di Katia Ricci
Charlotte Salomon nacque a Berlino il 16 aprile del 1917 da Franziska Grünewald, musicista, e Albert, medico chirurgo. Figlia unica, trascorse un’infanzia serena fino a nove anni, quando la madre si suicidò, gettandosi da una finestra. Le fu raccontato che la causa della morte era stata un’influenza. Soltanto dopo il suicidio della nonna, molti anni più tardi, il nonno le rivelò che anche la madre e altre quattro donne della famiglia si erano tolte la vita. Nel 1930 il padre si risposò con Paula Levi, nota cantante lirica, con la quale Charlotte ebbe un intenso rapporto affettivo. All’avvento del nazismo con l’emanazione delle Leggi di Norimberga contro gli ebrei, dovette abbandonare il liceo, il Fürstin-Bismarck. Viaggiò in Italia con i nonni, rimanendo affascinata dalle opere di Michelangelo. Anche per questo volle dedicarsi all’arte e nel ’36 fu ammessa all’Accademia, poiché, pur di religione ebraica, il padre si era distinto nella I Guerra Mondiale. Nel ’38 abbandonò la scuola per paura delle persecuzioni, quando il padre fu rinchiuso per qualche tempo nel campo di Sachsenhausen. Il pogrom della “notte dei cristalli” consigliò alla famiglia di mandarla a Nizza, dove già si erano rifugiati i nonni. Li raggiunse a Villefranche nella villa di Ottilie Moore, che le offrì assistenza e amicizia e comprò molti dei suoi dipinti. Nel ‘40 dopo la morte della nonna e l’internamento per tre settimane nel campo di lavoro di Gurs nei Pirenei, Charlotte, per superare una grave crisi nervosa, riprese il lavoro artistico. In soli due anni dipinse i 1325 fogli di Vita? o Teatro?, che affidò all’amico, dottor Moridis, dicendogli: “ Ne abbia cura. Le affido tutta la mia vita.” Nel ’43 il nonno ebbe un infarto per strada, in seguito al quale morì in febbraio. Charlotte si sposò con Alexander Nagler, ebreo austriaco, il quale dichiarò di essere ebreo, pur avendo un passaporto falso, poiché i matrimoni misti erano vietati. La polizia, messa così sulle loro tracce, li arrestò in settembre. Internati ad Auschwitz, Charlotte, incinta di quattro mesi, non passò la selezione e il 10 ottobre fu uccisa nella camera a gas. Stessa sorte toccò il 1 gennaio del ’44 ad Alexander Nagler. Le sue opere sono al Museo Giudaico di Amsterdam, a cui Albert Salomon le donò.
Leben? Oder Theater? (Vita? o Teatro?) è un’autobiografia per immagini; divisa, secondo la classica struttura teatrale, in tre parti, prologo, parte centrale e epilogo, è definita dalla stessa Salomon, ein singspiel, melodramma. Gli attori sono personaggi reali indicati con uno pseudonimo, che ne mette in evidenza il carattere.
Ciascuna gouache -colori mescolati con acqua, colla e biacca-, ottenuta con i tre colori primari (dalla cui mescolanza ricava tutti gli altri) più il bianco, è formata da figure, musica e testi scritti, che contengono sia i dialoghi dei personaggi, sia i commenti dell’artista come voce narrante. L’accompagnamento musicale varia, da una sinfonia a una canzone popolare, dall’aria di un’opera lirica alla colonna sonora di film. Charlotte fa della sua vita un’opera d’arte e nell’opera raffigura il senso della vita. Ne rievoca i nodi fondamentali: l’infanzia, la ricerca della bellezza, a cui la madre aspirava, il suicidio della madre, quel lugubre 30 gennaio del ’33. E poi l’assalto ai negozi degli ebrei, l’internamento del padre, la contestazione antisemita al concerto di Paula, sua seconda madre, la bocciatura agli esami dell’Accademia, la tanto sospirata ammissione, il complesso rapporto di amore e gelosia con Paula, l’amore per Alfred Wolfsohn (Amadeus Daberlohn), le appassionate discussioni sull’arte, fino all’amaro distacco dell’esilio.
Ella non si presenta come vittima, non oppone odio a odio, non esprime solo la necessità di uscire dall’orrore che la circonda, ma il desiderio di diventare la donna che vuole essere. Crea un linguaggio originale, in cui sono evidenti influenze degli Espressionisti e di Chagall, del linguaggio cinematografico, dei fumetti e dell’espressione grafica infantile, rivisitata dalle avanguardie. Gli episodi della persecuzione si mescolano con le scene di affettività e di amore per la vita in tutte le sue forme. La presa di potere di Hitler è rappresentata da un compatto drappello di nazisti, tutti uguali, minacciosi nella loro divisa rossa, simbolo di pericolo, come la bandiera con la svastica, che agitano. Su quelle teste, quasi del tutto prive di connotati umani, è stampigliata quella data sinistra, 30 -I -1933. Il commento suona come una satira della propaganda: “La svastica- un simbolo luminoso di speranza- ora spunta il giorno della libertà e del pane.”
Nella gouache in cui rievoca le vacanze sulle montagne bavaresi, l’azzurro, secondo Kandinskji il più spirituale dei colori, e il verde richiamano sensazioni di serenità e di agio. Inquadrata in alto e in basso da due treni, che vanno in direzioni diverse per indicare l’arrivo e la partenza, tra prati, mucche, laghetti e cime montuose, la piccola Charlotte vestita di azzurro corre e salta con il padre e la madre, rappresentata un trentina di volte nella sua gonnella rossa. Nel racconto dei momenti immediatamente successivi alla morte della madre, usa, invece, colori scuri: Charlotte corre a precipizio in un buio corridoio per cercare di sfuggire al dolore, rifugiandosi infine nel bagno.
L’arte per lei non è certo evasione e fuga dal reale, ma unica possibilità di sopravvivenza, fluisce direttamente dalla vita, dalla necessità di trovare alternative possibili. Questo la salvò dalla depressione e dal sentirsi vittima e l’aiutò a interrogare e elaborare fino in fondo le proprie emozioni. Il suo scopo non era solo “salvare se stessa”, come disse Etty Hillesum in quegli stessi anni, ma costruire una testimonianza di come poter uscire da un destino che si presentava ineluttabile e dare un senso universale alla sua vicenda. Per raccontare questo singolare percorso, ha inventato una nuova forma narrativa e un linguaggio artistico composito. Con vari mezzi sottolinea la distanza tra l’essere protagonista degli avvenimenti e l’esserne narratrice: il commento è in terza persona, la realtà si mescola alla fantasia, lo stesso titolo pone un legame, ma anche un’ambiguità, tra vita e teatro, vale a dire tra realtà e finzione. Il tono è vario, a volte ironico, i testi talvolta in rima, come in qualche gouache in cui rappresenta Daberlhon, il maestro di canto. Con lui Charlotte polemizza, pur amandolo, e mette in scena il conflitto tra uomo e donna nella visione dell’artista, non genio solitario, ma legato alla vita. Inoltre da narcisista qual è, egli si sente un pigmalione. Mortificato dalla reazione di Paula, tutt’altro che propensa a farsi condizionare nella sua libertà espressiva di cantante, seduto al tavolino del caffè, davanti a un boccale di birra, sfoga la sua delusione. La nota ironica consiste nel fatto che le parole pronunciate da Daberlhon, in rima, “lascia che io ti plasmi, lascia che io ti plasmi. Questo è tutto ciò che chiedo, tutto ciò che chiedo”, siano scritte sopra il boccale, come se fossero la continuazione delle bollicine di schiuma che trabocca dal bicchiere.
Riflettendo sui motivi per cui le donne della famiglia si erano tolte la vita e rielaborando il dolore, Charlotte comprende che esse, cercando la propria libertà, con il suicidio riuscirono solo a sottrarsi all’oppressione patriarcale, che per lei è la matrice del nazismo. Lavorando freneticamente, riempiva i fogli con una gestualità, che, quanto più procedeva nel racconto e si avvicinava al tempo presente, tanto più diventava ampia e veloce, ottenendo un tratto più essenziale e un colore più puro. Man mano l’opera diventava la sua vita e la vita l’opera, al punto tale che nell’immagine di chiusura si ritrae di spalle, in ginocchio di fronte al mare, con la mano sinistra che regge il foglio, il braccio destro libero di muovere il pennello sulla carta, che in realtà non c’è, perché al posto del foglio c’è il mare stesso. Sulla schiena è dipinto il titolo Leben oder Theater, Vita o Teatro, senza il punto interrogativo, come se non solo la sua vita, ma il suo stesso corpo fosse diventato l’opera. La ricerca di Salomon va dal figurativo all’informale, frutto del passaggio da uno sguardo all’indietro verso le vicende vissute, pur trasfigurate dal ricordo, ad uno sguardo rivolto dentro di sè, perché, come afferma in una delle ultime pagine, bisogna entrare in se stessi per poterne uscire. Se confrontiamo le gouache del prologo con quelle dell’epilogo, notiamo come le prime siano più descrittive e dense di segni, colori, parole e elementi narrativi.
Quelle dell’epilogo, invece, rifuggendo dai particolari, acquistano tratti quasi informali per rappresentare non tanto gli eventi quanto il loro senso, come quando cerca di confortare la nonna in preda alla disperazione, ricordandole i motivi per cui la vita vale la pena di essere vissuta.
Molto tenere sono alcune pagine, in cui Charlotte racconta i giorni della sua infanzia popolati di figure amorevoli, il padre, la tata, ma soprattutto la madre, mentre l’allatta, l’abbraccia, la porta in giro in carrozzina. Non c’è nessun riferimento ai luoghi in cui si svolgono le azioni, perché per una bambina gli spazi significativi sono quelli affettivi, che sono tutto il suo mondo. In una scena Charlotte saluta dal suo recinto i genitori che escono, agitando una mano assai grande, come se la bambina volesse colmare la distanza che la separa da loro. Il ritmo veloce, la disposizione in cerchio delle figure intorno a Charlotte suggeriscono quasi il suono delle voci che spesso nel ricordo accompagna le immagini. La memoria dell’abbandono fiducioso, del rapporto pulsionale e carnale con il corpo materno costituisce l’humus della sua lingua poetica, musicale e visiva. E’ da lì che Charlotte è venuta al mondo, quelle sono le sue radici; averle riconosciute e aver trovato un linguaggio così originale per raccontarle le ha dato la possibilità di riuscre a vedere altre strade oltre a quella della disperazione e della sventura. Ha ritrovato la sua libertà di donna, restituendo vita e senso alla figura tragica della madre, e consegnando un luminoso esempio alle generazioni future.