla differenza tra le culture che ha assunto, sia pure strumentalmente, un suo fulcro sulla concezione della donna nelle due culture, credo si possa constatare prima di ogni contrasto l’identità di vedute nella originaria prevalenza in entrambe del punto di vista del maschile. L’involuzione verso l’integrismo islamico, anche dove esso era largamente sconfitto, non è un fatto autonomo, ma è – piuttosto – l’altra faccia del volto assunto da ciò che è apparsa essere la trionfante immagine della razionalità (maschile) occidentale, una immagine di prevaricazione se non di sterminio per modo che la medesima idea di liberazione della donna si presenta come una insidia estrema dell’invasore. Ma allo stesso modo l’integrismo cristiano ripropone l’idea della proprietà sociale-maschile sul corpo della donna (e dell’embrione) in replica alla idea che i soggetti sono due e non uno solo e che questa duplicità del soggetto implica un ripensamento radicale della società del padre deificato.
Quanto un personaggio (Fallwell), deteriore e grottesco quanto si vuole, ma che ha tuttavia un seguito popolare impressionante, va gridando che la colpa per l’attentato alle torri gemelle è in ultima istanza delle femministe, dei gay, delle lesbiche, degli abortisti, ecc. egli Fallwell – come Farrakan dalla parte degli afroamericani mussulmani – rivela quel fondo oscuro che altri (giornalisti, intellettuali, ecc.) coprono con giri di parole. Essi dicono, cioè, che bisogna farla finita con la rottura dell’ordine stabilito, e che la guerra – cui costoro inneggiano – sarà la buona occasione.
Io non credo che questi energumeni possano crollare da soli.
Anzi, essi si sono venuti moltiplicando. Ciò non può essere accaduto per caso. Ho scritto, proprio su Via Dogana, che mi sembrava in atto una reazione fortissima del maschile, per rispondere agli scossoni dati dall’avanzare di una critica dei fondamenti, particolarmente dovuta agli elementi di rivoluzione femminile in atto. Ma questa reazione può avere successo e per intanto sta sconvolgendo il mondo perché è difficile abitare una casa lesionata. Riprendo l’immagine del diritto improntato al maschile che tu facevi: la pratica dello stare al suo interno per conoscerlo e per inserire in esso nuclei critici radicali del lavorare poi dall’esterno per pensare e costruire un’altra realtà, anche del diritto. Ora è proprio questo lavoro che andrebbe fatto in comune poiché non ci si può limitare allo smantellamento. Che immagine possiamo avere della vita associata, ammesso che questa domanda venga considerata giusta? Che immagine possiamo avere dei rapporti economici tra le persone? Proprio perché non credo che siano state date su queste – come su molte altre domande – risposte accettabili, ho cercato di avviare una “pratica di relazioni” attraverso questa associazione di cui mi hai sentito parlare più volte e che, ovviamente, si mette in moto con mille difficoltà innanzitutto teoriche, ma anche dovute al fatto che l’irruzione nella vita di tutti della “politica seconda” – bisogna ammetterlo – è straordinariamente assordante, trattandosi dell’esplosione di tutte queste bombe, e di ammazzamenti e stragi di ogni tipo.
Anche su questo, credo, bisogna prendere la parola.
Un abbraccio.