Intervista e dialogo con Anna di Salvo
A cura di Loredana Aldegheri e Alvise Pettoello
“Città Felice” è il nome dell’Associazione che hai fondato. Qual è la sua origine?
Sono attiva nel pensiero e nella pratica politica della donne sin dagli anni ’70. Nel 1993 ho fondato a Catania insieme ad altre donne “Città Felice”, un’associazione che sin dall’inizio ha messo al centro dei propri desideri, della propria cura e della propria creatività la città in quasi tutti i suoi aspetti: relazioni, convivenze, architetture, arte, spazi, viabilità, economia, spiritualità, salute, istruzione, legalità ecc. La città è stata così letta e segnata attraverso il pensiero e le pratiche politiche della differenza sessuale con iniziative e interventi che nel corso degli anni hanno modificato il modo tradizionale di guardare la città e il suo governo in direzione di nuova idea di Catania e in direzione di una nuova visione della civiltà ripensata alla luce delle relazioni messe in atto con donne e tra donne e uomini.
La Città Felice ha fatto nascere il movimento della rete delle “Città Vicine”. Quale ne è stato il contesto?
Nell’aprile del ’98 abbiamo organizzato a Catania un convegno intitolato “Oltre Catania” al quale abbiamo invitato Clara Jourdan della Libreria delle donne di Milano perché ci desse dei consigli sul modo più giusto di procedere, Franca Fortunato di Catanzaro, donne del gruppo Kore di Messina e della biblioteca delle donne U.D.I. di Palermo con le quali volevamo ragionare in merito alla possibilità di creare, sulla base delle relazioni già esistenti, una rete di scambi e di elaborazioni tra città rese simbolicamente vicine dall’amore condiviso per i luoghi nel loro divenire e per la politica delle relazioni. Da allora i rapporti si sono infittiti, e nell’estate del 2000 a Scoglitti in Sicilia, durante l’incontro stanziale “Politica con vista”, è nata la rete delle Città Vicine che annovera tra le sue fondatrici anche donne di Roma e alcune donne del gruppo “La Merlettaia” di Foggia. In seguito anche Bologna, Verona, Firenze, Mestre, Spinea, Chioggia e altre città sono entrate a far parte della rete. La scommessa politica delle Città Vicine è stata ed è quella che sempre più città facciano crescere la rete e sviluppino tra loro analisi e progetti, superando quel senso di appartenenza che a volte ci tiene ancorate/i esclusivamente a quel che accade nelle rispettive realtà e che provoca un senso di estraneità e disinteresse per quel che avviene nelle altre città. Si è così creato un intreccio di relazioni tra donne e uomini di luoghi diversi che ha dato maggiore spazio, visibilità e respiro alla politica e ha fatto sì che si promuovessero scambi d’esperienze, approfondimenti, elaborazioni e convegni. Molte le questioni sulle quali le Città Vicine hanno voluto mettersi in gioco in questi anni, lo hanno fatto ad esempio in merito alla bellezza delle relazioni e della convivenza, alla partecipazione e al governo della città, alla riqualificazione di architetture, spazi e arredi urbani, al nesso tra arte e politica, al lavoro di cura e accoglienza dei nuovi migranti, alle relazioni di differenza nel contesto urbano, alle esperienze e alle idee per una nuova economia, ecc. Nel corso delle vacanze-politiche organizzate per molte estati di seguito dalle Città Vicine ora in Sicilia ora in Calabria sono state realizzate, tenendo conto dello spirito e dei materiali del luogo, delle performance e installazioni artistiche. Queste opere hanno preso vita grazie al coinvolgimento di ogni partecipante e agli stimoli che giungevano da parte di quelle che da tempo ci eravamo messe in gioco nella politica esperendo pratiche creative e adoperando di frequente il linguaggio visivo, come a parte me, Donatella Franchi, Luciana Talozzi, Katia Ricci e altre/i.
Che valore date alle pratiche espressive e creative per favorire una migliore convivenza in città?
Io sono una “figlia d’arte”. Mia madre era pittrice e anche mio nonno e il mio bisnonno lo erano. Mi sono accostata quindi sin dall’inizio della mia vita all’arte e al “pensiero creativo” in maniera fluida e naturale e ho appreso e amato il linguaggio dell’arte per trasmissione materna. In seguito ho raffinato questa vocazione con studi a indirizzo artistico conseguendo vari titoli, ma soprattutto insegnando arte applicata e storia dell’arte per oltre 40 anni a ragazze e ragazzi. Sin dagli inizi della mia pratica femminista, ho trovato naturale intrecciare e fare coincidere l’espressione politica con quella artistica, dando vita a opere, analisi, mostre e iniziative che mi hanno fatto capire come la politica possa essere resa fertile dalla creatività e viceversa. Da oltre 20 anni porto avanti una ricerca sulla vita e sull’operato di alcune artiste che va dal medioevo sino ai nostri giorni, soffermandomi e approfondendo soprattutto due aspetti della loro espressione. Il primo riferito al senso dell’importanza che queste artiste hanno voluto dare e riconoscere alla presenza e alla relazione con altre donne per la loro vita e per la loro produzione artistica (madri, sorelle, maestre, amiche), il secondo riferito alla ricaduta che il senso di civiltà esperita e tramandata per secoli da queste artiste attraverso il loro modo di esprimersi ha avuto sulle città. Le città figurativamente sono state scelte di frequente dalle artiste come scene nelle quali ambientare le loro opere e dalle quali ricavare ispirazione grazie alla complessità dei tanti volti che le compongono. Per fare un esempio, basti osservare l’opera medioevale che nella propria iconografia comprende la badessa Hitda nel gesto di donare il libro dei vangeli a S. Valpurga mentre la città si staglia sullo sfondo con le sue belle torri merlate (quanto detto si trova da me espresso con parole e immagini nel libro “cambia il mondo cambia la storia” a cura di Marirì Martinengo e Marina Santini, e nel CD-Rom “Tra memoria e progetto” realizzato dalla storica dell’arte Mariella Pasinati). Credo che l’aver praticato da sempre il linguaggio dell’arte abbia contribuito a farmi acquisire chiavi di lettura, angolazioni e prospettive nuove per vedere le cose che mi stanno intorno in maniera multiforme e abbiano dato maggiore intensità al mio intuito e alla mia sensibilità. Mi capita spesso infatti di tradurre mentalmente in immagini (non sempre figurative), il senso delle cose che accadono, per lo più sono le dinamiche relazionali che stimolano e sollecitano la mia fantasia che vive grazie alla vita delle relazioni. Questa produzione di immagini che a volte rimangono depositate in forma di pensiero nella mia mente, non sono una posposizione visiva di un fatto o di un ragionamento, a volte mi sono suggerite da sensazioni o intuizioni che anticipano quello che poi diventerà pensiero razionale. Quando qualcosa sollecita la mia sfera percettiva, vuol dire che la realizzazione concreta dell’opera sta iniziando a prendere corpo; la sua evoluzione reale avverrà però man mano che l’idea primigenia sarà arricchita dagli apporti di altre/i con cui mi trovo in relazione, condivido progetti e scambio esperienze.
Catania, la città in cui vivo, è una città tristemente segnata dall’arroganza e dal potere, dalla violenza e dalla mafia, è una città però molto bella che io amo, contornata da un magnifico paesaggio, ricca di memorie storiche e artistiche di incredibile prestigio. Camminando per il suo centro storico o per i suoi dintorni non è difficile imbattersi in vestigia del passato che fanno riferimento al periodo preistorico, siculo, greco, romano, bizantino, romanico, gotico, barocco, neoclassico, liberty ecc. Sono certa che tutta questa bellezza di cui le/i cittadini fruiscono, non può che orientare spiritualmente verso il bene e che parli alle donne e agli uomini di Catania infondendo loro pace e armonia.
Come ti hanno parlato le opere e le immagini artistiche della tua città?
Da ragazza percorrendo per motivi di studio le zone più artistiche di Catania, mi capitava spesso di fermarmi per disegnare le statue di sante, dee e figure allegoriche femminili che adornano in gran numero le facciate delle chiese, dei teatri, dei palazzi e che connotano con immagini di donne anche le fontane e gli ingressi dei parchi e dei luoghi pubblici. Nel corso degli anni mi sono chiesta come fare per dare risalto al senso profondo che secondo me queste figure emanavano, avvolgendo la città con un alone di spiritualità e compostezza. Ho chiesto a mia figlia Pamela, che è una brava fotografa, di realizzare una mostra che comunicasse attraverso le immagini la positività che quelle statue esprimevano attraverso le posizioni dei loro corpi, i gesti delle loro mani e l’ espressione dei loro volti. Quella manifestazione artistica, in tutto il suo iter, ha avuto come conseguenza positiva quella di infondere in me una consapevolezza nuova che ha dato l’avvio alla messa in essere della pratica visiva dell’ “arte di città”, durante la quale ho compreso che si può intervenire sulle opere del passato individuando in queste, significati diversi da quelli dati precedentemente (di questo ho parlato nel quaderno di Via Dogana “Matrice” a cura di Donatella Franchi).
Frequentemente noi di Città Felice affermiamo a Catania i nostri desideri e le nostre idee in merito alla città, come quando ad esempio qualche tempo fa ci siamo espresse con analisi, documenti, studi, incontri, installazioni e performance insieme a donne e uomini impegnate/i politicamente in altre associazioni, comitati e gruppi cittadini, disapprovando il tentativo da parte dell’amministrazione comunale di abbattere oltre 40 palazzi in stile neoclassico e liberty a causa del raddoppio del binario della linea ferroviaria Catania-Siracusa che avrebbe dovuto attraversare sotto terra il centro storico della città. O quando abbiamo riflettuto insieme agli abitanti di alcune delle piazze più belle e centrali di Catania, dove avrebbero dovuto avere luogo delle operazioni di sventramento del suolo pubblico da parte di privati per costruire dei parcheggi sotterranei, in merito agli effetti devastanti che quei progetti insensati avrebbero potuto provocare. In tutto questo lavorio, quello che cerchiamo maggiormente di significare è che le iniziative di Città Felice non sono solamente interventi di carattere sociale, ma azioni che hanno alle spalle una lunga pratica di relazioni e di scambi con altre/i che vogliono il bene della città e che si impegnano a dare nuovo senso alla qualità all’abitare e nuove definizioni al concetto di pubblico, intendendo questo come “pubblico-domestico”, cioè lo spazio di tutti segnato dall’esperienza e dalla competenza femminile. Altro aspetto di grande rilevanza è a nostro avviso l’aver cercato di fare capire con le nostre elaborazioni e le nostre pratiche artistiche che le opere e i luoghi di riferimento storico, artistico, culturale della città sono componenti importanti per mantenere salda la memoria e il senso di affezione e di radicamento ai luoghi da parte di chi li abita. Non si può stravolgere la città, svilire e offendere architetture e spazi prestigiosi per favorire l’interesse di pochi e certe speculazioni economiche che spesso, oltre a cambiare in peggio il volto della città, minano anche la stabilità e la serenità delle e dei cittadini. Chi si pone al governo delle città, crede il più delle volte di essere entrato in possesso dei beni comuni e pensa di poterne fare ciò che vuole, senza ascoltare il desiderio delle e degli abitanti che sono i veri depositari del patrimonio cittadino e mostrano quasi sempre di essere gli unici a voler salvare dalla barbarie il luogo dove vivono.
Ci fai qualche esempio di “espressioni artistiche” che hanno provocato presa di coscienza nel tuo territorio?
Penso sia fondamentale imparare a vedere, riconoscere e preservare la bellezza più o meno manifesta dei rispettivi contesti in cui si vive perché da questo si può trarre la forza per affrontare il negativo che spesso ci circonda. La ricerca della bellezza nelle relazioni e nelle forme estetiche intorno a noi crea e determina bellezza interiore e stimola gesti e pensieri positivi. Faccio qualche esempio del modo di procedere in maniera artistico-politica che metto in essere insieme ad altre/i con Città Felice in città. L’installazione “Segni di un discorso amorevole”, realizzata in piazza Federico di Svevia durante una delle tante iniziative promosse in quel contesto (in cui si trova peraltro la nostra sede politica), è stata creata in occasione della paventata distruzione dei palazzi antichi. Era composta da parti murarie di case abbattute che avevamo raccolto nei cassonetti dove si gettano i materiali di risulta. La maggior parte di questi brandelli di muri mostravano le tracce dei vecchi materiali e delle veccie tecniche di costruzione adoperate un tempo e i decori scelti da chi aveva abitato case che ora non c’erano più. Ciò che volevamo esprimere e significare con quell’operazione era che anche quando vengono abbattuti, i palazzi e le case mantengono nelle loro parti la storia, la memoria e lo spirito di ciò che li ha pervasi prima di venire distrutti. Case e palazzi sono stati quindi guardati da noi con rispetto e amore rinnovati, in quanto strutture architettoniche che oltre a mostrarsi nella loro dimensione estetica, rappresentano spazi accoglienti segnati da storie di donne, di uomini e di creature piccole. Sono state soprattutto le donne quelle che lavorando, gioendo e soffrendo nelle case hanno messo in forma secolo dopo secolo una civiltà di segno femminile scandita dal tempo domestico. Con Città Felice di solito allestiamo performance e installazioni in spazi aperti cittadini quali piazze, strade e luoghi pubblici affinché chiunque possa partecipare alla loro realizzazione e al contempo viverle anche come frutto delle propria creatività. L’incontro con l’esperienza artistica regala alla donna o all’uomo che ne prendono parte, un bagaglio di emozioni e di sensazioni che il più delle volte non sono traducibili in parole, non sono similmente riscontrabili nell’una o nell’altro ma sono invece facilmente interscambiabili. Ritengo che proprio in questo risieda il di più della scommessa politica e artistica che pratichiamo in città, cioè nel sentire o esprimere nuovi sensi e nuove percezioni in merito alla comprensione e alla visione delle cose che riguardano l’essere e il divenire della città.
Sui problemi impellenti del presente i linguaggi artistici come arrivano?
Ci tengo a dire che quasi mai una performance o un’istallazione possono essere riproposte in maniera analoga. Esiste infatti un’unicità del tutto particolare che caratterizza ogni opera nelle diverse fasi del suo divenire sino alla completa realizzazione. E’ difficile infatti ricreare le stesse condizioni materiali e spirituali e far rivivere lo stesso contesto. C’è un dato ineluttabile nell’impossibilità di riprodurre questo tipo di opere, quello cioè che le installazioni e le performance non si propongono quasi mai come oggetti effimeri e mercificabili ma si prestano ad essere fruite come creazioni dal forte impatto visivo e dal grande potenziale trasformativo. Persino le riproduzioni fotografiche, se non riescono a testimoniare l’intera essenza dell’opera nelle sue componenti d’arte e di politica, rischiano di testimoniare soltanto la realizzazione di un oggetto senz’anima oppure di un feticcio. Aggiungo inoltre che le opere significative continueranno a esprimere e perpetuare bellezza nel tempo se la loro essenza continuerà a vivere nell’anima di chi ne ha saputo trarre arricchimento per il suo modo di essere e di pensare. Un’altra installazione che ha avuto come tema il valore dell’acqua per la vita del mondo, è stata realizzata da noi nella piazza del duomo di Catania in occasione di una delle tante manifestazioni che hanno avuto luogo nel dicembre 2006 in tutt’Italia per affermare che l’acqua è un bene di tutti e che non può essere sprecata né privatizzata. Abbiamo pensato un’istallazione composta da un telo di plastica leggerissimo posto davanti alla cascata d’acqua che cade come un lenzuolo nel contesto di una fontana barocca della piazza alimentata dal fiume Amenano, che diversi secoli fa ha subito la costrizione da parte degli architetti dell’epoca a scorrere sotto terra e a essere utilizzato solo per alcune funzioni civiche. Mi è sembrato di vedere un’analogia tra la privatizzazione dell’acqua che oggi sta accadendo e quella costrizione avvenuta nel ‘700 ai danni del fiume Amenano. Il telo di plastica posto davanti alla cascata d’acqua avrebbe dovuto allertare le/i cittadini che qualcosa di grave ci stava capitando in merito alla mercificazione e allo spreco del bene comune più prezioso. Così abbiamo chiamato l’installazione “Acqua come miraggio” ottenendo riscontri interessanti, anche imprevisti, sia dal punto di vista del coinvolgimento di altre e di altri che dal punto di vista artistico. Molte donne e uomini venivano a chiederci infatti perché avevamo nascosto ai loro occhi l’acqua della fontana, così noi potevamo dialogare con loro in merito al problema. Dal punto di vista artistico è accaduto che la luce, col passare delle ore si spostava e diveniva più intensa, regalando all’acqua che cadeva dietro lo strato di plastica dei bagliori diversi. L’installazione che inizialmente poteva apparire come un’opera statica, ha acquistato un sapore dinamico, facendo sì che la luce e l’acqua in trasparenza e in movimento, divenissero le vere protagoniste di tutta l’operazione artistica.
Racconta, racconta…
Una performance a me molto cara e penso ricca di significato, è quella che abbiamo chiamata “Il tessuto colorato delle relazioni”. Con Città Felice organizziamo ogni primavera una manifestazione nella piazza dove sorge il castello progettato da Federico secondo di Svevia insieme all’architetto Riccardo Da Lentini e finito di realizzare nel 1223. La manifestazione non ha mai avuto un carattere rivendicativo ma si è distinta nel tempo come un occasione felice d’incontro e di scambi d’esperienze durante la quale dare corpo e visibilità alle relazioni tessute da noi con le donne e gli uomini che abitano il quartiere e con altre/i di associazioni, comitati spontanei, sindacati, ecc. come noi amanti della città. Per significare i rapporti che ci uniscono da tempo, ci siamo legati insieme donne e uomini, fino a formare una rete, con delle fasce di stoffa di colori diversi. Mentre ognuna/o si legava con un’altra/o spiegava ad alta voce perché lo stava facendo e cosa si aspettava da quel legame. Quello è stato veramente un evento emozionante e intenso di cui tutte quelle e quelli che c’eravamo conserviamo ancora dentro di noi il senso profondo. Altro rilevante momento artistico è stato costituito dall’aver pensata e realizzata “La montagna di sale e di memoria”, un’installazione creata inserendo in una montagnola di sale degli oggetti che testimoniavano le attività artigianali che un tempo si svolgevano nel territorio adiacente alla piazza Federico di Svevia. Gli oggetti che si facevano spazio tra i grani di sale (un tempo nella zona si lavorava il sale marino che veniva poi confezionato in sacchetti), erano remi per le barche, pezzi di ferro e di legno forgiati artisticamente, antichi telai, matasse di seta, attrezzi da calzolaio, sacchi di juta. L’opera voleva avere il compito di ridare vita e riportare alla memoria tutta una costellazione di antichi mestieri che lì oggi nessuno pratica più. Questa cultura al presente è scomparsa e attività più remunerative hanno preso il posto di quelle artigianali. Nella zona si sono moltiplicati come funghi degli esercizi commerciali (spesso si assiste anche a iniziative spontanee organizzate da ambulanti) dove si consumano cibi caratteristici come ad esempio carni o altre pietanze arrostite che oltre a involgarire quello storico contesto (alla corte di Federico secondo di Svevia partecipavano artisti, matematici e poeti come Cielo D’Alcamo che contribuirono alla nascita della lingua “vulgaris”), ne mettono a rischio la sicurezza e l’integrità.
Sono stranieri i nuovi ambulanti?
Per lo più si tratta degli stessi catanesi che allestiscono col consenso dell’amministrazione comunale dei barbecue in luoghi angusti o in alcuni gazebo che spuntano improvvisamente lungo le strade adiacenti alla piazza. Chi ha consentito e favorito il fiorire di queste attività la cui origine risulta poco chiara, lo ha fatto in base a precedenti accordi elettorali stipulati con una certa fascia di cittadini, in barba al mantenimento della cultura e della civiltà dei rapporti virtuosi già esistenti in quel luogo. Questa uniformità di esercizi sorti improvvisamente nella piazza Federico di Svevia e dintorni mi ha fatto pensare a quanto detto dall’economista americana Jane Jacobs negli anni’60 nel suo libro” Vita e morte delle grandi città” in riferimento alla necessità che affinchè un quartiere o un luogo si mantengano vitali, occorre che in essi si sviluppino attività lavorative diversificate, perché così facendo si verranno sempre più a creare dinamismo e fertilità di idee. Un’unica tipologia di presenze che vivono gli spazi o di attività che vi si sviluppano, impedisce il formarsi di un tessuto connettivo fantasioso e anticipa il declino di quel luogo. In merito a queste analisi, quale destino è riservato allora alla piazza Federico di Svevia e ai suoi abitanti, se proprio accanto al museo civico e in ogni suo più piccolo spazio, sono state impiantate attività commerciali finalizzate alla vendita e al consumo di carni arrostite?
Le vostre pratiche si ispirano ad artisti/e significativi?
Come ho già detto, sin dal 2000 ogni anno in primavera organizziamo una festa in questa piazza all’interno della quale allestiamo un’edicola del baratto dove ognuna/a porta qualcosa da scambiare: cibi, oggetti, vestiti, libri, ecc. Attorno all’edicola del baratto prendono vita di solito narrazioni spontanee, dibattiti, mostre e spettacoli. Un’altra installazione che ha preso forma recentemente in piazza in riferimento al nostro cresciuto interesse per forme nuove d’economia è stata chiamata “Portiamo al mercato i nostri sentimenti”. L’interesse per l’economia ci è stato sollecitato grazie alla relazione con Loredana Aldegheri e Maria Teresa Giacomazzi e ai rapporti istaurati con giovani donne e uomini della M.A.G. di Verona che ci hanno fatto capire che l’economia attraversa trasversalmente molte delle cose che facciamo e che è una materia facile da approcciare e non una disciplina complicatissima che riguarda solo i pochi addetti ai lavori. Per costruire quell’installazione abbiamo procurato delle strutture metalliche simili a quelle che vengono adoperate dai fruttivendoli per esporre i loro prodotti. Ma dentro alle cassette di legno non c’erano frutta o verdure ma oggetti, immagini, produzioni, libri, foto, simboli, cose care facenti parte della memoria personale di tutte/i coloro che avevamo contribuito alla realizzazione di quell’opera. Io ad esempio ho portato riproduzioni e immagini delle opere delle mie artiste predilette, libri di Virginia Woolf, Carla Lonzi, Luce Irigaray, e di altre pensatrici che nel corso della mia vita hanno costituito l’alimento fertile che mi ha consentito di procedere nel mio percorso politico e creativo. Il significato che l’installazione voleva esprimere era quello che le donne amiamo conservare l’interezza della nostra vita che mettiamo in gioco sempre, in ogni cosa che facciamo, senza separare, parcellizzare o lasciare a casa una parte della nostra esperienza. Portiamo con noi e facciamo agire le competenze acquisite giorno dopo giorno sia quando operiamo nei posti di lavoro, sia quando portiamo a termine le nostre attività quotidiane e domestiche.
Nel corso dei miei studi ho individuato alcune artiste che guardano con interesse “la città” in merito ai suoi molteplici aspetti e che da questa traggono ispirazione per le loro opere. Queste sono attente soprattutto a quanto avviene nelle grandi città, nelle megalopoli dove per molti versi la dimensione della cura, della convivenza, dello scambio tra culture diverse e degli spazi condivisi, tanto cara alle donne, rischia di dissolversi nel nulla. Per portare qualche esempio in merito a questo modo di creare che da un senso maggiore all’operato artistico da parte di donne, voglio riferirmi all’opera dell’artista inglese Lucy Orta, dell’iraniana Shirin Neshat, della coreana Kim Sooja e della spagnola Elena Del Rivero, le quali pur essendo andate a vivere lontano dai loro paesi d’origine, non hanno mai tralasciato di significare nelle loro opere la cultura dalla quale provengono. Grazie alle connotazioni etniche che le opere di queste artiste recano in sé, è avvenuto uno scambio tra culture diverse che potremmo definire “l’arte delle donne viaggianti”. Basti pensare ai fagotti di seta orientale contenenti gli oggetti necessari a chi sta per affrontare un lungo viaggio, i cosiddetti “bottari” che Kim Sooja ammassa l’uno sull’altro su dei camioncini che percorreranno chilometri e chilometri. O gli originali “paludamenti” creati da Lucy Horta, gli strani abiti che al bisogno si trasformano ora in tende da campeggio, ora in sacchi a pelo oppure in rifugi momentanei dove ripararsi la notte quando in città non si trova da dormire. Elena Del Rivero, nota per le sue installazioni che riproducono nidi d’uccello capaci di contenere corpi umani, ha saputo trovare dopo l’attacco alle torri gemelle di New York (città dove ha sede la sua casa-studio semidistrutta dall’attentato), schegge di bellezza anche in mezzo a tutto quel disastro. Ha infatto sparso, fotografandole, un numero infinito di perle in mezzo ai calcinacci del suo studio devastato dall’attentato, per significare che l’opera dell’artista avrebbe avuto seguito e con essa la speranza di costruire giorno dopo giorno la pace e la civiltà.
Shirin Neshat realizza in Iran dei video molto interessanti che hanno fatto il giro del mondo; in essi hanno grande risalto le immagini di donne iraniane che indossano abiti tradizionali e realizzano delle composizioni di grande effetto attraverso il modo di disporre i loro corpi. I volti, le mani e i corpi delle donne inoltre nelle opere della Neshat rappresentano molto spesso le superfici giuste dove tracciare in lingua iraniana la storia e il segno di un popolo.
Dialogo
Damiano Formaggio:
Secondo me Verona ha bisogno di questo tipo di approcci, anche per svelare lati nascosti, Verona è una città molto bella, artistica, ma in maniera molto convenzionale, si tende sempre a vedere le stesse cose. Avrebbe bisogno di installazioni che la facciano riflettere anche su altri luoghi e altri quartieri.
Anna di Salvo. Occorre capire qual è l’ordine simbolico di riferimento tramite il quale vengono regolate le cose in città. Molte volte si tratta di un ordine rigoroso che non lascia spazio alla libertà e alla creatività, imponendo dei dictat uguali per tutti. L’eccessivo controllo per il mantenimento dei sistemi predefiniti non sempre dà la possibilità di mettersi in ascolto delle proprie emozioni e dei propri desideri. Quando l’autenticità, la spontaneità e l’affettività vengono represse, l’infelicità e l’apatia prendono il sopravvento.
Maria Teresa Giacomazzi:
Mi è piaciuto il tuo incipit, prima l’immagine e poi il pensiero. Pensando anche al nostro giornale che è pensiero che viene dalla narrazione, capisco che essa rimanda più all’immagine che al pensiero astratto. E’ un’affermazione che sento vera e molto forte,anche rispetto alla mia cultura che mi porta a esprimermi più per pensieri che per immagini. Io non ho cultura in questo senso e nonostante questo le cose che ci hai raccontato mi hanno colpito. Pensando al nostro giornale, proporre immagini credo sia un passaggio molto forte.
Anna di Salvo.
Per dare maggiore senso alle immagini occorre avere delle chiavi di lettura diverse della realtà. Molto conta la percezione del contesto in cui ci si muove e le relazioni istaurate con le e gli abitanti di quel contesto.
Ad esempio nel vecchio quartiere di S. Berillo di Catania devastato dalla speculazione edilizia negli anni ’50 e adibito per quel poco che ne è rimasto allo sfruttamento della prostituzione e allo spaccio di droghe, abbiamo cercato di cambiare l’immagine negativa che si aveva del quartiere, lavorando nel territorio insieme con il comitato “Babilonia”. Sono state organizzate in quel contesto insieme alle poche donne e agli uomini che lo abitano, delle serate di poesia e sono state installate delle opere pittoriche realizzate da artiste sulle porte murate di antiche case dove si praticava la prostituzione, per significare come la ricerca della bellezza è possibile in ogni luogo soprattutto quando il senso della bellezza alberga dentro di noi.
Elena Mariuz:
E’ bello parlare di immagini, però quando guardiamo un posto, la cosa che mi piace di più, che è poi quella che vivo e che mi attraversa, come dicevi tu, è l’atmosfera in genere fatta di immagini ma anche di odori, per me l’odore è l’aria propria. Pensavo al discorso del telo che hai fatto, probabilmente dando sempre più parola a quest’opera, si entra nello specifico dell’acqua dispersa di qua e di là. Penso anche a chi ha visto questo telo e ha voluto strapparlo, deve aver vissuto un impatto emotivo e forte. Dopo ci sarà stata una riflessione, e quindi mi piacerebbe, dal momento che abbiamo fatto un numero sul pensiero che andava a problemizzare anche l’evento sul Mantegna che è diventato un discorso consumistico e non più introspettivo e di vita … Ma sarebbe bello dedicare, magari in linea con il giornale, uno spazio alla poesia che dà voce alle emozioni. Per voi a Catania avere quegli odori è un elemento negativo. Però in una città come Verona che è una città così patinata, un discorso del genere mi darebbe un’emozione positiva per la diversità.
Anna di Salvo:
Quando voi venite nelle nostre città vi innamorate del colore e della spontaneità che trovate, noi donne di Città Felice invece, pur riconoscendo il valore della nostra tradizione ci preoccupiamo che gli atteggiamenti incivili possano aumentare a causa della povertà, dell’ignoranza e dell’esercizio del potere da parte di pochi. E’ per questo che cerchiamo di rendere agente il più possibile in città l’opera e il sapere femminile.