8 Luglio 2007
il manifesto

Jenny Holzer: parole offerte ai lettori lungo nastri di luce bianca


Stefano Chiodi

«Proteggimi da ciò che voglio». Ecco una massima veramente adeguata all’epoca dell’impero pubblicitario e del godimento obbligato. Lampeggiante da un grande billboard elettronico su Times Square a New York, mimetizzata tra miriadi di altri messaggi, l’aveva scritta vent’anni fa con lungimiranza profetica Jenny Holzer, l’artista che con più rigore ha esplorato negli ultimi trent’anni gli usi e le perversioni del linguaggio nel mondo contemporaneo. Le sue serie più famose, come Truisms (1977-79), Survival (1983-85), Laments (1989), si presentano invariabilmente sotto forma di proliferanti collezioni di frasi contraddittorie, di affermazioni definitive, perentorie quanto immotivate, che passano in rassegna luoghi comuni della quotidianità, passioni convenzionali («Gli uomini non ti proteggono più»), collezionano affermazioni ambigue o arbitrarie («Le parole tendono a essere inadeguate», «La decadenza può essere un fine in se stessa»), e si inoltrano nei sotterranei della frustrazione, della solitudine, dell’odio.
Per presentarle, Holzer impiega mezzi molto diversi e spesso sorprendenti, dalle insegne elettroniche che l’hanno resa famosa, alle lastre di pietra incisa, alle affissioni stradali, sino alle proiezioni di diapositive scorrevoli che il pubblico italiano ha potuto conoscere negli scorsi mesi in due diverse installazioni a scala urbana presentate a Napoli e Milano. Come un poema composto di frammenti, il lavoro di Jenny Holzer riflette entropicamente la contraddittorietà, l’opacità dell’esperienza contemporanea, con il suo carico di ingiunzioni e morbidi obblighi, di torpore morale e sovreccitazione autoritaria. All’indomani dell’11 settembre 2001 il lavoro dell’artista si è fatto più apertamente politico, come testimoniano i lavori presentati alla Biennale di Venezia, una serie di grandi tele su cui sono riprodotti documenti e mappe relative all’invasione del Iraq e alle politiche adottate dagli Stati Uniti nei confronti dei «nemici combattenti». A fine maggio, a Roma, Jenny Holzer ha presentato in quattro diverse location altrettante proiezioni basate su poesie di autori contemporanei, tra cui gli italiani Antonella Anedda, Paolo Bertolani, Patrizia Cavalli, Franca Grisoni, Rosanna Guerrini, Jolanda Insana, oltre a Yehuda Amichai, Elizabeth Bishop, Henri Cole, Mahmoud Darwish e Wislawa Szymborska.

Nei suoi testi si ritrovano spesso strategie di manipolazione tipiche del linguaggio dei media: sensazionalismo, sfruttamento delle emozioni, offuscamento delle responsabilità, come accade ad esempio in una delle sue serie più note, gli «Inflammatory Essays». Possiamo dire che la strumentalizzazione del linguaggio sia una delle preoccupazioni centrali nel suo percorso?
Per preparare quel lavoro avevo letto cose diversissime, da testi di denuncia a esempi di propaganda di varie epoche, cercando di guardare all’intero spettro di possibilità, dai manifesti utopici ai peggiori esempi di manipolazione. Mettere insieme esempi così conflittuali è necessario per mostrare come il linguaggio possa essere impiegato indifferentemente per fini giusti e spaventosi, e come sia difficile orientarsi tra una molteplicità di punti di vista in competizione. Vorrei anche che gli spettatori siano portati a riflettere sul rapporto tra intenzioni e conseguenze reali, ai bagni di sangue inevitabili quando le parole vengono riversate nel laboratorio umano.

Un elemento ricorrente nelle sue opere degli ultimi anni sono i testi poetici proiettati a grande scala in spazi urbani, come è avvenuto nel centro di Roma e prima a Milano e Napoli. È una scelta in controtendenza rispetto ai suoi lavori precedenti, dove il valore letterario aveva poca o nessuna importanza?
Anzitutto mi interessa che il pubblico osservi liberamente i materiali che propongo: non mi piacciono le prediche e i testi che scelgo non spiegano il senso della vita, non risolvono problemi. Credo poi che la scelta delle poesia sia la conseguenza di aver incontrato Henri Cole qualche anno fa a Berlino; è a lui che debbo la mia tardiva educazione poetica.

C’è stato in questo senso un cambio di direzione da opere come «Truisms» e «Survival», composte di slogan e affermazioni che sembravano dettate da una voce anonima, plurale, a quelle più recenti che utilizzano la poesia? Proiettare dei versi ha contribuito a modificare la sua visione, il modo con cui pensa e realizza il suo lavoro?
Per un certo numero di anni ho scritto tutti i testi delle mie opere; potevano sembrare di mani diverse, ma in effetti mi appartenevano interamente. Poi ho iniziato a usare scritti di altri autori, ad esempio quando per ricordare persone uccise o esiliate ho usato i loro testi piuttosto che scriverli al loro posto. Ho pensato fosse giusto che persone ridotte al silenzio fossero ricordate dalle loro stesse parole. Più di recente ho introdotto la poesia nelle mie proiezioni a scala urbana perché mi sembra particolarmente appropriata per quest’uso.

Che differenza esiste tra lavorare nello spazio pubblico rispetto a esporre in un museo? Quali sono le conseguenze sulla scelta dei testi e sulla presentazione del lavoro?
Dipende. A Milano, pochi mesi fa, ho proiettato all’interno dell’Hangar Bicocca una serie di documenti appena desecretati sulle politiche statunitensi nel Medioriente, sul trattamento dei detenuti a Guantánamo, gli stessi che avevo proiettato in precedenza sulle facciate di due biblioteche universitarie a New York e Washington così che gli studenti potessero leggerli. In altre parole è spesso il contesto a decidere. In generale preferisco proiettare la poesia all’esterno, come a piazza del Plebiscito a Napoli, perché è più immediatamente suggestiva e riesce a catturare i passanti che altrimenti non si fermerebbero a leggere. All’interno, dove i visitatori sono meno distratti, tendo a esporre i documenti, che ovviamente richiedono maggiore impegno per essere decifrati.

Quando un testo poetico è proiettato su una facciata larga cinquanta metri non cambiano ovviamente solo le condizioni di lettura ma anche il modo con cui i versi vengono intesi. È del resto una lezione, questa della fisicità della lettera, che la poesia da Mallarmé a oggi ha venuto ben presente. In che modo l’aspetto tangibile del testo influisce sulla lettura, sull’interpretazione del suo lavoro?
Quando una poesia viene proiettata molti fattori entrano in gioco, dall’atmosfera notturna, se c’è pioggia o bel tempo ad esempio, allo stesso edificio su cui avviene la proiezione. La storia, la forma dell’architettura contribuisce a creare una certa atmosfera, un certo tipo di risposta. Posso immaginare in anticipo l’effetto che otterrò da un certo edificio o da una certa città, ma è un po’ come per il teatro, non si può mai sapere finché non si va in scena. La grande scala crea una straordinaria differenza così come i materiali, il luogo, il pubblico, e quindi il colore, il tipo di carattere e il ritmo della proiezione. Sono tutte variabili che vanno prese in considerazione. Ho imparato che le proiezioni devono essere piuttosto lente, non solo perché così è più facile leggere i testi, ma per creare un effetto solenne, un ritmo processionale che trasmette la serietà appropriata per gli argomenti spesso tragici che vengono affrontati nei testi.

In alcune sue installazioni che utilizzano insegne elettroniche – penso in particolare alla mostra al Guggenheim di New York nel 1990 – a tratti il flusso di parole cessava del tutto. Poi, improvvisamente, i testi cominciavano di nuovo a rincorrersi nello spazio. Il ritmo e la velocità del testo sono gli altri elementi che lei utilizza per connettersi all’architettura e al movimento casuale dello spettatore?
Sì. A volte cerco di calibrare il ritmo e la presentazione sul contenuto, in altre cerco esattamente il contrario, in modo da ottenere dei ritmi interessanti per il pubblico. Alla Dia Foundation di New York, molti anni fa, dopo aver lavorato per giorni su un lavoro mi resi conto che l’ambiente sarebbe dovuto a un certo momento diventare completamente buio, così da creare un effetto di sperdimento e anche un po’ di timore a causa dell’oscurità. Quindi tutti le luci si sarebbero riaccese e il testo avrebbe ricominciato a scorrere. In altre occasioni, come al Guggenheim, c’era una varietà di ritmi in modo tale il pubblico non si addormentasse. In altre ancora, come alla National Galerie di Berlino, avevo cercato un effetto di compressione e espansione dello spazio lavorando sul ritmo e la dimensione dei Led applicati alle travi del soffitto.

I luoghi che hanno ospitato i suoi lavori a Roma si trovano tutti nel centro storico della città. Perché li ha scelti? A causa della loro visibilità, del loro prestigio? Perché erano quelli più facilmente disponibili?
A Roma ho scelto quattro diversi luoghi e come sempre in ogni scelta c’è una combinazione tra ciò che si desidera e ciò che è possibile ottenere. Tutti sono stati scelti perché dotati di una facile visibilità e accessibilità. Mi piace che le mie proiezioni avvengano in luoghi dove c’è un pubblico occasionale, non informato in precedenza. E quindi aver scelto il centro della città risponde a questa logica.

Sono senz’altro luoghi straordinari. Ma forse sarebbe stato interessante anche allontanarsi dal centro storico, dalla sua stratificazione, dalla sua bellezza in qualche modo.
A volte però è interessante osservare il contrasto tra l’intensità drammatica delle poesie e la bellezza formale dell’architettura.

Qual è il suo rapporto con la traduzione? Come reagisce quando vede un testo su cui ha lavorato in inglese proiettato in italiano, francese o tedesco?
La traduzione è obbligatoria se si lavora nello spazio pubblico, una sua mancanza sarebbe stupida e poco rispettosa degli spettatori. Ma la traduzione è anche qualcosa di misterioso che ha il potere di cambiare le cose. E non solo a causa delle parole diverse, ma perché fa apparire le differenze tra le culture.

Tra i suoi lavori «storici» con le insegne elettroniche e le proiezioni più recenti avverto non solo un cambiamento visivo, ma soprattutto un mutamento di tono. Mentre le prime risultano dirette, aggressive, a volte sembrano intimazioni espresse ad alta voce, le proiezioni posseggono una tonalità più intima, un’inflessione affettivamente carica, quasi quella di una voce materna che bisbiglia nell’orecchio dello spettatore. È una sensazione giustificata?
Le insegne elettroniche sono certamente aggressive, anche se viste in mezzo a molte altre non posseggono probabilmente un carattere così pungente. La mia intenzione era fornire informazioni in conflitto tra loro così che gli spettatori potessero sceglierne alcune e tralasciarne altre, a loro piacimento. Ma d’altro canto lei ha ragione, le proiezioni comunicano una sensazione del tutto diversa. E questo perché si tratta di luce bianca che scorre lentamente, una soluzione molto adatta alla poesia e forse anche a quanto volevo realizzare, anche con le insegne, e cioè porgere, offrire qualcosa dicendo «ecco, fatene ciò che volete».

Rispetto al passato in che direzione si muove il suo lavoro attuale?
I temi sono sempre gli stessi ma sono interessata a sperimentare altri modi di presentazione, come le proiezioni. Mi piace avere oggi a disposizione un’intera gamma di voci da utilizzare. Quanto cerco di affrontare il tema della guerra posso mostrare ciò che pensa un poeta israeliano, quel che prova un palestinese riguardo alla perdita della sua casa o cosa ha pensato e sentito Wislawa Szymborska nella Polonia all’indomani della seconda guerra mondiale. È qualcosa di inestimabile.

E in termini più strettamente espressivi come si è manifestato questo mutamento?
Gli aspetti formali sono importanti perché è attraverso di essi che i materiali si rendono accessibili; oggi ho più fiducia nella mia abilità di presentare e ordinare le cose, di individuare il medium più adeguato, di trovare il luogo giusto, di quanto ne abbia in quella di scrivere testi. Usando gli scritti di altri autori sono libera di fare ciò che mi riesce più naturale.

La definirebbe la conquista di una diversa maturità?
Sono sempre meno interessata a sapere chi sono e sempre più curiosa degli altri.

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