28 Ottobre 1998
il manifesto

Intervista a Oriella Savoldi

La vostra critica alla democrazia formale sfocia quasi nel rifiuto dei principi e delle pratiche della democrazia rappresentativa. Non ti sembra un azzardo, visto che nel sindacato si stenta persino a praticare il principio “una testa-un voto”?

E’ in crisi tanto la rappresentanza politica che quella sindacale. Diminuiscono le iscrizioni, come pure la partecipazione alle assemblee e ai referendum. Nel mio lavoro di sindacalista io non coincido con l’organizzazione, parto dalla relazione tra donne. Questa pratica, che pone domanda sul senso del lavoro, produce modificazioni, è più efficace di riti sempre più disertati. L’assemblea è un’occasione per ascoltare. Da sola però non basta, vanno inventate altre occasioni di incontro fuori
dal luogo di lavoro.

 

Dilaga la contrattazione individuale, agita sia da donne che da uomini. Un fenomeno positivo secondo il vostro gruppo. Ma se si perde la dimensione del collettivo, che ci sta a fare il sindacato?

 

L’ingresso in massa delle donne, nel lavoro è un fatto dirompente e rivoluzionario che non lascia niente di inalterato. Ha la stessa portata storica del passaggio dall’agricoltura all’industria. La cosa non è riducibile a numeri, a quantità. Le donne arrivano nel lavoro avendo già maturato una presa di coscienza, avendo già cambiato modo di pensarsi. Prima una donna smetteva di pensarsi casalinga soltanto quando diventava operaia o impiegata, adesso non si pensa casalinga a prescindere.
Le donne portano nel lavoro una domanda di senso che modifica anche la contrattazione. Contrattano moltissimo su base individuale e producono modificazioni per loro positive. In parallelo, continua a esserci una domanda di contrattazione collettiva. Io sto in un mondo dove convivono queste due esigenze e non vedo perché debba precludermi l’una o l’altra.

 

Le due cose non vanno insieme: più cresce la contrattazione individuale, meno resta da contrattare collettivamente. Aggiungi il non trascurabile particolare che l’impresa ha tutto l’interesse a frammentare, dividere quel che una volta era unito.

 

Io non la vedo tutta questa grande voglia dei padroni di fare la contrattazione individuale. Ci sono giovani che contrattano al meglio per sé e dopo qualche mese vanno in un altro posto, lasciando il vecchio padrone con un palmo di naso. Questa mobilità per scelta preoccupa i padroni, la contrattazione individuale produce squilibrio. Ecco perché, semmai, spesso sono i padroni a chiedere la contrattazione collettiva.

 

La legge non serve, dite. E’ la pratica tra donne che cambia la realtà e i soggetti. A ben vedere non ne fate una questione sessuata, dite che le leggi non servono neppure per il lavoratore maschio. Di qui il rifiuto delle 35 ore per legge.

 

Si continuano a invocare nuove, regole, nuove leggi. E’ la spia che qualcosa non funziona. La legge non risolve il problema, non doma una realtà che va dalla parte opposta a quella sancita dal diritto. Prendiamo, per esempio, la legge 626 per la sicurezza nei luoghi di lavoro. Ora c’è, ed è una buona legge. Eppure gli infortuni continuano a succedere, le morti bianche non diminuiscono. Diminuiranno soltanto se cambieranno i comportamenti di lavoratori e lavoratrici. E i comportamenti cambiano non per legge, ma se si prende coscienza di sé e dei valore del proprio corpo e della propria salute. Ancora: lo statuto dei lavoratori riconosce il diritto all’assemblea retribuita. Come la mettiamo, allora, con i lavoratori del macello che l’assemblea non la vogliono I
fare per non precludersi la possibilità di fare gli straordinari? Sono gli uomini a fare gli straordinari, mentre le dorme praticano tutte le, forme possibili di riduzione dell’orario.

 

E’ vero: non c’è una spinta dal basso per le 35 ore per legge. Proprio per questo dovresti almeno essere d’accordo con una legislazione che penalizzi gli straordinari, che li faccia costare di più.

Neppure quella funzionerebbe. C’è, una domanda enorme di straordinario in nero da parte di operai. Poiché le fabbriche non si possono militarizzare, la legge sarebbe facilmente aggirata.

 

Per riassumere in una battuta la nostra diversità di opinione direi che a te paiono buone cose che a me paiono pessime e che non riesco a considerare buone solo perché le donne scelgono (ma fino a che punto?) di farle. Detto brutalmente: mi pare che per voi il bene del mercato e dell’impresa coincida con il bene dei soggetti al lavoro.

 

Se si continua a dire che l’impresa sfrutta i lavoratori, se del lavoro si continua a vedere soltanto l’alienazione, non si va da nessuna parte, si continua a piangere. Se, invece, si comincia a pensare che l’impresa è una risorsa per il lavoro, si fanno passi avanti. Certo, il lavoro va interrogato, solo se agisce la domanda di senso si producono trasformazioni, guadagni di libertà. La libertà nel lavoro obbliga sia le donne che gli uomini a ripensarsi. Solo così si ottiene qualcosa anche sul versante della giustizia sociale.

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