di Rossana di Fazio
È davvero bello e sorprendente frequentare piazza Duomo in questo freddissimo inverno.
Nella desolazione in cui ci getta la cronaca politica – politica?! curioso come nei momenti cruciali ogni confine concettuale tenda a sparire, un bene direi – , Piazza Duomo, nel lato piazzetta Reale offre, perfino a tarda sera, una visione che ha dell’incredibile. Centinaia di persone in fila, la maggior parte giovanissime: due lunghissime direttrici, una per le mostre di Palazzo Reale, l’altra per entrare al museo del Novecento. Dalla sua apertura, a dicembre, questo museo rappresenta una festa per la città, di cui a godere sono anche i passanti, per il bel lavoro degli architetti Fabio Fornasari e Italo Rota che hanno trasformato l’arengario nel più bell’involucro metafisico che si sia visto, dal quale come da una lampada, sorgono luci colorate e il guizzo di neon di Lucio Fontana, che compongono una sorta di rima e contrappunto con le luci del duomo e della piazza.
Una festa. Senonché su quattro piani di Museo e centinaia di opere, dipinti, sculture, sono presenti nella collezione solo due artiste: Carla Accardi (con tre opere) e Grazia Varisco (idem). Ho notato una menzione a Margherita Sarfatti, animatrice culturale della Milano degli anni ’30.
Questo stato di cose è probabilmente dovuto al fatto che le collezioni del Museo derivano da collezioni esistenti e donazioni fatte a suo tempo al comune di Milano.
Antonietta Raphael, Concerto.
Ma io penso che oggi non si possa aprire un museo del 900 senza porre nella dovuta evidenza la presenza femminile nelle arti, presenza che nel corso del Novecento assume proporzioni che non si possono sottovalutare.
Tanto più che proprio Milano ha ospitato esposizioni fondamentali nella ricostruzione di questo percorso: L’altra metà dell’Avanguardia (a cura di Lea vergine) del 1980, o più recentemente L’arte delle donne (2007-2008), per non dire delle innumerevoli monografiche dedicate ad artiste di primo piano al PAC, a Palazzo Reale, alla fondazione Prada… Insomma Milano conosce da vicino le artiste e il loro lavoro e così, certamente, Marina Pugliese, autorevole direttrice del Museo attentissima alle questioni centrali della fruizione artistica. La quale sarà certo sensibile al fatto che ogni museo propone un sistema di riferimento, un discorso, un percorso che è anche un sistema di valori da mettere o rimettere in circolazione.
Se non si poteva fare altrimenti, avendo ben poco nelle collezioni disponibili (per un vizio d’origine evidentemente), era necessario porsi il problema di questo vuoto, renderne ragione, magari lasciando alle artiste “un posto a tavola” che resti al visitatore ben chiaro: “qui dobbiamo metterci…. Marina Abramovic, Louise Bourgeois, o Toyen, Rebecca Horn, Louise Nevelson e se dovessimo restare in Italia (chissà poi perché) Leonor Fini, Maria Letizia Giuliani, Antonietta Raphael Mafai, Norma Mascellani (ma in mezzo agli altri per carità, non come ghetto di quota rosa). Sono nomi che scelgo, volutamente, un po’ a caso, perché sono tantissimi, nonostante siano spesso sconosciuti al grande pubblico, che infreddolito nelle lunghe file esprime una necessità oltre che una curiosità, di entrare in una relazione viva con artefatti, materiali, idee, qualcosa di cui ha bisogno per delineare la propria sensibilità e condividerla e dialogare…Questo perché è chiaro che un intervento così significativo nella vita culturale della città ha delle implicazioni vaste, di lunga portata, di cui stiamo pagando le le conseguenze…
Chissà se la proposta del posto vuoto piacerà a Pugliese e ai curatori. Altrimenti avremo allestito un magnifico contenitore nel quale si custodisce un vizio sostanziale, una svista, o piuttosto una rimozione che, si spera, giunti da un po’ nel nuovo Millennio dovremmo proprio essere in grado di riconoscere e sanare.