Luisa Muraro
Ho incontrato la poetessa Anne Sexton (1928-1974) mentre scrivevo Il Dio delle donne, per alcune sue poesie della raccolta che s’intitola The Awful Rowing Toward God (Il tremendo remare verso Dio). Le trovai in un’antologia pubblicata dall’editore Crocetti di Milano e curata da Rosaria Lo Russo, Antonello Satta Centanin, Edoardo Zuccato, L’estrosa abbondanza. Più recentemente, presso Le Lettere di Firenze, Rosaria Lo Russo ha curato l’antologia intitolata Poesie su Dio.
Anne Sexton non compare nel mio libro, perché non l’avevo sufficientemente dentro. Adesso? Sì, sicuramente la citerei per quei versi di lei che gioca a poker con Dio: lei ha una scala reale all’asso ma Lui, ridendo, cala cinque assi e vince, lei è arrabbiata ma sente un canto di giubilo, un Rejoice-Chorus, allora ride anche lei, ride il mare, ride l’isola – dov’era approdata a furia di remare – e ride l’assurdo (“The Island laughs. The Absurd laughs”). In effetti, l’idea che vivere sia come giocare a poker con un baro con la B maiuscola, spiegherebbe molte cose, tra cui anche che la faccenda può finire bene, come in questa poesia, The Rowing Endeth (Finito di remare).
E la vita di Anne Sexton? Tirò avanti con l’aiuto di molta chimica (“I like them more than I like me”, dice riferendosi alle pasticche), della scrittura, dell’affetto fedele di un marito e di alcune amiche, dell’amore che aveva per le due figlie, di cui però non sapeva prendersi cura, e finì con un suicidio, esattamente trent’anni fa, all’età di quarantasei anni, qualche anno in più della sua compagna Sylvia Plath.
Di Anne Sexton in quanto protagonista di una biografia ho avuto notizia l’estate scorsa, in un grosso saggio di Juliet Mitchell, Pazzi e Meduse. Ripensare l’isteria alla luce della relazione tra fratelli e sorelle (tradotto da Ester Dornetti e pubblicato dalla Tartaruga). Ho scoperto così che Anne Sexton, una ricca casalinga di Boston, oltre che donna di notevole bellezza, a ventott’anni, dopo il secondo parto, finì in un reparto psichiatrico da dove la fece uscire quello che sarebbe diventato il suo primo psicanalista, il dottor Martin Orne, il quale ha l’ulteriore merito di aver messo la sua paziente sulla strada della creazione artistica. Ho scoperto inoltre che la sua storia è stata ricostruita in un’accurata biografia voluta da una delle figlie, autrice Diane Wood Middlebrook, ANNE SEXTON. UNA VITA (tr. it. di Claudia Rusconi e Gloria Gordigiani, Le Lettere, Firenze 1998), biografia che racconta, insieme, un pezzo interessantissimo del farsi del femminismo negli Usa, tra gli anni Sessanta e Settanta, quando la gender theory non era nata e la presa di coscienza ha significato dare parola ad un’esperienza femminile accettata come tale.
Leggere una biografia è come indossare l’abito di un altro, qualcuno ha detto. Quella di Anne è un abito suntuoso. C’è l’odio-amore per la madre, la perdita traumatica di una zia amica e complice, l’innamoramento, la vita domestica, la maternità, il senso d’inadeguatezza, la sofferenza che diventa insopportabile, la scoperta di sé nella relazione analitica, la presa di coscienza attraverso la scrittura, il successo, il contraccolpo e, ancora sempre di nuovo, il senso d’inadeguatezza, i tentativi di suicidio, l’ospedale psichiatrico, la dipendenza dalle persone e dai farmaci, le amiche che le stanno vicine, il bisogno coatto di piacere, il bisogno di essere amata, la madre che muore di cancro, le figlie che diventano grandi, il marito che non ce la fa più, il divorzio, la solitudine nella casa da cui gli altri sono andati via… La biografa c’informa che la sua protagonista indossò, per morire, una vecchia pelliccia della madre, e commenta la sua fine con una strana immagine: “Alla sua famiglia, frantumata dal divorzio, la morte della Sexton sembrò la fine di un lungo assedio”. Così la commenta, per parte sua, Juliet Mitchell in Pazzi e Meduse: “L’isterico non può ammettere che la morte sia assoluta: questo rifiuto ad accettare l’assenza di significato della morte è manifesto nel suicidio della poetessa Anne Sexton (un’isterica conclamata)”. Ma quest’assenza di significato, chiedo, è vera per tutti? è vera anche per le poetesse? Anne Sexton ha tentato che non lo fosse e a me pare, sarò anch’io un’isterica, che ci sia riuscita… “There is hope. There is hope everywhere. I bite it”, canta in Snow: “C’è speranza. C’è speranza ovunque. Io l’addento”. “My death the same”, la mia morte tale e quale, scrive a commento della storia di Giona, il personaggio biblico mangiato e poi sputato dalla balena, in una poesia che s’intitola Making a Living (Guadagnarsi da vivere).