Maria Marangelli
Faccio sindacato da anni e verifico intorno a me una povertà di analisi e di pratiche. A giudizio mio e di tanti altri queste pratiche e queste analisi non sanno star dietro alla realtà che cambia. Infatti, nel sindacato, e per di più in ritardo, del cambiamento si coglie solo quello originato dalle riorganizzazioni delle imprese e dalla competizione capitalistica a livello mondiale. Non si colgono i mutamenti nel rapporto con il lavoro, vale a dire la ricerca di senso delle donne e degli uomini nel lavoro. Di questo secondo mutamento si parla come di una realtà soggettiva, ma è giusto? Allora noi proponiamo che tutto il lavoro -sia considerato soggettivo o come causa o come effetto del cambiamento.
Se non si considera quest’aspetto dei senso del lavoro, cioè la realtà umana implicata nel lavoro, se non la si considera con la necessaria attenzione, il lavoro diventa un’entità astratta.
Questo vizio della politica del lavoro l’ho visto e l’ho misurato quando ho incominciato una pratica politica capace di tenere conto della soggettività, che è la pratica della differenza femminile. Intorno al desiderio di ripensare il lavoro, alla luce di questa pratica, si sono aggregate donne che fanno sindacato e che non lo fanno, che hanno un lavoro dipendente oppure autonomo, impegnate in lavori tradizionali oppure nuovi. Noi non vediamo la separazione e tanto meno la contrapposizione tra lavoro autonomo e lavoro dipendente. Più che misurare il prevalere del lavoro autonomo sul lavoro dipendente, ci interessa conoscere e far parlare l’esperienza di lavoro nelle diverse situazioni.
Per questa strada noi vogliamo far venir fuori il significato del lavoro per chi lavora e far venir fuori da qui che cos’è il lavoro, prima che si sovrappongano le definizioni di economisti, giuristi, sindacalisti ecc., la cui intelligenza teorica e pratica è preziosa se viene seconda rispetto alla ricerca di significato che noi proponiamo.
Negli ultimi anni a Milano e in Lombardia, più donne che uomini entrano nel mercato del lavoro, sia in quello del lavoro dipendente che in quello autonomo. Per questo parliamo di femminilizzazione del lavoro e la consideriamo una delle più grandi trasformazioni di questi tempi.
Non si ha una idea giusta della femminilizzazione del lavoro se non si considera il fatto che c’è un desiderio femminile di studiare e lavorare non solo per necessità economica né per essere come gli uomini, ma per un autonomo desiderio femminile di una presa sul mondo.
La femminilizzazione del lavoro, a nostro parere, non è prodotta dal mercato ma viene da un’autonoma volontà femminile che ha saputo sfruttare le modificazioni del lavoro in corso. Insomma, non può essere letta solo come un fenomeno di ingresso di una grande quantità di donne nel mercato. Di fatto è una modificazione qualitativa perché le donne portano nel lavoro attese e investimenti differenti da quelli maschili.
Una mancanza grave della nostra cultura politica, economica, giuridica è che non si ascolta la differenza femminile e che, di conseguenza, neanche si capisce tutto quello che hanno di particolare maschile le teorie politiche, economiche, giuridiche. Se non c’è un ascolto preciso in proposito, sia chiaro, questa difficoltà si pone anche a una donna.
Allora, la nostra esperienza ci dice che le donne non si consegnano interamente alla misura del denaro, né a quella della carriera ma portano al mercato tutto, cioè anche la qualità delle relazioni sul posto di lavoro, la risposta degli altri e delle altre alla propria presenza, i risultati qualitativi del proprio lavoro. E la compatibilità dell’impegno di lavoro con le esigenze affettive e familiari. (Non a caso il movimento delle donne si è data la pratica politica del partire da sé e della relazione.) Appare evidente, quindi, che la misura quantitativa tempo-salario è insufficiente così come ogni obiettivo unificante, come ad esempio quello della riduzione generalizzata dell’orario di lavoro che mette in ombra le differenze qualitative.
Oltre la nostra esperienza abbiamo raccolto notizie e dati dal mondo del lavoro, dove risulta in particolare che le donne si collocano di preferenza in luoghi di ricerca, progettazione (anche per la più alta scolarizzazione femminile) piuttosto che di organizzazione e vendite, sebbene i primi siano meno retribuiti dei secondi e meno aperti a ulteriori sviluppi di carriere. Si apre una nuova divisione sessuata del lavoro (che a noi non dispiace), per cui le donne si trovano nei luoghi di maggior sapere e di minor potere.
Da questi comportamenti femminili e da questi atteggiamenti così frequenti nelle donne deriva una superiore capacità di vivere e di concepire il lavoro, più semplice, più relazionale, più rivolto all’essenziale, meno gerarchico.
Se tutto questo resta una caratteristica diffusa ma inespressa, se non diventa base per la teoria del lavoro, capita lo “scippo” del di più femminile da parte del capitale. Oggi si parla infatti, da parte di analisti ed esperti di organizzazione, della necessità di sviluppare “le competenze relazionali, la qualità del lavoro e del rapporto con l’altro (il cliente e il fornitore), la comunicazione, i processi integrati ecc.”. Su questo terreno, essendo no decise a contrastare l’operazione del capitale, che è fonte di sofferenza e laceranti contraddizioni per le donne, ci troviamo anche in conflitto frontale con quegli e quelle interpreti del lavoro femminile che leggono la differenza portata dalle donne in termini deteriori come arrendevolezza, servilismo eccesso di flessibilità. In realtà, queste persone hanno uno schema mentale, e di conseguenza un agire politico ricalcati su modelli maschili. Non s tratta di sostituire il modo femminile al modello maschile, bensì di mettere fine a questa parzialità maschile che è causa di errori teorici e politici L’accusa che certi sindacalisti fanno alle donne di essere poco conflittuali sul lavoro, in realtà è una accusa fatta alle donne stesse di non volersi spogliare della loro differenza per piegarsi ai tradizionali schemi di lotta e di organizzazione, pensati da uomini per gli uomini.
Non c’è infatti solo il conflitto capitale/lavoro, c’è anche il conflitto fra i sessi. Questo conflitto è presente, come ho detto prima, non solo nel modo di concepire il lavoro, ma anche nel modo di confliggere e lottare: le tradizionali organizzazioni sindacali e politiche che i lavoratori si sono date, non attirano le donne. Infatti, il grande aumento delle lavoratrici non ha avuto come conseguenza un proporzionale aumento delle iscrizioni sindacali. Sempre colpa delle donne? Questo non è un ragionare politico.
Alcuni, infine, dicono che volendo tener conto della qualità femminile si sconta il problema che di questa qualità non c’è misura, per cui sarebbe una cosa inafferrabile. Noi diciamo che se questo di più femminile viene preso come misura per il lavoro di donne e uomini (c’è una miseria simbolica nel conflitto capitale/lavoro che umilia anche molti lavoratori maschi, soprattutto giovani), se dunque la differenza femminile diventa misura, la posizione del lavoro precede le offensive del capitale diventando una proposta allettante, significativa, valorizzante per chi lavora. (Teniamo conto che il contesto della classe operaia e del partito, è andato perduto.)
Propongo, a chi si occupa di queste cose, di lavorare con la pratica del partire da sé, cioè a partire dall’esperienza personale di ciascuno e ciascuna e di privilegiare le contraddizioni vissute in prima persona, gli scacchi e le esperienze più difficili perché è in questi vissuti che di solito si nascondono i nodi problematici più vivi e interessanti. Partire da sé, quindi, per non proiettare sugli altri paure e convenienze di ragionamento che non si osa mettere in campo. Chiedo inoltre di rinunciare, per quanto possibile, al gergo specialistico e di nominare le cose sapendo che vi sono esperienze di lavoro, come quello delle donne, che non sono mai state nominate e che nei vecchi nomi vengono deformate o cancellate.