La coreografa tedesca aggiunge un nuovo tassello al suo «atlante» con l’ultimo spettacolo presentato a New Delhi, Mumbai e Calcutta. Un laboratorio aperto di concetti, riferimenti, visioni, eros e pensieri
Gianfranco Capitta
New Delhi
Da più di vent’anni Pina Bausch, una dei pochi artisti che davvero hanno reinventato nella seconda metà del novecento la scena mondiale, va disegnando del mondo un proprio personale «atlante». Ogni suo spettacolo è dedicato a una città, o a un paese, di cui lei traduce nel linguaggio del teatro e della danza le suggestioni ricevute durante gli scrupolosi sopralluoghi e gli impertinenti e personalissimi affondi. Dall’ormai storico Viktor dedicato a metà degli anni ottanta a Roma (unica città ad aver meritato due di queste «dediche», perché a cavallo del secolo c’è stato poi Oh Dido) fino all’ultimo e appena presentato Bamboo blues (dopo un’anteprima assai riservata a Wuppertal la primavera scorsa) incentrato sull’India e mostrato in queste settimane, dopo New Delhi, anche a Mumbai e Calcutta. Una produzione cui la repubblica tedesca ha partecipato direttamente attraverso il Goethe Institut.
Aver avuto la fortuna di assistervi nella capitale indiana (per quanto il Siri Fort Auditorium non possedesse le «sicurezze» tecniche dei teatri d’opera occidentali) dona un valore aggiunto alla performance dell’artista e dei suoi danzatori: non solo il pubblico era strabocchevole e festoso (anche se per certi versi «sorpreso» dell’avvenimento), ma certo la cultura indiana ha una tradizione spettacolare così specifica, antica e formalizzata, e tutta basata sul corpo, da rendere Bamboo Blues una sorta di questionario pulsante, di sfida continua, di esperienza tanto aperta quanto necessaria di puntelli e di garanzie. Proprio sul piano fisico, che assomma qui su di sé concettualità e riferimenti, visioni e pensieri.
Del resto, se l’India è una sorta di grande e complesso laboratorio continentale, che ora si misura (con una grazia che non riesce a dissimulare la minaccia) con l’intera economia planetaria, anche l’artista tedesca sembra assecondare quel metodo laboratoriale. Le sue immagini, i suoi movimenti, le sue scintille ottenute dall’attrito tra parola e gesto, hanno un andamento piano e interrogativo, da far partecipare e condividere a un pubblico che pure già la conosce fin dal 1979, ma che nessuno poteva sapere, prima, cosa davvero si aspettasse da lei.
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