Mario Baudino
Lo ha scritto in un breve saggio, anni fa: “Un racconto non e’ una strada che ci si mette a percorrere, e’ una casa. Ci entri e ci rimani per un po’, andando avanti e indietro e sistemandoti dove ti pare, scoprendo i rapporti tra camere e corridoio, e come il mondo esterno viene alterato se lo si guarda da queste finestre”. E’ un’immagine perfetta del suo modo di lavorare, e anche del suo pensarsi in quanto scrittrice. ALICE MUNRO e’ la regina della short story, del racconto magari anche lungo, ma pur sempre di quel genere letterario piuttosto difficile che in Italia pare avere poca cittadinanza. Sara’ per questo che finora non aveva mai varcato i confini del nostro Paese, dove sono passati tutti, ma proprio tutti tra festival, premi e vacanze private gli scrittori internazionali? Non proprio. Einaudi ha tradotto i suoi libri piu’ importanti, da Il sogno di mia madre al recente Segreti svelati, storie di donne soprattutto, donne alle prese con svolte decisive. Lei, che di svolte ne ha avute, e’ persona schiva, molto legata a Clinton, paese di tremila anime nell’Ontario dove trascorre sei mesi all’anno. Semplicemente, aveva sempre declinato gli inviti. E’ venuta invece a Pescara, per il premio Flaiano vinto con Alberto Arbasino e Ismail Kadare’ ( la giuria dei lettori le ha conferito poi il “Superflaiano”) cogliendo di sorpresa i suoi editori e l’agente londinese, ma tenendo fede alla sua estrema riservatezza. Niente interviste, solo un incontro col pubblico; e un vago, cortese sorriso. Settantasette anni domani (auguri), alta e appena un po’ incurvata dall’eta’, ALICE MUNRO e’ da tempo una autorevole cadidata al Nobel, gode di un vasto consenso critico, pubblica sulle riviste piu’ intellettuali del mondo anglosassone come il New Yorker, l’Atlantic Monthly o la Paris Review, rifugge dai media per quanto e’ possibile. E distilla i suoi racconti, spesso dalla forte componente autobiografica – il genere in cui eccelle e’ il “memoir” -, con una secchezza e una precisione che sono figlie del severo mondo protestante dei presbiteriani scozzesi in cui e’ cresciuta. Nel libro con cui ha vinto il Flaiano, La vista da Castle Rock, lo racconta attraverso la storia della sua famiglia, i Laidlaw (MUNRO e’ il cognome del primo marito), venuti in Canada dalla Scozia nell’Ottocento: contadini poveri e austeri, ma grandi lettori della Bibbia, tormentati e “filosofi” a modo loro, permeati da quella cultura che puo’ apparire soffocante ma che ha prodotto, per dire, un filosofo come David Hume. Lei non filosofeggia. Racconta. “E’ un libro un po’ particolare – ci spiega – perche’ mischia la realta’ documentale, ricostruita anche grazie al fatto che nelle varie generazioni della mia famiglia qualcuno ha sempre scritto quel che gli accadeva. Mio padre ha addirittura lasciato un romanzo sull’epopea deli ”pionieri” in Canada. Su questo materiale sono intervenuta con la fiction, l’immaginazione”. Lo ha fatto soprattutto quando parla di se’ bambina, adolescente e poi giovane donna alle prese con un mondo durissimo, che non smette di amare. C’e’ un rapporto ambiguo con i valori contadini? “I valori, anche quelli contadini, anche quelli delle generazioni di immigrati che si sono avvicendate nell’Ontario, cambiano. Tutto cambia. Ma il cuore degli uomini e’ rimasto lo stesso. Per una donna della mia eta’ resta profondo il senso di responsabilita’. Il dovere direi di salvare certe cose”. In questo, la fiction, che poi e’ una “menzogna” letteraria, diventa un problema in una letteratura che ha un cosi’ forte senso etico. E’ un po’ come se affrontando i durissimi antenati, la scrittrice chiedesse loro il permesso di raccontare bugie, come osserva il professor Luigi Sampietro, uno dei critici italiani che piu’ si sono occupati di lei. “In realta’ non e’ un problema di menzogna. Piuttosto non bisogna dimenticare che per lungo tempo in quella societa’ essere ”solo” uno scrittore non era sufficiente. Non sembrava abbastanza, come ruolo. Per una donna, poi: bisognava badare alla casa, innanzi tutto. La scrittura non era ”utile”, e quindi in un certo senso non importante”. In Castle Rock, sulla nave che porta gli emigranti in America, un commerciante scopre che il giovane Walter, uno dei tanti antenati in cerca di fortuna, sta tenendo una sorta di diario di bordo e gli chiede perche’. Lui risponde: “Io scrivo solo quello che capita”. Quel che annota gli serve solo, dice, per mandare poi una lettera a casa. Scrive cose “utili”. “Ed e’ molto protestante – commenta la scrittrice – questo insistere sull’utilita’”. E’ successo anche a lei? “All’inizio non mi ponevo questi problemi. Ma andando avanti con gli anni l’ho sentito come un impegno”. Essere “solo” uno scrittore forse non basta ancora, non basta mai. E’ questo il motore della sue storie “perfette”? Cynthia Ozick, un’altra importante scrittrice canadese, l’ha definita “il nostro Cechov”. Lei Cechov lo ha riletto, ma si schermisce. Scrive racconti perche’ desidera che il lettore “percepisca qualcosa come stupefacente, e non perche’ succede, ma per il modo in cui tutto succede”. Su questo, i suoi severi antenati non avrebbero trovato da ridire.