Elisabetta Rasy
Nel corpo multiforme e contraddittorio del Novecento letterario italiano brillano, nella mia personale costellazione di preferenze, tre stelle anomale per genere, forma, contenuti. Non sono né romanzi né racconti né poemi: sono tre scritti autobiografici, molto diversi uno dall’altro, di tre donne anch’esse diverse tra loro, salvo un solo involontario ma fondamentale apparentamento. Il primo è Lettere a Mita, l’epistolario che raccoglie le lettere che Cristina Campo a partire dal 1955 scrisse all’amica Margherita Pieracci, sorta di romanzo di una donna inquieta cui stavano strette le parole d’ordine della femminilità benpensante come quelle della trasgressione alla moda, una donna piena di emozione che si fanno pensieri. Un altro è formato da due testi gemelli di Anna Maria Ortese, Attraversando un paese sconosciuto e Dove il tempo è un altro (raccolti in seguito in Corpo celeste) scritti molto più tardi, nel 1980, ma tutti rivolti all’indietro, a quella creatura «di rischio e di speranza», esule nello spazio e nel tempo, «bestia che parla» come si definisce, che era stata la scrittrice per tutta la sua vita. Il terzo è il Diario 1938 di Elsa Morante, annotato su un quaderno di scuola a quadretti, che si apre alla data 19 gennaio di quell’anno e si conclude circa sei mesi dopo, il 30 luglio. Di queste tre opere, che si tengono in perfetto equilibrio tra la confessione e la narrazione, tra l’autoritratto e il racconto del mondo con quella ustionata sensibilità che spinge a vedere aldilà della cronaca e della testimonianza, la più singolare, per molti aspetti, è quella di Elsa Morante.
Quest’anno ricorre il centenario della scrittrice, nata a Roma il 18 agosto 1912 in una famiglia sghemba e irregolare come quelle che appariranno nella sua opera (l’uomo di cui porta il cognome non è suo padre ma il marito di sua madre, che invece l’ha avuta da un altro, come tutti i fratelli che seguiranno). Quando scrive il Diario, a 26 anni, da tempo è andata via da casa per dedicarsi alla scrittura che per ora consiste in piccole collaborazioni giornalistiche, raccontini, feuilleton. Ma al centro di quelle pagine concepite come un piccolo libro (c’è un titolo: Lettere a Antonio, due epigrafi, Dante e Calderon, e una specie di sottotitolo Libro dei sogni) non ci sono apparentemente le sue ambizioni letterarie: è innamorata di A., cioè di Alberto, cioè di Moravia, che circola nelle cinquantasette facciate del quaderno come un dio sprezzante, ma il centro è un altro. Il centro, la materia del libro, sono i suoi sogni, nei quali le figure del presente appaiono sempre in un «luogo ignoto e noto» dove è finalmente possibile intendere la loro realtà, perché la realtà è comprensibile solo se tra sogno e veglia non c’è distinzione. Unicamente in questo modo, infatti, la realtà si trasforma in quella speciale circostanza dello sguardo che è la visione, che non è una fluttuante e fantasiosa sfocatura ma un’intensificazione della vista, ciò che permette di intendere il mondo nella sua essenziale verità. Del tutto involontariamente questo libretto è anche una dichiarazione di poetica, o, più precisamente, la profezia dei romanzi che verranno. Di lì a poco Elsa, che frattanto ha sposato il personaggio A. del Diario, comincia a lavorare al suo primo romanzo Vita di mia nonna, che diverrà, scavalcando le vicessitudini della guerra, Menzogna e sortilegio, pubblicato nel 1948 e premiato quello stesso anno a Viareggio. Seguiranno, molto distanziati nel tempo, solo altri tre romanzi: L’isola di Arturo, Premio Strega nel 1957; il controverso e popolarissimo La Storia, imprevisto bestseller che esce nel 1974; infine, meno apprezzato degli altri, Aracoeli, che appare nel 1982, tre anni prima della morte dolorosa e solitaria della scrittrice in una clinica romana, a giugno del 1985.
Se ho messo insieme queste tre opere autobiografiche di scrittrici molto diverse una dall’altra (anche se Cesare Garboli in testi morantiani imprescindibili sostiene, a mio avviso sbagliando, che Ortese nasce da Morante, e anche se Morante e Campo erano unite da una stessa devozione per l’allora pressochè da noi sconosciuta Simone Weil), è perché un tratto fondamentale le accomuna, un tratto che proprio l’autrice di Menzogna e sortilegio incarnerà alla perfezione: un altero anacronismo, un essere fuori – più che un tirarsi fuori – dai richiami del momento, dalle mode, dalle parole d’ordine, dal dominio dell’attualità che una guerra feroce prima, poi un febbrile dopoguerra, tendevano a imporre. Lo incarnerà almeno fino al 1968, quando, come dice Garboli, finisce quel «gioco segreto» con la letteratura che fino allora era stata la sua stregonesca e capricciosa e illuminata dimensione: finisce con Il mondo salvato dai ragazzini e poi con La Storia, il suo libro più discusso, che a molti parve un capolavoro e ad altri sguardi, compreso il mio, un grandioso fallimento. Anche se poi a me pare che con Aracoeli il gioco segreto riprenda, mentre torna la prima persona, torna la voce disperata ma imbevuta di desiderio e ardore che aveva disegnato i personaggi di Elisa nel primo romanzo e del ragazzino Arturo nella sua isola. Ha ragione Garboli quando scrive che «Non esiste in tutto il Novecento letterario italiano un autore più odiosamato, più letto e più avversato della Morante». E quando dice che c’è una spaccatura nella stessa scrittrice, un prima e un dopo nella sua vita di autore, un momento in cui smise di lavorare «arruffata e indemoniata come una strega» ( o anche «più fiera e capricciosa» di un ragazzo) e, scendendo nelle strade, «prestò ascolto a un richiamo sociale e politico che a quel tempo era una ragione di vita», fino a ripensarsi, a immaginarsi «come un vate, un maestro». Come quel vate, quel maestro, o maestra o «matrigna» (sempre Garboli), seducente e allarmante che appare oggi negli scritti che un gruppo di giovani scrittrici le ha dedicato sul numero di «Nuovi Argomenti» a lei intitolato, un po’ intimidite e quasi obbligate a trattarla come un oggetto di culto. Ma cent’anni dopo la sua nascita forse si può ripensare Elsa Morante fuori dal culto, dalla contesa fra «gli insofferenti e i sedotti», e forse anche fuori da Garboli, che fu suo amico e che di tale culto, con il suo speciale acume critico, fu il massimo officiante. Intanto, e in primo luogo: per chi non è uno storico della letteratura, per chi non ha problemi di collocazioni, tendenze, filiazioni, insomma per il comune lettore, che anni formidabili per la letteratura italiana furono i nostri Cinquanta. Qualche titolo: nel 1953 esce Casa d’altri di Silvio D’Arzo, che molti, me compresa, considerano il più bel racconto del nostro Novecento, sempre nel 1953 c’è Il mare non bagna Napoli di Ortese e Le lettere da Capri di Soldati, nel 1956 Le cinque storie ferraresi di Bassani, nel ’57 esce il più memorabile dei racconti della trilogia di Calvino, Il barone rampante, senza dimenticare che all’inizio di quel decennio, nel ’51, entra in scena Parise con Il ragazzo morto e le comete e alla fine, tra ’58 e ’59, La Capria sta scrivendo Ferito a morte, e l’elenco potrebbe continuare. La Morante dei primi libri vive in questo incantato giardino di storie e di scritture, ne fa parte. Ne fa certo parte a sé. Scrive Alfonso Berardinelli, nel bel saggio che le ha dedicato in Casi clinici, della “intemporalità” di Menzogna e sortilegio: «Nessuno si aspettava un tale libro». Per temi, per lingua, per costruzione sembrava che la cupa favola raccontata dalla protagonista Elisa non fosse contemplata né autorizzata dalle circostanze storiche e culturali che l’Italia stava vivendo. Lo stesso Garboli dice che Elsa ignorava la modernità.
Ma questo è vero se si ha della modernità l’immagine che la modernità ha divulgato di se stessa e che forse avevano i lettori disorientati di quel primo romanzo morantiano: un’energia protesa in avanti, compattamente, contro le superstizioni e le ingenuità del passato. Così la modernità l’ha soprattutto pensata e voluta pensare il Novecento. Ma non era vero, in generale, e qui da noi in particolare. È bastato che finisse il secolo breve per accorgersene: la modernità, quella novecentesca in specie, è stata un tempo pieno di ombre, pieno di contraddizioni, pieno di nuove superstizioni che urtavano contro le antiche, la lotta tra un’immaginazione del mondo e un’altra, tra un immaginario e un altro. L’Italia che racconta Elsa Morante è precisamente questo: la sua intemporalità è l’irruzione costante di un tempo circolare, dove tutto torna, nel tempo progressivo del divenire storico, dove tutto cambia. Ed è anche il ritratto fedele di un Paese spensieratamente quanto disperatamente affamato di vita, strambo e fantasioso, non ancora messo a norma dalle regole del benessere, un Paese abitato da fantasmi invincibili che non hanno bisogno di storie gotiche per manifestarsi. E i fantasmi non invecchiano, anche nel terreno spinoso in cui si allacciano i rapporti col sesso femminile di Elsa, sempre ostile a divisioni e definizioni di genere, sempre sprezzante verso una letteratura «da harem», ingiusta probabilmente come quando attaccava e derideva il termine poetessa, rivendicando a sé e ai suoi altri Felici Pochi di qualunque forma anatomica il termine poeta.
Ma se i problemi della condizione femminile del suo tempo non trovano posto nei suoi romanzi, ciò che ha scritto parla di quello che persino Freud ha definito il mistero delle donne – l’enigma del loro desiderio – con più precisione e intramontabilità di quanto non facciano le opere di autrici che si volevano volenterose testimoni di un presente diventato poi velocemente passato, penso, tanto per fare un esempio, a Quaderno proibito di Alba de Cespedes che uscì nel 1952. Se c’è una linea femminile nella letteratura – e io, a differenza di Elsa Morante, penso che ci sia – ogni autrice piuttosto che madre dovrebbe, come lei, essere matrigna per le sue discendenti, autorevole e scostante, esemplare e inimitabile. Piuttosto consiglierei a tutti quelli che mettono le mani in pasta, cioè nella pasta impervia della scrittura romanzesca, la lettura delle poche pagine, più che moderne, che Morante dedicò al romanzo rispondendo a un’inchiesta di «Nuovi Argomenti» nel 1959. Non si lascia condizionare dall’attualità, intimidire dai dibattiti in corso, richiamare all’ordine dalle definizioni correnti, dribbla sapientemente il qui e ora. «Non c’è cosa più irreale (e anzi spettrale) di una cosa “ripresa dal vero”», scrive. Ma il punto importante è un altro, è la natura dello sguardo, la sua intenzione, il suo intendimento. E la sua formula è assoluta: nel lavoro del romanziere «la realtà corruttibile dev’essere tramutata in una verità poetica incorruttibile». Non è una questione letteraria, neppure etica, ma di sopravvivenza: «Il mondo vivente si ridurrebbe a un campo di maledizione e di sterminio se gli uomini cessassero di riconoscere dei simboli di verità poetica nelle cose reali».