Mariangela Mianiti
Non era mai successo che una donna ospite di una casa protetta accettasse di parlare e di farsi fotografare. Non era mai successo che una donna maltrattata per vent’anni dal marito aprisse la scatola del suo dolore per dire pubblicamente: <Io sono viva perchè sono scappata. Io ho ricominciato a vivere perché altre donne mi hanno aiutato. Io ora sono io e non più la vittima di mio marito>.
L’appartamento dove ha sede la Casa delle donne maltrattate a Milano (Cadm) è al quarto piano ed è pieno di luce: un rododendro, un ficus, qualche geranio alla finestra, classificatori colorati nelle librerie, un manifesto con belle facce di maschi che dice “I veri uomini non picchiano”, un lungo tavolo bianco per le riunioni e donne, solo donne che entrano, escono e rispondono al telefono. Questa casa che aiuta e protegge le donne in difficoltà è stata la prima del genere in Italia ed è nata nel 1986, quando di violenza in famiglia parlavano in pochi. Ma il problema esisteva, esiste, ed era così capillare e sentito che nel giro di vent’anni i centri di aiuto come questo si sono moltiplicati e ora costituiscono una rete importante che ha ottenuto un numero telefonico unico, l'”Antiviolenza donna”1522. Se ora Rita è davanti a me a raccontare come e perché ha subito quel che ha subito e come se ne è liberata, è perché si è rivolta a uno di questi centri che l’ha accolta, nascosta e mandata lontano, a Milano, dove la Casa delle donne maltrattate l’ha ospitata per un anno in un alloggio protetto, un appartamento dove si rifugiano le mogli con mariti violenti e pericolosi. Il Cadm ha una sede (via Piacenza 14), un numero di telefono (02-55015519) a cui chiamano in media 800 donne l’anno, un sito (www.cadmi.org), gestisce un centro di accoglienza, quattro appartamenti protetti, dà informazioni, assistenza psicologica, offre consulenza legale ed economica, orientamento allo studio e al lavoro, mediazione culturale, promuove progetti di prevenzione nelle scuole sulla violenza sessuale in famiglia.
Per Rita la Casa delle donne è come una seconda famiglia, anzi è una comunità allargata di donne che l’ha accolta e protetta al di là dei legami di sangue e di parentela che contano, ma a volte si rivoltano contro i suoi stessi componenti come una malattia autoimmune. Rita avrebbe potuto morire di famiglia. Secondo i dati Eures, nel 2004 un marito o ex coniuge ha ucciso una moglie ogni sei giorni, nel 2005 ogni quattro: 50 volte al nord, 17 al sud, 15 nel centro Italia. Si può dire che di donne che muoiono come Barbara Cicioni ce n’è una a settimana. Se non fosse scappata, Rita avrebbe potuto essere fra queste.
Per incontrarci Rita ha scelto jeans e una maglietta bianca con disegni neri e qualche strass, un piccolo tocco di civetteteria. Non porta anelli, tanto meno la fede. Ha gli occhi mobili e vividi, un viso morbido che si incupisce quando ricorda fatti che le fanno male. L’unico momento in cui compare un sorriso aperto da fanciulla è quando parla dei piatti che cucina: lasagne, polpette, pasta al forno, verdure. <Ma sbaglio sempre le quantità>, dice <Prima ero abituata a cucinare per sette, otto persone. Ora sono da sola>. Quando comincia a raccontare, il flusso dei suoi ricordi salta, si ferma, torna indietro, si spezza di nuovo in un nodo di lacrime, si fa forza, specifica, si rianima. Anche il ritmo del suo racconto parla del suo dolore e della sua rinascita.
<Ho quarant’anni, sono laureata, vivevo al sud e lavoravo all’università. Sono qui da due anni. Quando sono arrivata non conoscevo nessuno. Però prima rischiavo la vita tutti i giorni >.
Pausa.
<Mi sono sposata giovanissima. La mia famiglia era contraria, ma io mi sono intestardita. Lui era più grande di me e ai miei occhi era affascinante. Mia madre mi diceva: “Non è come lo vedi, ha due facce, stai attenta, mi hanno detto che è violento”. Non le ho creduto. Ho voluto fare di testa mia, ho obbligato i miei genitori a dare il consenso, ma il giorno delle nozze non ero felice. Mi dicevo che lo avrei salvato, che con me non sarebbe stato cattivo. E poi da fidanzato era molto appassionato, diceva: “Io senza di te non vivo”. Mi fidavo. Il giorno dopo il matrimonio cambiò: era diventato cupo, ombroso, prepotente, non parlava e gli è venuto quello sguardo, quello sguardo…>
Pausa. La voce si spezza.
<…Quello sguardo cattivo, feroce, di odio. Non era mai contento di nulla, mi controllava, mi impediva di uscire. Tornati dal viaggio di nozze andai da mia madre, ero in lacrime, ma non le dissi nulla. Mi vergognavo. E poi pensavo: “Sua madre non lo abbandonerebbe, io gli farò da madre. Che errore!>.
Pausa.
<Lasciai la scuola e mi diplomai da privatista. Rimasi subito incinta e lui cominciò a picchiarmi. La prima volta mi prese a schiaffi, non so perché lo fece, non c’era un motivo…>
Silenzio. Le parole si perdono in un singhiozzo.
<Scappai da mia madre, ma non le dissi nulla. La mattina dopo lui mi venne a prendere, facemmo pace. Ho pensato che non sarebbe più successo, invece….>.
Pausa.
<Invece la situazione è rimasta così per anni. Vent’anni sono rimasta con lui nonostante tutto. Ero legata manie piedi. Avevo dei figli. Se me ne fossi andata con loro ci avrebbe ammazzato tutti. Io cercavo di capire perché faceva così, mi sono messa a studiare psicologia, gli dicevo: “Dimmi se c’è qualcosa che non ti va di me” e lui rispondeva: “Di te mi va tutto, sei la donna migliore del mondo”. >.
La voce di Rita diventa più dura.
<La violenza la respiravano anche i muri a casa nostra, giorno e notte e poi all’improvviso scoppiava, senza un motivo, sorda, fredda. Lui aveva quello sguardo folle e non chiedeva mai scusa, minimizzava tutto. Mi spaccava la testa e diceva: “Che vuoi che sia?”. Una volta mi ha dovuto portare al pronto soccorso, mi accompagnava e diceva: “Dì che ti è caduto un mobile in testa”. A freddo mi spaccò la testa, dieci punti mi hanno dato. Io a casa gli dicevo: “Ti prego portami all’ospedale. Non voglio morire”. E lui: “No, non ti porto”>.
Pausa. La voce si abbassa.
<Io non potevo lasciarlo. Non c’erano associazioni, allora. E poi come facevo a sparire con tutti quei figli? Dove scappavo senza un lavoro, senza conoscere nessuno? Una volta sono andata da un avvocato, volevo fuggire portandomi via il bambino più piccolo, il quarto. Gli dissi: “Vado nel terzo mondo, almeno lì non mi trova”. Lui mi rispose: “Non ha diritto di farlo. Pensi a suo figlio. Che futuro gli dà?”. Ma anche prima avevo provato ad andarmene, quando avevo solo la prima figlia. Andai dalla polizia a dire: “Mio marito mi picchia”. Loro risposero: “Ma su signora. Sono cose fra voi, riappacificatevi, pensi alla bambina”. Ora è tutto cambiato. Anche le forze dell’ordine sono più sensibili e collaborano>.
Pausa.
<Ma allora nono c’era nulla, nulla. Ero sola. Poi anche nella città dove abitavo è nato un centro di antiviolenza e io lo conoscevo, addirittura collaboravo con loro perché lavoravo in una struttura pubblica, avevo una faccia pubblica. Sì, avevo una faccia pubblica da difendere, e poi ne avevo anche una privata che nessuno conosceva e che ho tenuto nascosta anche ai figli fino a che ho potuto. E questo è sbagliato, è un errore che molte donne anche acculturate fanno. Non si rivolgono ai servizi sociali per preservare l’immagine. Prima di chiedere aiuto al centro ho aspettato dieci anni perché i figli erano cresciuti e io come facevo a toglierli dalla loro città, dagli amici, dalle loro abitudini? Dovevo resistere, aspettare che fossero grandi, autonomi, proteggerli dal padre e nascondere anche a loro la verità perché non volevo che sapessero che uomo era il padre. Ci sono riuscita finché lui mi ha picchiato anche in loro presenza. Loro sono umani, sensibili, hanno studiato. Mi chiedevano: “Perché papà è così?” E’ stanco, dicevo, lasciate perdere. Non vi preoccupate per me. E mi costringevo a restare, mediavo>.
Pausa. Rita sa già qual è la domanda sospesa.
<No. A loro non li ha mai toccati. Se solo avessi avuto il dubbio lo avrei ammazzato. Poi è arrivato quel pugno, a freddo, dato in un momento di totale tranquillità. Gli avevo preparato la colazione, gliela avevo servita come sempre. E lui mi ha dato quel pugno, durissimo. Sono andata all’ospedale. Mi sono resa conto che rischiavo la vita. Ho detto basta. Ho pensato: “I figli ora non me li può più ammazzare. Sono grandi, lui un po’ di bene gliene vuole, sono autonomi, lo conoscono, sanno difendersi, possono vivere da soli. E poi, se resto che modello di donna gli do? Una donna perdente, che si fa picchiare e tace, che non reagisce, che subisce. Non va bene. Anche i figli erano stanchi. Non si riusciva nemmeno a dormire tranquilli. Io mi stendevo rigida perché avevo paura. Stavo in un angolo del letto e gli giravo le spalle perché non potevo vederlo. Avevo paura di sentire le sue mani sul collo all’improvviso. Ho deciso anche spinta dai figli. Sono andata al centro, mi hanno subito allontanato da casa. Mi hanno nascosto per tre giorni da amici, hanno cercato una casa disponibile, lontano. E’ venuto fuori un posto a Milano e uno a Merano. Io non sapevo nemmeno dove fosse Merano. Ho scelto Milano. Lì è cominciata la mia vita da clandestina, nella casa protetta perché lui avrebbe potuto cercarmi, trovarmi ed era pericoloso. Sono arrivata a Milano in una sera d’inverno. Avevo solo una valigia piena di carte, quante carte…>.
La voce si spezza. Pausa.
<I figli li sentivo e li vedevo di nascosto. Non chiamavo mai a casa, non scrivevo mai. Ora invece è tutto diverso. Ora torno nella mia città e non ho più la paura di prima, anche se prendo mille precauzioni e mi faccio accompagnare solo in auto per evitare di incontrarlo. L’ho anche rivisto davanti al giudice perché c’è stata la separazione. L’ho guardato e gli ho detto: “Sei una faccia di merda”. Il potere l’ha perso. Però all’inizio non è stato così, non mi sentivo sicura nemmeno a Milano. Avevo paura di incontrarlo per caso, se vedevo un’auto come la sua scappavo. La vita da clandestina è dura ed è piena di cose semplici che non puoi fare. Chiamavo i figli da schede telefoniche sempre diverse e secretavo i numeri. Se uscivo con qualcuno non potevo farmi riaccompagnare fino a casa perché dovevo tenere nascosto l’indirizzo. Loro non capivano perché ed era difficile raccontare la verità. Quando dici “Sono stata una donna maltrattata” la gente cambia atteggiamento, si imbarazza. La mia vita era piena di strategie: niente lettere, né pacchi. E’ durata un anno la mia vita di clandestina totale…>.
Pausa.
<Quando sono arrivata nella casa protetta il cuore mi impazziva. Mi dicevo che io non ero maltrattata, mi chiedevo com’erano le altre. C’era una donna con sua figlia, la mattina dopo mi ha svegliato il profumo di un minestrone buonissimo. La bambina è venuta a dirmi: “Mangi con noi?”. Poi ho scoperto che quella donna non amava cucinare, lo fece apposta per me quel minestrone. Nella casa non si parlava mai fra di noi dei maltrattamenti, ci saremmo schiacciate sotto i nostri dolori. Solo la bambina un giorno mi ha detto: “Sai, papà si arrabbiava sempre con la mamma. Lei stirava e papà urlava, urlava”>.
Pausa.
<Alle donne che sono come sono stata io direi: non sottovalutate il pericolo. Una donna sente se quello con cui vive è un potenziale uxoricida. Però loro, quando ti picchiano, ti tolgono tutte le sicurezze e anche la capacità di difenderti. Chi non è dentro questa cosa fatica a capire. Lui ha preso paura quando l’ho denunciato la prima volta, tredici o quattordici anni fa. Gliene ho fatte tre di denunce e ora è stato allontanato dai figli>.
Pausa.
<Io sono fuori pericolo, sto meglio, ma non sono una donna integra. Ho fatto un lungo percorso psicologico per arrivare fin qui, ma mi vedo segnata dall’aver lasciato lontano gli affetti. Però per la prima volta sono tranquilla anche se per dormire devo prendere una pillola. E’ come essere stata agli arresti domiciliari per vent’anni e solo da poco sono tornata a vivere quasi come una persona normale. La sera posso uscire senza avere paura, lavoro per la Casa, mi sento protetta anche se Milano è difficile da vivere. Però laggiù non tornerò più. Le strade, i muri, tutta la città è impregnata della sua violenza>.
Per completezza di cronaca è corretto informare che la Casa delle donne maltrattate di Milano paga un affitto a prezzo di mercato, percepisce dal Comune 50 euro al giorno di retta per ogni ospite della casa protetta e niente più, non ha nessun finanziamento certo da nessuna delle istituzioni milanesi o lombarde, dal 2002 al 2006 ha ospitato 87 donne di cui 29 esclusivamente a carico dell’associazione, più 16 giovani finanziate da privati. In sintesi, dal 2002 al 2006 il Cadm e le sue socie hanno speso 57.363 euro di tasca loro. Ogni regione ha numerosi centri di accoglienza per le donne tranne la Calabria, che ne ha solo uno. La politica di prevenzione alla violenza in famiglia in Italia l’hanno fatta soprattutto le donne, spesso gratis.