di Laura larcan
Al Bolzano arriva l’artista messicana famosa per le sue denunce contro il narcotraffico e i crimini nella città. Tra performance, muri di esecuzioni capitali, “cubi” di macerie da guerriglie, l’abbiamo intervistata.
Due muri, alti poco meno di due metri, infestati di fori, reliquie di pallottole sparate durante le esecuzioni capitali di due poliziotti nella città di Culicàn e di quattro giovani di Juarez nel 2009. Un cubo, pesante una tonnellata, fuso dalle macerie di edifici demoliti durante una guerriglia urbana. Sono solo alcuni dei “monumenti” al dolore e alla morte, semplici e apparentemente minimali ma ferocemente inquietanti che l’artista messicana Teresa Margolles porta al Museion nella mostra personale “Frontera” dal 28 maggio al 28 agosto, dopo il debutto a febbraio scorso alla Kunsthalle Fridericianum di Kassel. Classe ’63, divisa tra Culicàn e Città del Messico, Teresa Margolles, che ha rappresentato il padiglione messicano alla Biennale di Venezia del 2009, è la quintessenza dell’artista impegnata.
Il coraggio non è “urlare” o provocare con enfasi teatrale, o sferrare colpi allo stomaco con immagini sconvenienti. Per Teresa, l’arte è una fine riflessione sulla crudezza della realtà messicana, con lucidità caustica. Ecco che “Frontera” diventa un manifesto lirico e intimo sul fenomeno del narcotraffico e sugli assassini-sparizioni che aleggiano su Ciudad Juarez, la città più pericolosa del mondo. L’abbiamo intervistata
Qual è il ricordo più nitido che si porta dietro di Ciudad Juárez?
– Ci sono molti momenti simbolici ed è proprio questo che mi fa tornare a Ciudad Juárez, amare e rispettare la sua gente. Ad esempio vedere una società civile sempre più interessata al bene comune, preoccupata e partecipe nel restaurare un tessuto sociale degradato, una società che esige dal governo l’adempimento dei propri obblighi. Conoscere donne attiviste che coinvolgono altre donne, che lottano per far luce sugli omicidi dei loro figli, delle loro figlie, dei loro bambini. Sapere del coraggio della signora María de la Luz Dávila, madre dei ragazzi uccisi il 30 gennaio 2010, che esprime tutta la sua indignazione al presidente della repubblica. Conoscere fotografi, artisti, bande musicali, baristi e intellettuali … Le persone che hanno reso possibile che Juárez esista.
Ci racconta come ha realizzato i suoi muri in mostra, le circostanze in cui ha raccolto quelle “rovine” di esecuzioni capitali?
– L’opera è costituita da due muri provenienti da due città nel nord del Messico, Culiacán e Ciudad Juárez, smontati e ricostruiti a Bolzano. Davanti a questi muri sono stati commessi degli omicidi, dei poliziotti di fronte a uno, dei ragazzi nei pressi dell’altro. Gli atti di violenza hanno lasciato tracce sulla loro superficie. Un muro apparteneva a una scuola elementare pubblica e l’altro a un’impresa privata. Ho parlato con il direttore della scuola e con il proprietario dell’impresa del progetto, che avrebbe previsto il trasferimento dei muri per testimoniare questa tragedia. Entrambi hanno accettato. I muri sono stati rimossi e immediatamente ne hanno costruito dei nuovi al loro posto. Nel caso della scuola, la parete interna è stata intonacata e colorata di bianco in modo che un gruppo di giovani attivisti potessero lavorare con i bambini per dipingere un murale. I muri, soprattutto quello di Ciudad Juárez, diventano paesaggio urbano, su cui trovare, oltre alle tracce di queste sanguinose azioni, segni, simboli e graffiti tracciati dalle bande per marcare il territorio. Una volta esposti nel museo, in un ambiente sicuro, i muri stimolano una riflessione sui fatti di violenza, avvenuti in uno spazio pubblico.
Stessa cosa, per il Cubo. Come ha raccolto i rottami di un quartiere distrutto?
Nel caso di “Cubo”, a febbraio 2010 cominciai ad acquistare pezzi di tondino di ferro recuperati dai resti di edifici crollati in calle Mariscal, nel centro storico di Ciudad Juárez. Erano fabbricati che ospitavano locali notturni, ristoranti e bar che per oltre 80 anni avevano rappresentato un centro vitale della città. Gli edifici vennero distrutti per ordine del governo. Quando furono distrutti, centinaia di persone si trovarono senza lavoro e la tonnellata di ferro fuso, che è il peso reale dell’opera “Cubo”, rappresenta il peso simbolico della devastazione di quella zona. Camerieri, prostitute, tassisti, baristi, musicisti, lustrascarpe, fotografi, cuochi e travestiti furono costretti ad andarsene.
Pensa che ormai la provocazione nell’arte sia un’attitudine sterile? O c’è ancora bisogno di “provocazione” per lanciare messaggi?
– Non mi interessa la provocazione nell’arte. Non vedo l’opera in questi termini.
Lei racconta una realtà tragica attraverso linguaggi inaspettatamente semplici. La sua non è un’arte “urlata” o esageratamente provocatoria…
– Perché cerco di lavorare con la periferia del corpo, con ciò che resta, con la traccia
Riprendendo la frase della sua azione filmata “Camiseta”, creata appositamente per “Frontera” e svoltasi nelle città di Juarez, Kassel e Bolzano, “quanto dolore può sopportare ancora Ciudad Juárez”?
– Non so quanto possa sopportare ancora, però so quello che ha sopportato fino ad ora: l’omicidio di più di 600 donne e ragazze, più di 5000 morti in 3 anni, l’estorsione a danni di imprese e scuole, la manipolazione dell’informazione, la speculazione edilizia, l’esodo di oltre 200 mila persone, lo sfruttamento nel lavoro, la violenza urbana, sequestri di persona, il traffico di esseri umani, di droga e di armi, la militarizzazione, la distruzione del suo centro storico… e nonostante tutto Ciudad Juárez resiste.
Ha subito mai ripercussioni per il suo impegno e le sue denunce sui fatti di Ciudad Juárez?
(Teresa Margolles fa un gesto del capo come a dire “si, ovvio”) – Io non sono importante, io vado via quando voglio. È la gente che sta lì tutti giorni, loro sono i veri esposti. Credo che sia più esposta la popolazione nella sua quotidianità, di giorno in giorno.
Dopo il grande successo della mostra alla Gam di Torino lo scorso inverno, Raffaella Cortese è orgogliosa di presentare la prima personale in una galleria italiana di Martha Rosler. In mostra una selezione di lavori dagli anni ’70 fino ai suoi più recenti fotocollage, inediti in Italia, legati tra loro dall’idea del viaggio e della guerra che ha caratterizzato fin dai suoi inizi l’opera della Rosler.
Martha Rosler è una della più importanti figure nella scena artistica dagli anni ’60 ad oggi, nel suo lavoro pionieristico e sperimentale ha utilizzato diversi media: dal video alla fotografia, dall’installazione alla performance, al testo-fotografico fino a scritti critici. Il suo lavoro si è spesso interessato alla vita sociale e alla sfera pubblica manifestando spesso precise posizioni rispetto a temi quali il femminismo e la guerra.
Tra i lavori più noti della Rosler si riconoscono i fotocollage della serie Bringing the War Home (1967-72), che uniscono immagini di guerra a interni domestici confortevoli ed eleganti.
All’inizio dell’invasione dell’Iraq da parte degli USA, Rosler ritorna sulla serie degli anni ‘ 70, attualizzando i foto collage con nuovi spazi, tecnologie e la rappresentazione stessa della guerra, come è facile intuire in Prospect for Today, Point and shoot o Invasion (2008).
Retrospettive di Martha Rosler sono state realizzate in Europa e a New Yok, tra 1998 and 2000, al New Museum e allI’International Center of Photography. Nel 2007 Il Worcester Art Museum, Massachusetts ha dedicato una mostra solo ai suoi fotocollage.
I suoi lavori sono stati esposti recentemente alla Biennale di Singapore, WACK! Art and the Feminist Revolution al The Museum of Contemporary Art, Los Angeles, PS1 in Queens, UnMonumental al The New Museum, New York, Documenta 12 e Skulptur Projekte Münster, nel 2007; e Ambitions d’Art at Institut d’Art Contemporain a Villeurbanne, Francia, nel 2008.
I suoi scritti sono stati pubblicati sia in cataloghi che su riviste e 14 sono i suoi libri distribuiti in diverse lingue sulla sua produzione fotografica, di saggi e di testi. Decoys and Disruptions: Selected Writings, 1975-2001, un libro di saggi scritti da Martha Rosler è stato pubblicato dalla MIT Press nel 2004 (ristampato, 2008). Altri progetti includono la Biblioteca di Martha Rosler -Martha Rosler Library- , una mostra itinerante di 8.000 volumi provenienti dalla collezione di Martha Rosler e il progetto If you lived here still in collaborazione con e-flux.
Martha Rosler è nata a Brooklyn, dove vive e lavora. Ha insegnato al M.F.A. dell’ University of California, San Diego, e al B.A. del Brooklyn College. Il suo lavoro è nelle collezioni dei maggiori musei internazionali tra cui: the Metropolitan Museum, the Whitney Museum, the Museum of Modern Art, the Guggenheim in New York, the Art Institute of Chicago, the San Francisco Museum of Modern Art, the Art Gallery of Ontario, Victoria and Albert Museum di London, e le Generali Foundation in Vienna. Martha Rosler è costantemente invitata a tenere conferenze e convegni in tutto il mondo.