Il disegno dell’emancipazione si è realizzato: e adesso che cosa ci aspetta? La definitiva omologazione al modello maschile ‘globale’ o la ricerca di una civiltà femminile?
Questa la presentazione dell’incontro di mercoledì 23 maggio alla Libreria delle Donne – Circolo della Rosa.
Liliana Rampello ne ha discusso con l’autrice a partire dal libro La scomparsa delle donne di Marina Terragni (Mondadori 2007). Riportiamo l’introduzione di Liliana Rampello all’incontro.
Liliana Rampello ringrazia Marina Terragni, autrice de La scomparsa delle donne (Mondadori 2007), la ringrazia anche per aver scelto la Libreria come il primo luogo in cui converserà sul libro.
“Marina Terragni è una giornalista – la presenta Liliana -, opinionista, editorialista del Corriere della Sera, su Io Donna ha una rubrica fissa Maschile Femminile, scrive anche per il Foglio, collabora scrivendo e pensando con noi, alla nostra rivista che è Via Dogana. Ci aiuta a pensare quella che è la nostra politica, ci aiuta a pensare alla differenza femminile e lo fa partecipando, scrivendo. Lo ha fatto in modo molto intelligente e rivelando un grandissimo talento con questo libro in cui, se mi si passa la parola, traduce pensieri e pratiche della nostra politica in quella che è, da noi, chiamata lingua corrente. La traduzione non è cosa semplice, significa che alcuni dei nostri pensieri, delle nostre pratiche a volte sono davvero considerate, da alcune, astruse. Da altre sono maliziosamente valutate incomprensibili, incomprensibili perché con questi pensieri e pratiche non ci si vuole confrontare. Marina con questo testo attraversa tutta l’attualità rileggendola con uno sguardo molto vicino al nostro, non voglio dire interno perché lei poi ha una sua libertà e passione molto travolgenti, ed è riuscita a far sì che tutta una serie di questioni possano essere riproposte e in qualche misura messe alla portata di tutte e di tutti senza che nessuno possa definire questo pensiero difficile, astruso, astratto, troppo intellettuale. Anzi la chiave della sua scrittura è fortemente anti- intellettualistica e il libro offre delle questioni a chiunque abbia voglia di leggere e occuparsi di politica. Questo, per me, è un libro di politica che ci parla di lei, Marina è molto presente nel testo, ci parla di noi, è un libro che parla delle donne alle donne, degli uomini agli uomini. Chiede una parola non di risposta ma di interlocuzione sia alle donne che agli uomini. Non necessariamente risposte perché lei fa a tutte noi, e a se stessa, moltissime domande. Chiede una parola che tenti di stare il più possibile all’autenticità della propria esperienza, esperienza che uomini e donne fanno di questo mondo. Per questo basterebbe guardare l’indice. Lo sviluppo dei suoi quindici capitoli indica la sua attenzione alla contemporaneità, all’attualità, a quello chesta succedendo intorno, costantemente. Ci sono moltissime discipline che intevengono: sociologia, psicologia, psicoanalisi, demografia, statistica…Marina ci dà conto nelle sue note di conoscere moltissimi di questi testi.
L’importanza del suo libro è che lei legge con un taglio politico molto chiaro la realtà che la circonda e ha dei bei chiari obiettivi polemici. Io ne ho individuati alcuni: il primo è un’emancipazione che annulla la differenza, la annulla perché la ritraduce in parità e uguaglianza. Il secondo obiettivo polemico è il linguaggio dei diritti e dei doveri che invade e occlude ogni spazio di intimità del soggetto con se stesso e nel rapporto con gli altri; e con questa invadenza ne tocca in qualche misura lo statuto di singolarità e integrità. Il terzo obiettivo polemico a me sono sembrati gli studi di genere: i cultures studies e queer studies, tutti quei lavori indirizzati alla sottolineatura del politically correct. Tutti questi studi sono in qualche modo, anche con eleganza, grazia, a volte, presi in giro da Marina perché mi sembra che l’idea stessa di decostruzione non le interessi, non le piaccia in quanto questa ha tentato di sfondare l’idea stessa di soggettività concreta e reale, quel nostro essere al mondo con il nostro corpo così come siamo. Ora, perché non si fraintenda, non si intenda che questi obiettivi polemici sono in qualche modo una sorta di fantasma della sua mente, ma sono reali, torno proprio alla lingua che ha saputo usare per dirci tutto questo che è la lingua politica dell’esperienza. Quell’esperienza che, toccando tutti e tutte, si fa capire e la lingua che si fa capire è la lingua dello scambio, la lingua della relazione, la lingua della seduzione del corpo, del bisogno, del bisogno di distanza, di fare vuoto, la lingua della separazione ma è soprattutto, declinata in tutti i quindici capitoli, la lingua dell’amore secondo modalità molto diverse. Una lingua di questo genere si può dire che porti in sé, dentro di sé, come una necessità, l’altra e l’altro. Mi veniva in mente uno studioso russo, Bachtin, che parlando del romanzo diceva che la lingua del romanzo è una lingua internamente dialogica intentendo che sa tenere al proprio interno l’eco della parola altrui. Mi sembra che in una chiave diversa, nella sua lingua, Marina scriva con l’eco della parola altrui dentro la propria, quindi in una sorta di dialogo interno alle parole stesse che lei usa, che sanno, che hanno una storia e che rideclina a modo suo. Una lingua di questo genere è una lingua che non vuole farsi sistema, che non esclude anche quando giudica, perché il libro ha anche dei giudizi precisi su tutta una serie di faccende e vicende che stanno succedendo intorno a noi, ma nemmeno include nel senso semplice di chiamare a sé solo ciò che è simile a sé. Quindi da un lato non esclude, dall’altro non include nel senso di includere solo ciò che mi è prossimo, vicino, facile. Si tratta di una lingua che apre uno spazio dell’intelocuzione che sappia partire da sé. Da questo punto di vista rispetto al lavoro che lei, noi, facciamo, in questo testo ci sono tematiche che sono decisamente spostate in avanti e altre che sono spostate in parte a lato come una mossa del cavallo negli scacchi ovvero come una mossa che disorienta chiunque.
Voglio farvi degli esempi, ricordando che ogni capitolo è una domanda proposta con libertà. Le citazioni vengono da ogni pensiero che le sia sembrato interessante, indipendentemente dalla collocazione di questo pensiero e appunto dalla passione che per lei è imprescindibile.
Primo esempio è la questione dell’emancipazione e il rapporto fra questa e la libertà femminile. Io ho preso come punto mio di riferimento mentale, per capire il ragionamento di Marina, il Sottosopra Rosso La fine fine del patriarcato. In quel documento la Libreria affermava che il patriarcato finisce quando una donna toglie il proprio credito all’uomo. Una frase semplicissima che ha trovato subito obiezioni: ma il patriarcato non è morto, c’è violenza, gli uomini dominano dappertutto, le donne sono vittime…In quella frase importantissima si indicava qualcosa di diverso, qualcosa che anche Marina sa usare nel testo, ovvero una mossa simbolica, un taglio al presente che, per ognuna che lo fa, spezza la linearità positiva del tempo, quella linearità per cui dentro il patriarcato per non essere più vittime bisogna seguire una serie di passaggi: prima bisogna emanciparsi economicamente poi liberarsi eventuamente culturalmente e poi e poi e poi senza che ci sia una fine possibile, una uscita possibile dalla progressione del tempo. Naturalmente lo ha insegnato Luisa Muraro a tutte noi, il simbolico non ha bisogno di tempo, la mossa simbolica avviene al presente. Questa questione che toglie credito all’uomo e quindi fa crollare il patriarcato toglie però anche alla donna un’altra cosa cui probabilmente era affezionata. Le toglie l’identità di vittima, perché anche essere una vittima è un ruolo identitario per quanto doloroso possa essere. Mi pare che su questo elemento Marina apre il proprio problema. Se non siamo più vittime non abbiamo come alternativa solo quella di infilarci nei vestiti nei panni dell’uomo, di trasformarci in ometti. Se noi non più vittime emancipate ci infiliamo nei panni degli uomini riduciamo di nuovo il mondo all’uno quindi percorriamo la strada di un diverso esilio, ma pur sempre di un esilio, offriamo una nuova complicità a quel mondo che non ci aveva previsto. Ed è quì che Marina si chiede che cosa sta succedendo e che cosa può sembrare che stia succedendo e farò la prima citazione “Non c’è quasi più nessuna che voglia prendersi la briga di essere una donna. Siamo diventate tutte vere uomini. Uomini, come dice la femminista americana Gloria Steinem, che avremmo sognato di sposare, tutte veri uomini senza aver saputo come sarebbe stato essere vere donne”.
Subito dopo dice: “Le ragazze nascono belle pari, si comportanto socialmente, sessualmente come maschi vanno allo stadio e fanno carriera. La maternità è under attack prima o poi un utero di plastica ci dispenserà del tutto dall’incomodo. Abbiamo le nostre soldatesse sadiche, ad Abu Ghraib ci abbiamo lasciato la pelle, e c’è una presidente degli Stati Uniti all’orizzonte. Questo per farci intendere da subito come le mani entrino in pasta. E’ questo il risultato dell’emancipazione? E’ questa la libertà delle donne? E come si fa a non scomparire come donne, per arrivare a quello che per lei è il momento dell’oggi, un momento in cui tutto è a rischio perché possiamo scomparire?” Ancora dice: “Il momento è oggi, siamo sul crinale, l’emancipazione è al suo climax e a questo punto ci tocca scegliere, non si tratta di andare avanti o tornare indietro, non è questione, come molti credono, di invertire la marcia: di tornare a casa o di far tornare il patriarcato. La questione è se rilegarsi a sé per salvare la propria differenza femminile o slegarsene definitivamente”
E questo è il cuore del suo ragionamento. Ora, per non scomparire come donne, il terzo atto, l’unico atto possibile che può attenderci che è lì, di fronte a noi all’orizzonte, è secondo un’intuizione, di Luce Irigaray, il terzo atto, il tempo delle nozze, ma perché avvengano delle nozze bisogna esser in due e due diversi. Allora già a partire dall’introduzione il tema è cosa significa essere semplicemente una donna. Cosa significa lo dirà più avanti: liberamente essere, restando donne. E qui si aprono alcuni pericoli perché si possono banalizzare molto due affermazioni di questo genere. Indico le banalizzazioni che a me paiono più semplici: la prima pensare che si tratti di un rilancio essenzialistico ovvero una nuova ontologia femminile, l’essere donna in forma astorica, e in questo caso eterosessuale in primis. Il secondo pericolo è che la frase se non viene radicata nel testo possa indurre a credere che Marina stia pensando al ritorno al materno biologico. Il terzo pericolo è che si possa intendere questo restare donna, essere una donna secondo un’antica identità femminile che fa da specchio a quella maschile che ti fa vedere di fatto il vero uomo, la vera donna uno di fronte all’altro ma lascinado l’uomo nel suo ruolo di patriarca. Questi tre pericoli secondo me sono reali proprio perché la lingua esprime così semplicemente la propria essenza, (“significa essere semplicemente una donna”), e vanno combattuti perché questo libro non dice nessuna di queste tre cose, allora dove si sposta? Prendiamo una delle questioni che lei tratta ovvero il rapporto tra il lavoro e la maternità, rapporto che troviamo costantemente sui giornali e si discute spesso banalizzando. La banalizzazione è che la donna deve scegliere tra carriera e figli. MaMarina ci spiega , anche sulla scorta di un lungo lavoro fatto qui in Libreria con due Quaderni dedicati al lavoro, questa specie di bivio che le giovani donne si trovano di fronte. Siamo a fronte di una libertà femminile maggiore, non è o questa scelta o quella, o questa o quella significa che spesso rinviano, posticipano, rifiutano, sono confuse rispetto al loro stesso desiderio di maternità. La proposta è piuttostola sostituzione dell’ o o con e e, e questo e quello,:una donna può desiderare e il lavoro e la maternità. Per questo ci vuole una lotta. Carriera e maternità sono in opposizione o in ragione della regola aurea del mercato, la produttività, o per la capacità del mercato di inglobare nei suoi bisogni tutto quel lavoro femminile di cura relazionale che non viene più rivolto al figlio. Su questo campo il debito di Marina verso il gruppo della Libreria è notevole ma lei se lo gioca anche in prima persona dicendoci quando come e perché ha fatto le proprie scelte. Fra l’altro lo dice in modo divertente e appassionante. Mi viene in mente quello che Margaret Mead ha detto alla figlia sua e di Gregory Bateson:”Se vuoi essere una grande studiosa, al mattino quando ti svegli metti su una bella carota e una patata a bollire, perché a un uomo piace sentire il profumo del minestrone e tu nel frattempo ti fai i fatti tuoi”. Questo per dire che questa opposizione così violentemente e quotidianamente sotto i nostri occhi ha conosciuto strategie di evitamento ed elusività femminili molto ricche e che oggi si possono riprorporre come una scelta e una lotta per volere entrambe le cose e cercare di coniugarle, ci dice Marina, intanto sottraendosi a una sorta di etero comando, comando che viene dall’esterno di noi. Marina sottoliena molto bene, porta tutti i numeri, quante volte si comanda alla donne di fare e non fare figli, quante volte si dice che il figlio è un dovere, altre che è un diritto ecc. Mette in questione una lingua imbrogliona, una lingua che su questa questione imbroglia e confonde le donne. E risponde a questo aut aut che viene sempre ripresentato. Lei dice che c’è la possiblità di scardinare questo problema con la pratica d’amore, pratica della relazione come spazio politico che è già pubblico sui due temi: il lavoro è già spazio pubblico e la maternità è sottratta al disciplinamento del privato se noi in prima persona facciamo della maternità reale e simbolica, non della maternità biologica, l’esercizio di una pratica politica per cui tra la madre e il figlio mettiamo un’altra donna. Senza questa pratica poltica pubblica della maternità, che è semplice, come ammirare la madre, fare in modo che la socetà riconosca il valore dell’essere madre, perché non riemerga il materno diviso tra la natura e la cultura, quella divisione che ci inchioda senza possibilità di mediazione. La natura ci inchioda a una nuova biologia perché sul corpo della donna c’è un esercizio fortissimo della scienza della medicina, la procreazione assistita e non solo, e qui Marina ragione e riflette su ciò che avviene attorno al corpo di una donna quando su questo corpo si affanna di nuovo una scienza medicapensata dall’uomo, e vede anche come la risposta femminile può essere disorientata di frronte al proprio desiderio. La cultura ci include invece nel già pensato, e quindi in quella astrazione maschile che Marina attribuisce anche ad alcune menti femminili ad esempio a quelle che hanno pensato il corpo cyborg, come Donna Haraway una cultura che tenta di fare a meno di un corpo, di essere senza corpo. Allora se la libertà viene prima dell’emancipazione, di cui questi sono gli esiti tanto negativi, c’una questione da capire: ovvero che esiste un’altra strada che qualcuna chiama pratica delle differenza femminile. Ad esempio il poter stare liberamente e piacevolmente al mondo senza passare attraverso la competizione con gli uomini. Dopo questa affermazione nei capitoli che seguono c’è un invito.Ci invita a fermarci e riflettere perché si possa fare un buon uso di questa libertà e un buon uso, ad esempio, è quello di contrastare la mascolinizzazione della casa, contrastare l’ipotesi di un ritorno a casa da casalinghe disperate o felici e contrastare la lingua invasiva dei diritti e dei doveri. Si tratta di imparare a convivere con la differenza, con quella differenza non solo fra sé e l’altro ma anche fra sé e sé, e imparare, tornando al quel Sottosopra Rosso, che nell’essere umano di sesso femminile e maschile sono sempre insieme e in circolo differenti identità, e questo essere in circolo è quanto fa fuori l’uguaglianza: salvaguarda la differenza prima tra uomini e donne ma salvaguarda anche le differenze tra donne ed è un’apertura non identitaria dell’amore fra uomini e donne, tra donne e donne e tra uomini e uomini. Questo è un libro scritto da una donna apertamente eterosessuale e che apertamente parla anche anche agli uomini e non disegna confini verso altri o verso altre.
C’è un capitolo, Madri, in cui richiama quell’ammirazione a suo avviso fondamentale perché la maternità venga sottratta al privato e in cui dice chiaramente che la società deve inchinarsi a ciò che è femminile. E questa riconoscenza, questo inchinarsi a ciò che è femminile, che è la madre ma è anche la madre intesa in senso simbolico e dunque l’altra donna, viene poi virata nuovamente nel capitolo Bellissime dove si parla di quello che ognuna di noi fa o può aver voglia di fare o vorrebbe fare o si trova nell’angoscia di decidere se fare o non fare del proprio corpo e questo riguarda l’invecchiamento e c’è poi un capitolo rivolto alle più giovani, Il grande bordello, in cui ci parla di una sessualità femminile che deve ancora liberarsi da una sorta di travestitismo maschile, di un eccesso di maschile. In questo movimento da Madri a Bellissime c’è un punto che ha a che vedere con quello che lei prende da Julia Kristeva, ovvero lo sguardo della madre verso la propria creatura, quasi un archetipo. (Ne parla anche Luisa Muraro). Il bisogno della creatura della madre diventa un punto di vista, un elemento che orienta anche i capitoli sull’attualità del farsi e rifarsi del corpo, sulla bulimia sull’anoressia, li riorientra perché è l’archetipo dell’attrazione, del bisogno che abbiamo di attirare lo sguardo degli altri su di noi.
Dunque, secondo Marina, c’è fame di questa differenza femminile e nel capitolo che lie chiama Politica, polemizza con il fatto che siamo quasi costrette a vedere il sistema dei partiti e delle istituzioni come il centro della politica. Lei non lo vede come centro ma come uno dei centri, quindi parla del potere e parla del potere anche quando esercitato da donne, riprendendo qui una posizione che aveva già preso sul numero 80 di Via Dogana e ci ricorda qualcosa che tutti sanno, anche gli uomini, ovvero che le donne fanno accadere le cose. In effetti molto è già accaduto. Il problema è qui e il libro ci chiama a spingerci più avanti, a fare il passo più forte, più deciso: per capire che di questo molti si sono accorti, cioè che le donne fanno accadere le cose, basta vedere, ad esempio, l’ultima mossa di Sarkozy: Marina dice sta a noi, a nessun altro trarne le conseguenze, mostrare il vantaggio, sedurre a partire da quello che abbiamo guadagnato contrattare da una posizione di forza e non di inimizicia femminile, ricordandosi anche come lei ricorda attraverso un vecchio articolo di Lia Cigarini che bisogna evitare che le donne sentano il bisogno e il desiderio di stravincere. Questo riferimento al testo di Lia Cigarini compare in Violente. Non c’è solo un capitolo intitolato Violenti che sono gli uomini ma anche uno intitolato Violente. Per arrivare agli uomini farei questo passaggio: se non siamo convinte noi del guadagno, del di più, di quello che abbiamo già fatto accadere, se non ne siamo convinte noi sarà molto difficile che riusciamo a convincere gli uomini. Questo è il capitolo Politica.
I passaggi che da qui si dipanano, un po’ li ho indicati un po’ ho indicato il fatto che quello che interessa a Marina è che l’uomo e la donna siano uno di fronte all’altro nella loro verità, nella loro autenticità, ma per quel che riguarda gli aspetti chei vede presenti e prevalenti negli uomini direi che posso indicarene tre: ci sono gli uomini che in casa tentano di rimettere in scena il patriarcato, in casa fanno quello che nello spazio pubblico abitato da donne non riescono più a fare; ci sono uomini che parlano, anche se ancora troppo pochi, e il riferimento è a quegli uomini che hanno scritto il manifesto del 2006 in cui si assumevano in prima persona il problema dello stupro e della violenza del corpo dell’uomo sul corpo della donna e poi ci sono gli uomini violenti tout court, che le donne le ammazzano, le stuprano. E qui la visione non è néottimistica né pessimistica, semplicemente apre una strada diversa a partire da un’esperienza diversa che lei ricorda nel capitolo Violenti, l’esperienza che sta facendo la Casa delle Donne Maltrattate di Milano che ha cominciato a rispondere anche agli uomini violenti che chiedono di capire il perché della loro violenza, che chiedono di capire qual è il problema, che denunciano di avere un problema. Marina indica come lieta novella il fatto che un uomo capisca che ha un problema se stupra o uccide una donna , e parlare di una buona notizia significa non imparare a non sottovalutare, occorre essere le prime a prendere in mano il filo delle relazione perché non si spezzi.
Uomini dunque che lei vorrebbe non femminilizzati, uomini che vorrebbe capaci di distinguere la propria virilità dal desiderio di dominio, di possedere il corpo di una donna. Questi uomini veri, non sono veri perché sono gli antichi patriarchi, perché stuprano, ma sono veri perché sanno fare questa distinzione. E qui Marina ha un’idea molto bella: ci propone la figura del tango dove ci sono in carne ed ossa rapresentati da un uomo e da una donna forza e debolezza; c’è il guidare e l’abbandonarsi. Lei dice quando entrambe le posizione saranno liberamente imparate da entrambi i sessi questo sarà il tempo del due. Questo significa che le donne che hanno elaborato la trasformazione di sé non devono affatto scomparire, non sono scomparse se le intendiamo così, e che gli uomini devono trovare certezze fuori dal patriarcato.
Il libro ha attraversato con grande talento tutte le problematiche che costantemente compaiono sui giornali in quell’attualità di cui in parte ci si dimentica, e che in parte viene sempre riproposta con violenza. C’è un unica cosa su cui non sono d’accordo – conclude Liliana Rampello -, ma devo scrivere un libro per ripondere: che Jane Austen non fosse una donna.