Franco Serpa
“Hildesheimer mi portò a un incontro, che si teneva al castello di Berlepsch, vicino a Gottinga, alla fine dell’ottobre 1952, del Gruppo 47. Tra le molte personalità illustri che si erano riunite quel giorno, vi erano quasi esclusivamente uomini […]. Ma era presente anche un essere incantevole, con grandi occhi magnifici, ciglia tremanti e mani splendide, la cui aura emanava sensibilità, la qualità in persona, una creatura di pura grazia e fascino, come se fosse nata da un usignolo” (H.W. Henze, Canti di viaggio. Una vita, li Saggiatore, 2005). “Cara signorina Bachmann – non la rivedrò mai più? Lunedì mattina parto per Colonia, se vuole, la prendo con me. Telefonerò nuovamente. Le Sue poesie sono belle, e tristi, ma gli stupidi, persino quelli che si danno l’aria di “capirle”, non le capiscono. Adieu Suo hwh” (lettera, 1 novembre ’52).
Sono queste righe il ricordo di Henze del suo primo incontro con Ingeborg Bachmann, e poi la sua prima lettera, scritta a lei qualche giorno dopo quello incontro. Il ritratto della Bachmann nel ricordo giovanile di Henze è luminoso e perfetto, come sa chiunque abbia avuto il privilegio di conoscerla. Detto in breve, lei aveva, e donava subito al primo incontro, grazia e umanità inattese: che era il modo, per lei naturale, di preparare gli altri alla sua geniale intelligenza. Anche Henze, come doveva accadere, ammirò in lei, subito, l’unione di riservata eleganza e di genio, e già in quel primo biglietto avanzò quasi un suo diritto a essere un suo amico scelto “die idioten verstehen nicht; gli stupidi non capiscono”). Come, appunto, avvenne: e meno di un anno dopo Henze e la Bachmann, complici anche l’Italia e Ischia, erano passati al ‘tu’ (lettera di Henze, 24 ottobre ’53).
Si era iniziata in quei giorni di Gottinga e poi nei mesi seguenti un’amicizia alta, che durò ventun anni precisi, un’intesa tra loro di fede esistenziale e di poesia, di convinzioni civili e politiche, un’alleanza di affetti, infine, tra due artisti di primo ordine. I segni della stima, della simpatia, della delicatezza di sentimenti, che Henze e la Bachmann ebbero tra loro reciproche, e soprattutto della loro operosa serietà e anche del fine buonumore – i segni, dicevo, li abbiamo tutti, o meglio, purtroppo, quasi tutti, nelle lettere che si sono scritte quando erano lontani, pubblicate in Germania nel 2004 e ora in italiano dalla torinese EDT: Ingeborg Bachmann-Hans Werner Henze, Lettere da un’amicizia (a cura di Hans Höller, traduzione dal tedesco di F. Maione, pp. 400, € 29,00): le lettere sono ‘ quasi tutte ‘ perché alcune (o molte?) lettere di lei sono state smarrite nei tre o quattro grandi traslochi che Henze ha fatto (come spiega egli stesso con rimpianto nella ‘Premessa’ al libro). Le lettere di Henze sono 219, quelle della Bachmann solo 33. Lo scarto dipende non soltanto dai traslochi, ma anche dalla angelica lentezza di lei, che spesso attendeva, rimandava, si smarriva (e lo dicevano i suoi “grandi occhi magnifici”, terribilmente miopi). Ma era lei la prima a incolparsi di indecisione e di ‘pigrizia’ e Henze, impaziente e, lui, ordinato e laboriosissimo,la spronava a rispondere alle lettere e a concludere le poesie e i romanzi (B. a H., 31 dicembre ’55: “Cerco di sbrigare un sacco di cose, non è davvero molto, ma sono cose che mi costano fatica e i dubbi, quando scrivo, talvolta si ingigantiscono al punto che in certi giorni non riesco quasi ad andare avanti”; B. a H., 23 marzo ’58: “E adesso sono di nuovo qui (a Berlino, dove aveva ascoltato per la prima volta il Re Cervo di Henze, con ammirazione) e medito sulla mia vita con lo sguardo al lavoro, perché mi accorgo sempre di più di quanto poco è stato fatto e il Re Cervo e altro ancora mi hanno dato sempre da pensare e mi sono vergognata, pigra e indolente come sono stata spesso”; oppure H. a B., 26 marzo ’57: “Lavora, lavora, disciplina!” e 18 novembre ’66: “Spero che sei stata brava e hai lavorato diligentemente, nonostante le tempeste. Ho pensato spesso a te e mi sono chiesto se lavori come mi aspetto e desidero, perché desidero e intendo leggere presto un buon libro. Su datti una mossa. Per Natale deve essere pronto e già da Piper. E poi gli altri due volumi. Se no pian piano finisci nel dimenticatoio! Perciò sono molto in ansia e felice al solo pensiero”). E ci sono non solo le tante espressioni di attenzioni, preoccupazioni, sollecitudini private ma anche alcune notizie, da lei e da lui, di incantevoli civetterie e vanità in una donna di tale rango intellettuale: lo stile e l’umanità di entrambi ne hanno ulteriore ricchezza.
Come abbiamo appena visto, Henze e la Bachmann si scrivevano oltre che in tedesco anche in italiano (e quando erano in Italia lo parlavano quasi sempre), in francese, in inglese. È stata, credo, una tacita alleanza tra loro, quella di non voler ‘pensare’ solo in tedesco e di tenersi familiari e propri i modi, i pensieri, i caratteri spirituali di tutti i paesi. Ci fu in ciò anche una certa intesa snobistica, una compiaciuta pratica cosmopolita (e un’insofferenza antitedesca), soprattutto nei primi anni dell’amicizia, ma poi la felice prontezza nel ritrovarsi in ogni lingua divenne in loro perfettamente naturale. Naturale al punto che qualche lettera di contenuto personale, serio, e soprattutto doloroso (i pochi, lacerati riconoscimenti che ei fa del suo amore impossibile sono capolavori di autenticità, che varrebbero già essi soli tutto il libro) è scritta in italiano. Do pochi esempi, che vorrei inducessero a leggere questo libro straordinario.
B. a H., 17 agosto ’56: “Se non sapessi che ti spavento, ti direi ancora una volta che io t’amo. Ma questa volta non debbi sentire un peso o obbligo. Lo dico per darti questo bel niente che posso ancora darti, almeno per distruggere un pensiero come il tuo ultimo”, e un anno dopo, fine aprile ’57: “se avrai questa lettera – così cominciano spesso le lettere prima del suicidio, ma la mia non è di questo genere, magari una di vivere e qualcosa mi dice che sarai tu a comprendermi, questa decisione insolita che mi conduce non so quanti kilometri da qui. […]Non è soltanto passione che mi spinge a questa decisione, ma molto di più, è se vuoi passiossione, ma in se una comprensione del vuoto che ho sofferto qui e che soffro artisticamente.
[…]Ti amo ancora, ma lo farei sempre, ma è un altro amore, quello che non conosce Zweifelssorge [ansia del dubbio], puro e quello del fratello …”. La (probabile) risposta di Henze a una così penosa ammissione è una lettera angosciata e stranamente contorta, stesa in tedesco e in italiano e alla fine in italiano e in inglese, a righe alternate! E dice cose esasperate, dure a stesso, bellissime.
Henze e la Bachmann hanno collaborato per Der Idiot (mimodramma, con un monologo del principe Myshkin scritto da I.B., 1953, poi Paraphrasen Über Dostojewsky 1991), Nachtstücke und Arien (tre Notturni sinfonici e due Arie su poesie di I.B., 1957), Der Prinz von Homburg(adattamento del dramma di Kleist fatto dalla B. per la musica di H., 1960), Der junge Lord (uno squisito libretto della B.,1965), Lieder von einer Insel (cinque Fantasie corali su poesie di I.B., 1967). Della loro collaborazione artistica da questa raccolta si ottiene poco perché in quasi tutti i casi, se ebbero da riflettere e da discutere, lo fecero di persona nei lunghi periodi di vicinanza (la Bachmann abitò a Roma in diverse occasioni, anche per anni) e anche di convivenza (prima a Ischia, poi durante i giorni in cui la Bachmann era ospite nella villa di Marino). Poteva essere un epistolario più magro, certo, di quello tra Strauss e Hofrnannsthal, ma di interesse non troppo minore per le questioni del teatro musicale moderno, almeno per il fatto che Henze e la Bachmann si sono bene intesi e amati, cosa che non fu per quei due sommi.