il manifesto – 14 aprile 2007
In mostra fino al 10 giungo, alla galleria Civica di Arte Contemporanea di Trento, «Family Monument», il work in progress dell’artista britannica Gillian Wearing
Teresa Macrì
La questione della famiglia così pateticamente dibattuta dai nostri parlamentari viene riaperta dall’ironia concettuale della britannica Gillian Wearing che, paradossalmente, nel costruire la sua mostra in progress, ha lanciato una sorta di sondaggio creativo sull’idea di famiglia trentina. La mostra Family Monument inaugurata il 24 marzo (e aperta fino al 10 giugno) alla galleria Civica di Arte Contemporanea di Trento, curata da Fabio Cavallucci e da Cristina Natalicchio, sarà suggellata da una scultura pubblica, una famiglia appunto. Wearing (Birmingham 1963) insignita del Turner Prize nel 1997 è soprattutto una acclamata artista della cosiddetta YBas.
La YBas (Young Britsh artists), si ricorderà, fu quel gruppo di bad boys and girls consacrati dall’epocale Sensation nel 1997, mostra che allora scandalizzò una parte di quel bacchettonismo (ancora vivo) nell’art system, non tanto per la mucca sezionata e conservata in formalina da Damien Hirst quanto per il loro comportamento politically uncorrect dedito a un narcisismo (di ciò furono accusati) da star (cover su magazine, frequentazioni di stadi di calcio e concerti rock piuttosto che di stazionamenti nei noiosi post-vernissage) e annichilito dall’imponenza del marketing confezionato dal ricco Charles Saatchi, fino ad allora desueta per il mondo artistico. Molti giurarono che quella fragorosa Sensation sarebbe stata una bolla di sapone. Oggi, a dieci anni di distanza, la persistenza del lavoro di molti YBas dimostra esattamente il contrario. La mostra, architettata sensazionalmente, sembra dimostrare le stesse radicate fondamenta che possiede l’architettura di Frank Gehry.
Ritornando a Wearing, che solitamente lavora interagendo col contesto in cui opera e soprattutto intesse una rete di relazioni interpersonali sviluppando quello che è un work in progress, come nel caso della mostra di Trento, sembra qui porsi un interrogativo. Esiste una idea, un concetto, uno standard di famiglia? Esiste una norma? Esiste una identità della famiglia? Appunto. Sarebbero i quesiti che i nostri impareggiabili parlamentari dovrebbero porsi nell’era post-industriale anche se, probabilmente, è più l’idea artificiosa e illusoria da spot del Mulino Bianco che li guida nel leggiferare. Ed è proprio quello standard da «famiglia-Mulino Bianco» che Wearing distrugge, concettualmente e oggettivamente. Poiché il suo lavoro è una presa diretta di ciò che è riuscita a captare nelle interviste realizzate a Trento, a passanti anonimi, di classe, generazione e idee differenti. Non solo, Wearing ha animato la costruzione della mostra attraverso dei cartoncini lasciati nelle sale della Galleria Civica e utilizzabili da tutti i fruitori per lasciare le proprie idee familiari oltre ad aver indetto una sorta di concorso pubblico, attraverso degli annunci sui giornali locali, con i quali la comunità cittadina è stata invitata ad autorappresentarsi. Una famiglia trentina sarà scelta e immolata. Gillian Wearing dunque non compare assolutamente nella disquisizione ancora in corso, se non come regista di una messa in scena che ha come protagonisti la città aperta di Trento e i suoi abitanti. Così le video-interviste che vengono presentate in mostra non ci stupiscono affatto per la banalità del quotidiano che vagheggiano. L’idea generale che si evince, anche se differenziata da situazioni personali e sociali, è che esiste una idealizzazione della famiglia e che in essa si racchiude il sogno dell’italiano, poiché la statistica trentina non differirebbe affatto da una medesima condotta in Calabria e in Puglia. C’è un’idea consolatoria e anche sostitutiva della famiglia che implica un’insoddisfazione di fondo, forse di frustrazione sociale, lavorativa, economica che, in tempi di crisi ideologica, risarcisce il vuoto apparente. In fondo l’insopportabile spot del Mulino Bianco non è illusivo? In quale famiglia si perde tutto quel tempo, appena alzati, per sedersi su tavole imbandite, insieme a bimbi saltellanti, per sgranocchiare le famose merendine sature di grassi e di carboidrati?
Wearing, dunque, non fa che ripercorrere il disincanto con cui gli intervistati edificano attraverso sogni e desideri, in parte smentiti dalla realtà tangibile, l’idea di famiglia, intesa come una specie di gigantesca ala che protegge dalle contraddizioni dell’esistente. Poiché esiste un dark side of family, confermato dalla cronaca quotidiana. Basterebbe guardarsi attorno per scoprire che l’idea di famiglia, così come viene celebrata, è irrimediabilmente oscillante in una epoca in cui i rapporti sociali, comportamentali e economici sono cambiati radicalmente. I soggetti sociali sono ben altri, così come alterate sono le aspirazioni individuali. Non si tratta più di rapporti di minoranze bensì di moltitudini ibridate e in continua trasformazione e di soggettività che si sono emancipate verso nuove forme di convivenza. La mostra di Wearing giunge semmai a una verifica che è, in ultimo, il suo fine: scoprire e riscoprire gli strati stereotipati dell’essere umano. Quegli strati che sono cementati da una comunicazione manipolatoria e da una fabbrica mass-mediatica anestetizzante: reality show, gossip, talk-show e pubblicità mirata al total think. Da questo martellamento non può che regnare sovrana la stereotipizzazione del mondo. Le video-interviste di Wearing alludono a una realtà paradossale e il suo iper-realistico monumento che sarà immolato a giugno in Piazza Dante, funzionerà come uno specchio strabico di tali paradossi.
Viva la family allora, ma la sua!