Virginie Despentes (Traduzione dal francese di Simonetta Patanè)
Virginia Woolf afferma che non sarebbe mai diventata scrittrice se suo padre non fosse morto quando lei aveva ventidue anni. La morte dei “cari” come un’emancipazione. Il lutto come un privilegio del quale godere. Da cui trarre piacere. Nascere dal lutto. Di lutti ce ne sono molti intorno a lei. I fantasmi sono amici vicini. Perde la madre a tredici anni, poi la sorellastra a quindici, poi suo padre, poi suo fratello due anni più tardi. Si dimenticano meno facilmente i morti che i vivi. Le tocca vivere con un sacco di gente dentro. Si credono molte cose false a proposito di Virginia Woolf. Si crede che fosse pazza. Bisogna leggere Viviane Forrester (Albin Michel, 2009), la sua impetuosa ed entusiasmante decostruzione della biografia scritta da Quentin Bell, ancora considerata come quella ufficiale. Né pazzia, né frigidità. Accessi depressivi. Ne abbiamo tutti e la maggior parte di noi se ne riprende meno coraggiosamente di Virginia Woolf vista la lunga litania di lutti che lei deve sopportare. Virginia Woolf, donna che il matrimonio non eterosessualizza e che non trasforma in madre, che l’amore lesbico non omosessualizza. Tra le sue pagine ci si addormenta uomo e ci si risveglia donna. Persino i secoli perdono la loro rigidità, il tempo si fa flessibile. Una depressa cui l’avvilimento non impedisce di imprimere le sue impronte sulla superficie del reale. Nei testi di Virginia Woolf si sta sempre tra frontiere. Sorvoliamo le abitazioni senza tetti e i cervelli aperti al vento. Woolf si riferisce molto all’acqua ma è l’aria che governa i suoi testi. Il cielo, da dove i morti ci guardano.
1941. Follia collettiva. Cosa può fare lo scrittore con le sue parole sotto i bombardamenti se né la rabbia né la politica gli sono permessi da coloro che considera i suoi lettori? E ancora: cosa lo scrittore può fare per impedire la guerra. Sotto le bombe, cosa può valere quest’attività vana e assurda, lavorare sulla frase, la parola, la punteggiatura, il punto e a capo. Che cosa si fa con le parole in tempo di guerra quando ci si chiama Virginia Woolf. Quando si appartiene all’alta borghesia, antisemita per tradizione, quando si è sposato un ebreo povero e quando si compare nella lista nera del Terzo Reich.
Il suicidio sta allo scrittore come l’overdose sta al rocker – un modo di andarsene che sta in linea con l’opera e la convalida. Riempirsi le tasche di sassi e immergersi in un fiume che si scrive Ouse, quasi come house, casa. Virginia Woolf dichiarava “sento sulle dita il peso delle parole come fossero pietre”. Era perché le parole avevano perduto il loro peso che ha avuto bisogno di mettersi pietre nelle tasche, per obbligarsi a far tacere l’aria – quella stessa aria che riempie la sua prosa. Far arrivare qualcosa che sia reale. Lasciarsi andare a fondo, to sink, termine così vicino a to think, pensare.
Nei testi di Virgiinia Woolf vi è una forte coscienza dell’irreversibile. L’evento che, scivolato tra gli altri si svolge su uno stesso piano, è un bombardamento intimo. “Non c’è più un pubblico” scrive nel suo diario. Lei scava in ciò che resta della casa di Londra bombardata per salvare i suoi quaderni, la vita sociale interrotta, la vita letteraria sospesa. Vi è anche la biografia richiesta dagli amici che non troverà il suo pubblico ma che non è scritta per questo. Roger Fry, pittore amante di Vanessa Bell, sorella di Virginia. Virginia è come un cane da soccorso e riesce in questa prodezza: tornare a cercare l’uomo scomparso e restituirlo alla sua amante. La scrittura, sempre, è l’impresa di resuscitare i morti. Chissà quanta forza ha perduto riportando un fantasma sulla riva dei vivi.
Austen, Brontë, Colette, Duras, Sand, Serraut, Sévigné, Yourcenar. Virginia Woolf (1882-1941) è il nono autore di genere femminile ad entrare ne “La Pléiade”. Su circa 200. La cosa sorprendente è che ci entra senza Una stanza tutta per sé. È come se una casa discografica editasse integralmente i Rolling Stones omettendo Satisfation. L’editore delle opere, Jaques Aubert, spiega come sia stato necessario ridurre a due i tre tomi che le erano inizialmente dedicati. Lui ha privilegiato le opere letterarie che ci vengono proposte nella loro quasi-integralità. Abbiamo capito che stiamo attraverso una crisi, ma se persino “La Pléiade” si invischia con il realismo economico bisogna credere che la crisi sia veramente grave. I lettori di Virginia Woolf – che mi sembrano numerosi e abbastanza motivati – si sarebbero imbizzarriti all’idea di investire in un terzo tomo? Mi si obietterà che fare tante storie è fuori luogo, che la lettura dei classici letterari della signora Woolf – da Gita al faro a Tra un atto e l’altro – dovrebbe già essere sufficiente a placare la nostra sete di una Virginia Woolf su carta india. I due volumi, infatti, permettono di (ri)scoprire, in nuove traduzioni, numerosi testi: penso a Flush, biografia di una poetessa scritta dal punto di vista del suo coker. Vi si trovano ugualmente l’essenziale dei racconti dell’autrice.
Però preferisco l’utopia, preferisco immaginare che i pro-woolfiani e le pro-woolfiane si ritroveranno, in questa primavera, davanti alla casa editrice Gallimard a reclamare il terzo tomo. Quello delle opere non letterarie – quello di Una stanza tutta per sé, del carteggio con Vita Sackville-West e de Le Tre ghinee, quest’ultimo saggio redatto nello stesso periodo de Gli anni e che si apre su questa domanda che ci concerne direttamente: “Come secondo voi possiamo impedire la guerra?”. Il terzo tomo, quello de L’arte del romanzo, del Diario di una scrittrice.
Questa faccenda dei tre tomi ridotti a due funziona ancora peggio se si pensa che la Woolf è precisamente la non classificabile per eccellenza. Cerca, infatti, di inventare per i suoi testi altre definizioni rispetto a “romanzo” e che rifiuta di separarlo dalla poesia. Una che i confini li confonde. Scoprire notizie non raccolte dall’autrice da viva, è già qualcosa, dovremmo accontentarci. Ma anche no: Woolf ha diritto al suo terzo tomo. Se non altro per ricordare che, contrariamente all’idea che a volte ce ne facciamo, non è un’autrice apolitica, separata dal mondo, e non ha niente di etereo – anche quando la sua prosa somiglia a un lungo viaggio in mongolfiera, da dove si ha contemporaneamente una visione d’insieme e il dettaglio di ogni azione, sensualità di ogni pensiero. Né vaporosa, né difficile da leggere. Chiunque, senza nessuno strumento critico né formazione letteraria, può arrampicarsi sul vascello Woolf. Lo specifico della sua prosa è che si percepisce più di quanto non si decifri. Virginia Woolf desiderava credere che a partire dal 1910 la letteratura sarebbe cambiata completamente e, per questo, la sua impresa è formalmente inedita – ma i nostri cervelli contemporanei captano la sua messa in parole con una stupefacente facilità. Forse perché lei trasforma i nostri neuroni in epidermide – i nostri pensieri diventano corpi tra le sue pagine.