Sandra Petrignani
«Io ho, poi, guardato ancora una volta dal treno, anche tu ti sei voltata a guardare, ma io ero troppo lontano»: è il 9 dicembre del 1957. Paul Celan scrive questa lettera a Ingeborg Bachmann e dice tutto del loro rapporto, la sintonia, la vicinanza e l’impossibilità di stare insieme. Lui è «troppo lontano» perché è lontano da tutto, ferito in modo inguaribile. Non c’è amore, amicizia, matrimonio che possa sanare la sua colpa: è sopravvissuto allo sterminio degli ebrei. Suo padre, sua madre sono morti in un lager. Lui è riuscito a fuggire e ha lasciato per sempre la terra delle origini, la Romania. Al tempo di quella lettera Ingeborg e Paul sono già due fra i più grandi poeti della loro generazione. Lei ha 31 anni, lui ne ha appena compiuti 37. Sono insieme per la seconda volta nella vita, anche se Paul, cinque anni prima, a Parigi, dove si è definitivamente trasferito, ha sposato la pittrice Gisèle de Lestrange da cui ha avuto un figlio. La prima volta era stato nel ’48 a Vienna. Ingeborg aveva poco più di vent’anni, era una giovane donna romantica (ne resta testimonianza in un’altra breve raccolta di lettere al suo primo amore, Lettere a Felician, edita da Nottetempo come l’appena uscito Troviamo le parole, epistolario fra Ingeborg Bachmann e Paul Celan). Ma il loro è un amore impossibile, «uno dei più drammatici capitoli della storia della letteratura» scrivono i curatori Hans Höller e Andrea Stoll e, per quel che riguarda la Bachmann, una storia d’amore «non ancora ricostruita con rigore e coerenza in tutto il suo spessore storico-letterario» proprio alla luce dell’enorme influenza che su di lei esercitò la poesia di Celan (e fu vero anche il contrario: se non riuscirono ad amarsi sulla terra, il legame fra i due si sviluppò sotterraneamente in un riconoscibile contrappunto che affiora nelle opere). Forse nuova luce verrà da un convegno e da una mostra documentaria e fotografica che si terranno nei pomeriggi di oggi e domani a Roma in Villa Sciarra-Wurtz, al Gianicolo. Spiega Ginevra Bompiani, editore della Nottetempo, che farà domani un intervento al convegno: «Hanno sicuramente pesato moltissimo l’uno nella vita dell’altro, e non solo da un punto di vista letterario. Però erano due personalità molto fragili, che non riuscivano a sostenersi reciprocamente. E infatti poterono avere relazioni più durature lui con Gisèle, lei con lo scrittore Max Frisch, che erano caratteri ben più saldi». Non è un caso che, quando quelle storie finirono, Paul Celan si suicidò gettandosi nella Senna (il 20 aprile 1970) e Ingeborg Bachmann (1962) cominciò a inanellare ricoveri in una serie di cliniche per malattie psichiche sviluppando per il resto della sua vita una forte dipendenza da alcol e psicofarmaci. RELAZIONI, DISCUSSIONI, MALEDIZIONI Avendo conosciuto a Roma la Bachmann negli anni sessanta, Ginevra Bompiani ha molti ricordi personali della scrittrice austriaca. «La sua fragilità, l’assoluta inadeguatezza per la vita pratica ti colpivano subito in lei. Ma insieme era circondata da un’aura che, anche a non aver letto un rigo della sua opera (non era ancora tradotta in Italia), coglievi al volo. Era delicata, timida, ma anche molto socievole. Un giorno andai a trovarla nel suo appartamento di via Giulia, con Giorgio Agamben (era la fine di gennaio del ’67), e la trovammo stravolta: «Un mio amico ha tentato di suicidarsi» ci disse. L’amico era Paul Celan. Prima di tentare il suicidio aveva aggredito e tentato di uccidere Gisèle (e avrebbe provato a rifarlo anche due anni dopo). Paul e Ingeborg non si sentivano più dal ’63, quando la grave paranoia che lo affliggeva aveva coinvolto e distrutto anche i rapporti più profondi. Un’assurda vicenda di plagio, di cui era stato ridicolmente accusato, e alcune recensioni negative in cui aveva scorto l’eco dell’antisemitismo, erano nel suo delirio diventati il segno di un generale complotto contro di lui. Il fatto che amici come Ingeborg, Frisch, Heinrich Böll e altri cercassero di farlo ragionare e non prendessero sempre e comunque le sue difese si trasformò ai suoi occhi nella prova di un imperdonabile tradimento ai danni della Poesia e della Memoria per inseguire il successo personale. E i ripetuti tentativi della Bachmann di giustificarlo e schierarsi sia pure debolmente dalla sua parte, dovettero gravare pesantemente persino sulla relazione con il compagno, Max Frisch, minandone una sempre complicata convivenza. Di tutto il caotico intrigo di relazioni, discussioni, tentativi di recupero, maledizioni, allontanamenti si coglie un poderoso, avvincente riflesso nel libro Troviamo le parole. E qualcosa anche in un altro libro, tradotto da poco dalla Guanda, La follia dell’assoluto. Vita di Ingeborg Bachmann, di Hans Höller, che più di una biografia, è una precisissima ricostruzione dei temi principali dell’opera di Bachmann nel loro rapporto con i fatti della vita. Fatti sentimentali, politici, storici. Il peso che sugli scrittori tedeschi e austriaci del dopoguerra ebbe il cosiddetto «complesso dei padri» compromessi col nazismo, il profondo senso di colpa di essere, sia pure innocenti, eredi di una tradizione «colpevole». Una generazione che cercò di ritrovarsi, senza sempre riuscirci e pagando un prezzo in molti casi altissimo, nella lingua tedesca comune. Scriveva Paul Celan nel 1958, in un discorso a Brema, in occasione di un premio letterario: «Raggiungibile, vicina e non perduta in mezzo a tante perdite, una cosa sola: la lingua». E, come sostiene Höller, anche la Bachmann cercò sempre «di salvare una patria nella parola». A costo di perdere se stessi. Nella notte fra il 26 e il 27 aprile ’70, Ingeborg si addormentò con la sigaretta accesa e prese fuoco. Aggravò l’incidente gettandosi nella vasca da bagno riempita d’acqua fredda. Si spense il 17 ottobre. Morte accidentale o forse, una specie, anche il suo, di dilazionato suicidio.