Alessandra Guermandi, Bologna
Avverto un certo disagio rispetto ad alcune prospettive avanzate negli ultimi tempi in Via Dogana, in cui pare che, rispetto ai luoghi di lavoro, accettarne responsabilmente la realtà significhi apportarvi contributi positivi di buon senso e alacre zelo tralasciando lo sforzo di rilevarne, se ce ne fossero, gli eventuali guadagni. Cosí il consigliere comunale di Seveso Lele Galbiati consiglia ai propri dipendenti e alle lettrici e lettori di questa rivista di portarsi direttamente da casa quello che manca sul posto di lavoro (lampadine nuove e pennelli con relative vemici per i muri scrostati), e invita tutti a fare nei posti di lavoro ciò che quotidianamente ciascuno fa a casa propria (Via Dogana 13). Per quanto mi riguarda credo che i servizi pubblici funzionino in base ad una logica che si nutre di “lavoro vivo” in gran parte femminile proprio per conservare intatto l’impianto complessivo del suo apparato burocratico-amministrativo. Se a qualcuno viene in mente di salvarli dovrebbe dire anche come intende modificarne i poteri e le regole del gioco (cfr. Roberta Tatafiore, “L`agire pubblico a partire da sé”, Il Manifesto 12/2/94).
Che esistano contro la tendenza alla delega un’inclinazione alla cura e un senso di responsabilità individuale, una “pratica dell’illegalità” di segno femminile (vedi Donne e aborigeni contro i burosauri, Via Dogana 12 ), è quanto sostiene anche la sociologa Renate Siebert ( … E’ femmina però è bella… Rosenberg & Sellier, Torino 1991), che nello studio di tale apporto ne rileva un aspetto centrale di sostanziale ambivalenza. Se da un lato l’apporto femminile indica la presenza di un “potenziale” politico, dall’altro, preso cosí com’è, esso si rivela del tutto funzionale all’ordine esistente. Poiché però la maggior razionalità ed il miglior funzionamento dei servizi di cui le donne danno prova, ne facilitano certamente:sì l’uso ma non incrementano per ciò stesso il concetto o la pratica della libertà femminile, l’autrice pone la questione: “Dopo aver rintracciato una predisposizione delle donne al cambiamento, un interesse materiale per il funzionamento della sfera pubblica e dei servizi, rimane da indagare un livello piú profondo: quello del desiderio e del piacere”. Come dire: nella “pratica dell’illegalità responsabile” il terzo – l’autorità e la libertà femminili – non è 31 ancora dato. Fra la necessità di stare alla realtà raccogliendone i bisogni e apportandovi migliorie, e ridisegnarne i contorni nella capacità di prospettare mutamenti, c’è un crinale sottile ma anche decisivo per la politica.
Nell’articolo della psicologa Nedda Bonaretti (Via Dogana 13), l’autrice rileva con compiaciuto stupore la coincidenza fra punto di vista delle operaie in esubero e in attesa di “riciclaggio”, e punto di vista di esperti in management aziendale. La concordanza avviene sulle questioni di “ottimizzazione” del lavoro salariato (coinvolgere a pieno se stessi, preoccuparsi del prodotto … ) che sono il fulcro della “qualità totale” (Romiti), del “toyotismo” (Ohno), di quanti perseguono il massimo dell’efficienza produttiva attraverso un coinvolgimento totale di sé (tempo, energie, senso della propria identità) e l’espulsione di ogni residuo di coscienza “altra”. Non solo: è proprio questa “ottimizzazione” del lavoro salariato che ne produce l’eccedenza strutturale, la flessibilità, ovvero la precarietà ed il basso costo. La situazione, se ho ben capito, di quelle operaie. Non solo la psicologa non si accorge che il felice unisono è in realtà un ben sinistro coincidere, ma addirittura lo esalta, come segno premonitore di un futuribile recupero dell’autorità materna “universalmente” distribuita. E qui davvero non capisco: che cos’è l’autorità matema, un bonus universale già quantificato e “coperto” una volta per tutte? Un assegno in bianco, un gigantesco bancomat universale?
Il venire da madre è rischio di invenzione e scommessa per niente universale; è la realtà che cambia che dice la provenienza; il resto per me è solo sterile acquiescenza.
Alessandra Guermandi, Bologna