“Konstfeminism”, una mostra itinerante, giunta alla sua ultima tappa a Göteborg, ricostruisce il percorso dell’arte femminista in Svezia dagli anni 60 a oggi. Fra le opere, anche “God giving birth” di Monica Sjöö, considerato blasfemo e segnalato alla squadra antipornografia di Scotland Yard nel 1973 a Londra
Giannina Mura
L’irruzione delle donne nella scena artistica degli anni ’70 ha radicalmente trasformato il mondo dell’arte svedese, sviluppando nuovi orientamenti che influenzano profondamente l’arte contemporanea. Lo dimostra l’esposizione Konstfeminism che, con più di 100 artiste, ricostruisce il percorso dell’arte femminista in Svezia dalla metà degli anni ’60 a oggi, evidenziandone la dirompente creatività e innovazione. Istigata dalla critica e storica dell’arte Barbro Werkmäster, prodotta da tre importanti istituzioni nazionali: la Riksutställingar e la Liljevalchs Konsthall di Stoccolma, e la Dunkers Kulturhus di Helsingborg, la mostra, in tour dall’autunno 2005, è giunta alla sua ultima tappa al Konstmuseum di Göteborg, dove sarà visibile fino al 22 aprile prossimo.
Il titolo, traducibile come “arte del femminismo”, designa “un’arte che illumina, critica, promuove, trasforma e agisce in un contesto femminista”. Ma non necessariamente realizzata da femministe dichiarate né esclusivamente da donne, vista la presenza di alcuni artisti. Un’arte che, affrontando i temi delle ingiustizie strutturali inerenti a sesso, genere e sessualità, con molteplici motivi, contenuti, forme, materiali, tecniche, azioni, si configura come un vero e proprio sistema dalle molteplici strategie, attivate a più livelli.
Fondando la loro pratica sull’esperienza femminile, le autrici degli anni ’70 rivendicano per la donna un ruolo inedito nell’arte: quella di soggetto e non oggetto. Impegno sociale e coscienza politica anticapitalista caratterizzano la loro estetica. Talune infiltrano il mondo dell’arte per instillarvi temi e contenuti che lo criticano. Altre, sperimentano nuovi spazi e metodi espressivi: dalla trasformazione di alcune abilità, come la creatività tessile, in arte tout court, a performances e happenings passando per video, film, fotografie, fumetti, satira. Attive nel movimento femminista, ecologista e pacifista, molte vi contribuiscono creando manifesti, cartoline, simboli e striscioni, come Helga Henschen che appartiene al gruppo Kvinnor for fred (donne per la pace) sin dalla sua fondazione nel 1979. Tutte, attraverso sovversive strategie di riappropriazione e valorizzazione, rendono politico il privato mettendo al centro della loro arte la vita delle donne, e contribuiscono così a ridefinire l’identità femminile.
La sorellanza tra artiste, storiche, e critiche alimenta, inoltre, una feconda rete di relazioni che abbraccia diverse generazioni. Determinante, ad esempio, l’influenza dell’artista modernista Siri Derkert su Monica Sjöö che fu sua assistente nel 1967. Trasferitasi a Bristol, Sjöö forma un gruppo con cui nel 1971 elabora il primo Woman Art Manifesto: “Nei nostri quadri vogliamo dare espressione ai bisogni reali delle donne, ai sentimenti ed esperienze di chi lotta per liberarsi dall’oppressione – finanziaria, materiale e psicologica. Per questo basiamo le nostre immagini sulla nostra personale e universale esperienza. Abbiamo capito che è necessario lavorare figurativamente, perché: come si fa a esprimere il parto, la sorellanza, il lavoro, la sessualità, la lotta, con linee, cerchi e triangoli?”
L’interazione tra le istanze delle singole artiste e la forza del movimento dà luogo per tutto il decennio a importanti mostre personali e collettive di cui Konstfeminism riespone le opere principali. Come il dipinto God giving birth di Monica Sjöö, presentato per la prima volta nel 1973 a Londra nella mostra Five Women Artists – Images of Womanpower alla Swiss Cottage Library, organizzata dalla stessa artista.
Il quadro, ispirato dalla sua esperienza del parto e dalle sue ricerche sulle antiche divinità femminili, suscitò grande scalpore. Considerato blasfemo dai religiosi, fu anche segnalato alla squadra antipornografia di Scotland Yard. Lo scandalo fu tale che la direttrice della biblioteca spostò la sua scrivania nella galleria allo scopo di proteggerlo degli attacchi, e dichiarò al Guardian che lo avrebbe difeso con la vita!
Nello stesso anno, a Göteborg, le artiste Benedicte Bergmann, Monica Englund, Ulla Hammarsten Mc Faul e Annbritt Ryde con un’antropologa, un’etnologa e un’infermiera organizzarono la mostra Livegen-eget liv, che suscitò grande eco per la sua multidisciplinarietà. Includeva infatti pittura, arte tessile (uno dei campi in cui più si espresse l’innovazione artistica) e fotografia, completata da dibattiti serali e dalle pièces teatrali di Susanne Osten e Margareta Garpe.
I temi? Sessualità, mestruazioni, menopausa, identità, doppio lavoro, miti e stereotipi, e una gioiosa valorizzazione della “donnità”. Come sottolinea l’artista Barbro Andréen nel catalogo: “La novità del nostro movimento era che non eravamo solo contro, ma anche pro. Dicevamo sì a migliaia di cose: le immagini positive erano tante. Nacque così un nuovo concetto: la cultura delle donne”.
Se gli anni ’70 sono quelli del collettivo, gli anni 80 sono quelli del backlash e dell’individualismo. Ma anche quelli della fertile connessione tra pratica artistica ed elaborazione teorica. La nozione di “sguardo maschile” della teoria filmica femminista diventa uno strumento d’investigazione per molte artiste, come Annika von Hausswolff che con la sua opera contribuisce solidamente all’analisi della politica della rappresentazione (esemplare la serie fotografica Back to Nature, che rimette in discussione la raffigurazione mediatica della vittima, e lo scontato rapporto donna-natura).
La sovversione dei codici dell’immagine mediatica e della storia dell’arte è altrettanto importante. Analizzando i quadri che hanno edificato la rappresentazione dell’artista e della donna, Annica Karlsson Rixon si riappropria delle figura retoriche della storia o della pubblicità e agisce con forza decostruttiva dall’interno dell’immagine, come in Untitled I-VI (1990-91), la serie fotografica del suo debutto, dove ai pallidi nudi femminili sovrappone un cadavere animale, provocando un sensato cortocircuito tra attrazione e repulsione.
“L’idea di genere” marginale nella scena artistica degli anni ’70, comincia a diffondersi nei ’90 sino a diventare integrante della scena contemporanea. E se l’idea che in entrambi i sessi albergano caratteristiche maschili e femminili attraversa i quattro decenni, è solo con l’avvento della queer theory che la normatività dei due sessi comincia a scardinarsi diffusamente.
I classici attributi del femminile vengono disinnescati da artiste come Pernilla Zetterman e Karolina Holmlund, aderenti delle Riot Grrls. O come Elisabeth Ohlson Wallin, che reinterpreta la mascolinità nella sua serie fotografica Könskrigare, ritraendo diverse “guerriere del genere” dall’aspetto e dal comportamento ambiguamente maschile.
O, ancora, Catti Brandelius che, autoproclamatasi Miss Universum, canta, balla, scrive poesie, tiene conferenze. I suoi dissacranti videoclip hanno per set il suo appartamento in un palazzo popolare, il supermercato, o la periferia. Lontana anni luce dall’universo glamour, la sua Miss Universum occupa il campo visivo promuovendo valori autonomi e sfidando le norme vigenti sulla femminilità.
Ma se Konstfeminism mostra le grandi conquiste delle artiste svedesi in quasi quattro decenni, espone anche i problemi irrisolti. Come le questioni del potere e delle relazioni di potere: fulcro delle preoccupazioni delle artiste del 2000. Per affrontarle, molte si richiamano alle strategie degli anni 70. La sorellanza torna in primo piano, con i recenti Sisterskapets aar, l’anno della sorellanza, documentario di 9 ore di Sonia Hedstrand e Aasa Elzén, i ritratti delle giovani anarco-femministe di Ulrika Minami Wärmlings, e le storie di donne di Petra Trygg.
Respingendo la nozione mercantile dell’opera d’arte, numerose artiste creano o intervengono in spazi pubblici, come le High Heel Sisters che, criticando il potere, reinventano le regole del gioco sociale. In Never too much, ad esempio, rovesciano l’ordine dello strip-tease: leggendo testi di Gertrude Stein, Judith Butler e Julia Kristeva, cominciano la performance nude, montano sul palcoscenico e si vestono. In Att gaa Samman Over ett Torg, invitano le donne presenti a comminare con loro per un’ora nella piazza Sergel di Stoccolma, incitandole a sentirsene proprietarie.
E proprio la rivendicazione dello spazio, artistico e mentale, appare oggi cruciale. Nonostante in Svezia le donne siano alla testa di quattro accademie o dipartimenti d’arte su cinque, costituiscano la maggioranza degli studenti e la metà del corpo insegnante, la metà degli artisti professionali e il potere nel mondo dell’arte resta ancora saldamente in mano agli uomini. Come sottolinea l’artista Katrine Helmersson nel catalogo: “I confini di quanto ci è permesso sono piuttosto limitati. La sessualità femminile è discreditata, come molto del nostro lavoro. Una volta che sei consapevole di questo, devi aguzzare la tua abilità per formulare quello che ritieni importante. C’è una guerra tra gli uomini e le donne. Non la noti finché non provochi l’ordine stabilito. E allora, improvvisamente, la vedi”.
“Non ci sono spazi neutrali, ma solo zone di guerra e di occupazione “, reiterano le artiste Johanna Gustafsson, Malin Arnell, Line S Karlström, Fia-Stina Sandlund, e la produttrice Anna Linder che, incontratesi nel 2005 durante l’allestimento di Konstfeminism, hanno fondato l’associazione Ja! per farvi fronte, e sostenere le artiste che con le loro pratiche contribuiscono alla fine del patriarcato. La strategia? Una “redivisione strutturale dell’accesso ai finanziamenti, al tempo e allo spazio nel mondo dell’arte”. Lo strumento iniziale, presentato come una performance all’apertura della mostra, è un “contratto di parità” che impegni le istituzioni culturali a praticare l’uguaglianza fra i sessi nelle attività espositive, nell’acquisto delle opere e nel reclutamento del personale. E, in caso contrario, a versare una penalità all’associazione per un fondo di sostegno alle artiste discriminate. Ma nessuna delle istituzioni sollecitate, incluse le organizzatrici della mostra, l’ha sinora voluto firmare. Le artiste però non demordono: lo scorso febbraio al vernissage della mostra di Göteborg hanno rivolto un appello alla ministra della cultura, Lena Adelsohn Liljeroth, affinché le regole della parità siano applicate al mondo dell’arte come in altri settori. Intanto, il dibattito resta aperto.