di Mariella Pasinati
Compro dunque esisto si leggeva in un’opera del 1987 di Barbara Kruger, l’artista americana che, fin dagli anni ’70 del ‘900, ha caratterizzato la cultura visiva del nostro tempo con le sue personali combinazioni di messaggi in carattere tipografico ed immagini tratte da libri, riviste, pubblicità, nel contrasto cromatico di bianco-nero e rosso. Usando il linguaggio pubblicitario e dei media, Kruger ha decostruito il codice dominante della comunicazione di massa e mostrato l’aspetto velenoso -e seduttivo- del consumismo. A differenza tuttavia degli artisti che, già dalla Pop art, hanno usato il linguaggio visivo per esplorare il mondo della cultura di massa e dei consumi, talora oscillando fra esaltazione e demonizzazione, approvazione e condanna, Kruger ha connotato sessualmente la propria critica e, svelando il controllo maschile sul linguaggio e nel sociale, ha contribuito a dare forma sessuata alla coscienza collettiva, in un lungo percorso condiviso anche da tante altre artiste.
Più di recente, Josephine Meckseper, tedesca ma attiva negli Stati Uniti, usa il linguaggio patinato della pubblicità contemporanea per infiltrarsi attraverso sfavillanti fantasie consumistiche nella nostra coscienza politica. L’artista combina immagini dell’attivismo politico -tratte dai giornali- con oggetti di consumo e motivi della pubblicità e della moda, generando effetti paradossali. Ricontestualizzandoli, Meckseper sovverte infatti il significato normativo di immagini e segni della cultura di massa e rivela i modi in cui i dispositivi del potere prendono forma. E’ quanto accade, ad esempio, nel video 0% Down (2008), in cui l’artista effettua un sapiente montaggio di brani di pubblicità televisive di marche di automobili che, nel messaggio pubblicitario usato, rivelano più o meno implicitamente un inquietante riferimento alle strategie militari e la complicità dell’industria automobilistica nella guerra per il petrolio: il montaggio video rende tutto evidente grazie anche alla scelta di utilizzare come colonna sonora una canzone di Boyd Rice dal titolo Total War. Già dal 2000, l’artista ha cominciato a realizzare le sue vetrine, eleganti come quelle dei negozi, con lo scopo di mettere a fuoco la dimensione paradossale e maniacale del consumo che, forzando gli individui a comprare, sottrae loro la capacità di scegliere e pensare autonomamente. Le sue composizioni riflettono l’estetica degli espositori dei grandi magazzini ma l’interazione fra gli slogan di protesta e gli oggetti ricontestualizzati genera nuovi, provocatori significati. ‘Lo specchio e le sculture cromate, le vetrine in vetro… non affermano o glorificano il consumismo,’ dice Meckseper ‘le superfici scintillanti sono pensate come provocazioni…per innescare nella dimensione commerciale quella politica.” Così nel 2005 in Untitled, la biografia di un terrorista è affiancata al manichino di una donna che indossa una felpa alla moda e una kefiah: un contrasto che esplicita anche il “consumo” di un simbolo politico in un approccio ‘radical chic’; con istanze legate a potere, classe e genere si misura invece Untitled (End Democracy) (2005), con il semibusto anatomico per esporre l’intimo che dialoga con la fine della democrazia. E ancora Ubi Pedes Ibi Patria (2006) mostra un espositore pieno di scarpe che richiama tanto gli espositori dei grandi magazzini quanto lo sfruttamento del lavoro o le pile di scarpe dei prigionieri ebrei, mentre nella foto intitolata Pyromaniac 2 (2003) il glamour della moda si combina con l’idea di violenza, in un modello femminile sull’orlo dell’autocombustione. Nell’installazione Ten High (2008), infine, l’artista compone simboli dello stile di vita americano -dai manichini alle sigarette, dall’auto potente alla T shirt con la scritta che retoricamente inneggia ai veterani, dalla bibbia al whisky- ma il glamour è solo apparente: il vomito, il vetro infranto, il tutore per camminare drammaticamente annunciano un intero modello economico sul punto di implodere: “going out of business – SALE” come si legge sul cartello.