Serata dedicata alla storia orale russa e alla discussione del libro di Liudmila Kouchera Bosi La “chanson” russa
Nel 1975 in Francia è uscito un disco particolare, Blatnye pesni (canzoni della mala) cantate da Dina Verni. Come mai una baronessa di origine russa, ricchissima padrona di una galleria d’arte, moglie dello scultore francese Mayole, amica di Picasso e di Matisse si è dedicata al folclore della mala russa? La sua famiglia ha emigrato dalla Russia in Francia nel 1926 quando lei aveva sette anni. E’ tornata in Russia nel 1959, quarantenne.
Come era Mosca di fine anni Cinquanta? Dopo la morte di Stalin, nel 1953, sbocciarono i primi germogli della libertà, dai lager staliniani ritornarono detenuti politici. Tempi nuovi, canzoni nuove. Juz Oleshkovskij scrive il Canto a Stalin e Un mozzicone. In breve arrivano le prime registrazioni di Vysotskij, Galich, Okugiava e di altri cantautori. Dina Verni si incontra con pittori d’avanguardia: Kabakov, Bulatov, Rabin nonché con alcuni dissidenti. A ogni incontro si cantano le canzoni che seducono Dina. Ecco cosa scrive nell’annotazione al suo disco Blatnye pesni: “Il fascino della lingua, l’umorismo, la nostalgia e forza brutale insiti in quelle canzoni creano una poesia irripetibile dove la rozzezza confina con la tenerezza… L’io cantando è un detenuto in un posto lontano. La sua canzone vola come una rondine…” Incantata da quelle canzoni, Dina decide di produrne una raccolta. Però c’è un problema: come portare le canzoni fuori dall’Unione Sovietica? Non si poteva né trascrivere i testi, né registrarli su nastro magnetico, perché c’era pericolo delle perquisizioni alla frontiera. E Dina Verni impara a memoria 24 canzoni “registrate” nella sua testa. Così le ha portate in Francia e le ha cantate con la sua bellissima voce, calda e sensuale. Sono passati tanti anni dall’uscita di quel disco, di tanti dischi di vari cantautori e di autori ignoti. Ma rimanevano sempre in un limbo di underground come parte integrante del folclore metrapolitano che non aveva accesso né alla radio, né tanto meno alla televisione. Vivo in Italia da 29 anni e non ho avuto occasione di sentire questo tipo di canzoni russe. Poi, qualche anno fa, casualmente, durante un breve soggiorno a San Pietroburgo ho avuto qualche cassetta di registrazioni delle canzoni presentate come chanson 2 russa. Ne sono rimasta affascinata anch’io. Ricevute in dono da un giovane ex detenuto, ho portato a casa queste cassette, ho sbobinato le più belle e ho deciso di farle conoscere in Italia. Durante il lavoro di traduzione, assai difficile, ma veramente coinvolgente, ho trovato sull’Internet alcuni siti dedicati alle Blatnye pesni, al folclore della mala e ho ampliato la raccolta. Il volume intitolato La Chanson Russa, canzoni di delitto e castigo è stato pubblicato dalla Casa Editrice Polimetrica nel 2004 e include centodieci canzoni, suddivise in “capitoli” che raccontano la vita dei detenuti: Amicizia, Amore, Delitto, Destino, Donne, Evasione, Ingiustizia, Libertà, Malavita, Mamma, Reclusione, Tradotta, Humour. Tutti momenti importanti della vita dei pregiudicati e sentimenti umani universali: dolore e gioia, amore e odio, disperazione e speranza, sensi di colpa, e via cantando. La definizione La Chanson Russa è stata usata, pubblicamente, per la prima volta nel 1998, quando una nuova emittente radio di San Pietroburgo si è data questo nome: Radio Pietroburgo – La Chanson Russa. Un grande successo di ascolti! Due anni dopo, a Mosca, nasce l’emittente radio La Chanson. Così viene trovato il nome per un genere della musica popolare russa, genere che abbraccia vari sottogeneri – dalle canzoni di famosi cantautori alle blatnye pesni (canzoni della mala). Il genere Chanson viene studiato, si cercano le sue origini e le prospettive. In un articolo sul settimanale russo “Argomenti&Fatti”, N°30, 2001, troviamo questa definizione: “Il genere Chanson è la fusione della musica popolare, adattata all’ambiente urbano, cioè è folclore metropolitano”. Jurij Sevastianov, direttore di una compagnia che produce album della Chanson, scrive: “Chanson è la nostra musica nazionale. Prima la suonavano nei portoni, nei cortili con le chitarre acustiche, adesso magari con quelle elettriche”, e, aggiungiamo, alla radio e nei ristoranti. Grazie alla radio le canzoni del detenuto e della mala trovano la loro “visibilità” sonora, ed escono alla luce del sole. Milioni di persone le ascoltano andando col pensiero ai congiunti detenuti in attesa di giudizio o internati nelle colonie penali. Dalla radio, la Chanson approda sull’Internet e letteralmente lo invade. Adesso esistono migliaia di siti dedicati, i più famosi sono Rambler, Chanson russa, Shanson (sic!) russa, Blatnoj folclore, collegati tra di essi con un kolzo sajtov (anello di siti). Questi siti contengono un oceano di materiale biografico, auto3 biografico, bibliografico, articoli sull’argomento, testi e musica delle canzoni, sia quelle dei famosi cantautori che quelle anonime, di autori rimasti ignoti per il rischio di esporsi oppure perché tramandate dal folclore musicale: storie delle “gesta” dei malviventi, storie di delitto e castigo, canzoni di lamento e di denuncia, ma anche di allegria spensierata. Musicalmente, molte canzoni sono alquanto orecchiabili e non per questo prive di struggente lirismo. Sono accompagnate spesso da una chitarra, da un gruppo di pochi elementi o da un’orchestrina. Molte canzoni entrarono nella vita della gente tramite i film, commedie musicali, e diventarono popolari. Se la canzone della mala e la canzone del detenuto convivono con naturalezza e talvolta addirittura si confondono, dobbiamo tener presente che un delinquente e un detenuto non sono necessariamente la stessa persona. Molte canzoni appartenenti a questo genere venivano definite “blatnye” per distinguerle da quelle “ufficiali”, scritte da compositori del “realismo socialista”, che esaltavano in questo modo il lavoro di operai, contadini, minatori, marinai ecc. Il folclore della mala (blatnòj fol’klòr) esiste da sempre, come esiste da sempre il mondo della malavita con la sua storia, la sua sottocultura: il gergo furbesco, i simboli dei tatuaggi, una narrativa orale e, soprattutto, la canzone. Si conoscono le canzoni dei reclusi, degli ergastolani che facevano parte del folclore dell’epoca zarista, del periodo pre e post rivoluzionario, del periodo sovietico e post sovietico. Esistono anche canzonette di cortile cantate perfino da fanciulli. Chi di noi non aveva conosciuto e cantato “Pollastro arrosto, pollastro tosto”? In effetti, fanno parte della Chanson russa anche le cosiddette canzoni degli internati (làgernyje pésni) che non sono per forza canzoni della mala, perché nei lager venivano e vengono internati non solo ladri, assassini, stupratori, furfanti, truffatori, ma anche condannati per reati politici o civili (bancarotta fraudolenta, contrabbando, abuso di potere, teppismo, spaccio di droga, reati ecologici, reati informatici, ecc.). Molte canzoni erano clandestine e si cantavano in modo sommesso perché non venissero ascoltate da qualche delatore. Una canzone poteva costare dieci anni di lager stalinista. La più famosa e la più pericolosa per chi l’aveva scritta o la cantava, tra le 4 canzoni diffuse tramite “samizdat”, è “Canto a Stalin” di Juz Ale.kovskij. Juz Ale.kovskij è nato a Krasnojarsk (in Siberia) nel 1929, in una famiglia ebrea. Aveva fatto vari mestieri, fra cui il marinaio e l’autista, scrisse poesie e libri per bambini. Nel 1947 fu chiamato a fare la leva nella flotta militare. Dal 1950 al 1953 fu internato in un lager. Nel lager Ale.kovskij finì non per motivi politici, ma per furto di un’auto che doveva servire a lui e ai suoi commilitoni per tornare in ora-rio dalla licenza domenicale. Furono fermati da una pattuglia di milizia e condannati. Fu amnistiato nel 1953, dopo la morte di Stalin. Dall’esperienza diretta di recluso di un lager staliniano nacque nel 1959, a Mosca, Canto a Stalin, una coraggiosa denuncia contro il culto della personalità del Grande Capo, Grande Stratega, Grande Studioso. Era una canzone beffa, una satira feroce, una canzone denuncia delle purghe staliniane, dei campi di lavoro del GULAG. Forse è la canzone russa più popolare in assoluto, la conoscevano tutti senza sapere il nome dell’autore. Il Canto a Stalin fu pubblicato soltanto nel 1988, sulla rivista letteraria “Novyj mir”. Il più famoso e il più amato cantautore russo è Vladimir Vysotskij (1938-1980), grande poeta, attore di teatro e di cinema. Ha composto e interpretato con la sua chitarra più di seicento canzoni! Nei suoi testi Vysotskij attingeva alla tradizione della romanza metropolitana russa. Nel ciclo di canzoni della mala Vladimir Vysotskij cambiava con facilità le maschere sociali: ora era un beone o un pregiudicato, ora un picciotto o un detenuto. I fatti narrati erano sempre talmente credibili da dar l’idea di aver realmente subito le angherie dei lager staliniani. Vysotskij è morto giovane, stroncato dalla droga e dall’alcool, ma la sua voce rauca e bellissima, come le sue canzoni geniali rimangono vive, senza perdere il loro fascino, suscitando ancora la commozione e i sentimenti di sempre. Katja Ogonjòk (vero nome Kristina Pojarskaja) è nata a Giugba, una cittadina sul Mar Nero. Cominciò a cantare a 16 anni nei gruppi pop. Poi una disgrazia, un incidente in macchina per cui fu condannata a tre anni di colonia penale. Nel lager continuò a cantare, trovò dei produttori e le sue canzoni ambientate nella zona volarono in tutta la Russia. Lei che ha vissuto l’esperienza della prigionia sulla propria pelle, racconta le storie che girano 5 nelle colonie femminili al cantautore Vja©eslàv Klimenkòv che in seguito scrive per lei testi e musica. Ha una voce calda, sensuale. La registrazione dell’album “Taigà bianca” è stata effettuata in uno studio mobile all’interno del campo penale a regime rigido della città “chiusa” Leninsk-13, in Siberia. Il 6 novembre 1998 Katja Ogonjok è stata liberata anticipatamente dopo aver scontato due anni, nove mesi e diciassette giorni. Katja Ogonjok (“fiammella”) è uno pseudonimo, nel gergo della mala “ogonjok” vuol dire “bisca”, ma anche “pistola” e “accendino”. Adesso la cantante è molto popolare ed amata, riceve un’enorme quantità di lettere da ogni parte della Russia. Attualmente Katja Ogonjok vive a Mosca, dove sta preparando, nell’ambito del movimento “Kalìna kràsnaja” (“Viburno rosso”) una tournée di beneficenza in varie prigioni della Russia. Nella sua prima intervista, rilasciata nel campo di detenzione di Leninsk-13 il 7 ottobre 1998, Katja Ogonjok dice: “Io continuo a cantare canzoni, questo mi dà molta soddisfazione e fiducia nei buoni rapporti tra le persone; mi aiuta a vivere, sperare, credere ed amare. Ascoltatele, in esse c’è la mia anima, il dolore e l’affetto per voi. L’uomo può adattarsi a tutto, tranne che all’ingiustizia. Miei cari, voglio bene a tutti voi. Siate felici, ma soprattutto, siate liberi!” Purtroppo in una breve presentazione è difficile parlare di tanti altri cantautori del genere Chanson russa. Anche se in molti considerano queste canzoni popolari di serie B, fanno parte della cultura russa, sono amate e cantate oggi come anni fa, perché esprimono sentimenti umani universali.