Filosofia e romanzi, nell’opera a due versanti di Iris Murdoch la stessa scommessa artistica e politica, il lavoro dell’immaginazione che salva la realtà e apre a nuovi esiti. Come nel libro «Sotto la rete»
Luisa Muraro
Iris Murdoch (1919-1999) fu filosofa e romanziera di lingua inglese. Non è vero quello che si è raccontato di lei, che prima fu filosofa e che poi, pentita, sarebbe passata alla letteratura. L’errore è dovuto, credo, alla circostanza che la prima cosa da lei pubblicata, nel 1953, fu un saggio su Sartre, mentre il suo primo romanzo, Under the Net (da poco uscito in italiano, Sotto la rete, trad. di Argia Micchettoni, Rizzoli), apparve un anno dopo. Ma negli anni quaranta lei aveva già scritto due o tre romanzi, senza fortuna editoriale. Iris ha «sempre» scritto romanzi e ha «sempre» pensato, parlato e scritto di filosofia, voglio dire che non c’è un inizio separato per le due scritture, quella narrativa e quella ragionante, e neanche una fine. Io le vedo come i due versanti di un’unica pratica segreta. Ma, attenzione, sono versanti asimmetrici, tant’è che chi legge i suoi romanzi può tranquillamente ignorare gli scritti di filosofia, mentre non vale il viceversa, vedremo perché. I lettori-lettrici del manifesto, sicuramente ricordano la bella recensione che Graziella Pulce ha dedicato a Sotto la rete («Le palline di Iris», Alias 12 marzo). Il testo finisce parlando di una stagione, culturale e storica, che si annunciava irriconoscibile a se stessa e intimamente discorde. Queste ultime parole caratterizzano anche il pensiero di Iris e forse la sua stessa personalità. Di ciò parla l’asimmetria che dicevo. La incarna anche la «coppia» protagonista di questo romanzo, Hugo che insegue la haecceitas (il qui-ora della realtà individua) come unica verità possibile ma indicibile, e Jake, che ammira Hugo ma lo fugge così come fugge dalla contingenza («I hate contingency»). Nei romanzi successivi non troveremo più una così appariscente intrusione della filosofia come in questo romanzo, fin dal titolo (una citazione di Wittgenstein), ma la presenza di coppie di contrari che s’incalzano senza arrivare ad alcuna sintesi, questa resta una caratteristica dell’opera di Iris Murdoch, romanzi compresi. Anzi, i romanzi danno a quest’ambiguità un diritto di città che la filosofia non offre volentieri.
L’erronea credenza che ho citato in apertura, ha qualcosa di vero, dunque, e cioè che c’è un punto in cui, per Murdoch, la filosofia s’interrompe e bisogna mettersi a pensare in un altro modo. La fiction, per Iris Murdoch, è lavoro dell’immaginazione che salva la realtà, perché, mentre ci fa uscire dalla rete delle generalizzazioni, ordinatrice del reale ma sostanzialmente vuota, ci aiuta a non perderci nella casualità delle nostre vite. Di noi si tratta, infatti, della nostra lotta contro l’irrealtà, e di metterci praticamente in condizione di vedere gli altri, vedere che sono reali, per essere reali noi stessi. La scoperta della realtà degli altri è l’esito della vicenda di Jake in Sotto la rete: «Anna really existed», egli si dice alla fine, così come scopre che esisteva anche il taciturno e servizievole Finn. Lo scopre nel momento in cui, con sorpresa, non se lo ritrova più al fianco. Dov’è finito? Dove sempre gli aveva detto che voleva andare, nella sua Irlanda cattolica, senza ottenere il minimo credito da parte di Jake, ancora troppo involto in se stesso.
Devo avvertire che questa mia lettura del romanzo non sembra condivisa da chi lo legge senza preoccupazioni filosofiche, a giudicare almeno dalle recensioni. Io lo leggo come un romanzo del moral change, del cambiamento morale (tipo Resurrezione di Tolstoj, fatte le debite, cospicue, differenze). Qualche recensione, è vero, parla di romanzo di formazione, e Graziella Pulce vede bene che la caotica trama non si sviluppa a caso, poiché tutto comincia con la fuga di Jake da Hugo. Ma nessuno parla di un progresso morale per la storia di Jake. Fa eccezione Antonia Byatt, in una recensione che risale al 1965, guidata non a caso anche lei dagli scritti filosofici.
Penso che questa discrepanza nelle diverse letture del romanzo, debba restare non sanata. C’entra, infatti, quella che ritengo una scommessa che sottende l’opera di Iris Murdoch, riguardante la libertà, una scommessa artistica e politica insieme che deve restare aperta.
Negli scritti filosofici, lei non si sofferma molto ad esporre la propria idea della libertà mentre insiste nel criticare le concezioni correnti. Critica quella liberale (della filosofia analitica inglese) perché immiserisce la libertà riducendola a un giro di shopping, trova che quella esistenzialista sia enfaticamente fissata sulla «scelta», mentre a quella hegeliana e marxista rimprovera l’orrore per la contingenza e la rincorsa della cosiddetta «necessità storica». Ma questa sua apparente reticenza, secondo me, è una schivata, paragonabile alla mossa che fanno gli animali inseguiti per uscire dalla traiettoria dei predatori. Così lei fa con la sua filosofia della libertà, che è nuova nel panorama della storia delle idee, come tutta la sua filosofia, secondo me. La sua idea della libertà la troviamo spostata sul terreno della sua esperienza di lettrice e scrittrice, sotto forma di un problema che le è peculiare, quello della creazione di personaggi che siano liberi, liberi nel loro mondo inventato e, ancor più (ma le due cose si tengono), indipendenti dall’autore che li ha creati. Oltre che scrittrice, Iris fu anche grande lettrice di fiction; fra i suoi autori prediletti, ci sono Shakespeare, Jane Austen, George Eliot, Tolstoj, Proust. Uno può pensare che, in questo elenco, George Eliot sia il nome che non c’entra e perciò da depennare, come si fa in certi giochi della «Settimana enigmistica». Iris non è d’accordo e la sua replica è quanto mai illuminante. In polemica con il poeta Eliot, scrive con accento insolitamente vivace: è imperdonabile che lui emetta un giudizio negativo su George Eliot, una scrittrice che «mostrò la quasi divina capacità di rispettare e amare i suoi personaggi al punto da farli esistere come esseri separati e liberi». (Cito da Esistenzialisti e mistici, in corso di stampa presso il Saggiatore.)
La nostra domanda allora è questa: quale rapporto fra l’arte di creare simili personaggi e la libertà, intesa come realizzazione di umanità e principio politico? Risponde la filosofa che una società che può produrre grandi romanzieri e apprezzarli, è una società nella quale fioriscono l’amorevole tolleranza (a lei non basta dire «tolleranza») e il rispetto per l’esistenza di altre persone anche molto diverse da sé, con tutto ciò che questo implica di libertà interiore. È una risposta importante, ma il nesso tra le due libertà si può formulare, proprio in base al suo pensiero, anche in altra maniera, meno realistica, non mediata dalla figura sociale del romanziere, una maniera più diretta e simbolica che consiste nel fare del lavoro dell’immaginazione, per se stesso, un agire morale e politico che, come una vera e propria schivata, ci fa esistere altrimenti e altrove, fuori dalle traiettorie del potere che ci condiziona da fuori e da dentro.
Chi ha visto il film di Abdellatif Bechiche che porta proprio questo titolo, La schivata (L’esquive), non ha difficoltà a intendere ciò che dico. Il film, ambientato nella cintura parigina, in un quartiere d’immigrati arabi, racconta i conflitti amorosi e amicali di un gruppo di adolescenti, maschi da una parte, femmine dall’altra, impegnati a mettere in scena una pièce di Marivaux. Il film è esso stesso una schivata, dell’autore che non si dedica a denunciare come si vive nelle periferie del mondo, e racconta invece una storia di giovanissimi, dove anche per loro si tratta di non farsi trovare sulla traiettoria di chi o di ciò che può schiacciarli o annullarli, dalla polizia ai luoghi comuni. Così, messi fuori da ogni stereotipo, quello razzista e quello militante della sinistra, noi li vediamo esistere realmente.
È la scoperta di Jake, nel corso del suo cammino a zigzag. Per Iris Murdoch questa scoperta – che gli altri esistono – è libertà, e l’arte di farli esistere, nel nostro sguardo, nel nostro cuore, così come sulle pagine di un romanzo o nelle immagini di un film, è «lotta per la libertà»: la mia, la loro. L’arte di creare personaggi liberi diventa così figura del lavoro simbolico che ci rende liberi (la pratica segreta di Iris…) ed è, insieme, via concreta di questo cambiamento, il lavoro dell’immaginazione essendo il modo per uscire dalle traiettorie più prevedibili. Prevedibili da chi? Dal potere, ho scritto sopra. Ora aggiungo, ed è quasi la stessa cosa: e da noi stessi con le nostre fissazioni e con la povertà delle nostre rappresentazioni. Uscirne per fare posto ad altro, agli altri, fra i quali uno, una potrà riconoscere anche se stessa per una specie di libera alienazione di sé.