Nadia Fusini e Liliana Rampello
Autrici di due libri che, in modi diversi, fanno i conti con la difficoltà
di raccontare Virginia Woolf, non semplici biografie ma testi
che si misurano con la scrittura della vita come avventura dell’anima.
A Mantova, nel corso del Festivaletteratura 2006, Nadia Fusini e Liliana Rampello hanno dialogato tra di loro mettendo a confronto i loro percorsi. Abbiamo trascritto questo scambio che vi proponiamo come inusuale testo critico ma anche come testimonianza
della relazione tra due appassionate lettrici.
LILIANA RAMPELLO – Nadia Fusini è anche una traduttrice di Virginia Woolf, della Woolf ci ha restituito finalmente la lingua dei suoi romanzi. Entrambe siamo state sicuramente molto colpite dalla capacità e possibilità che i suoi testi ci davano di entrare in viva relazione con una donna che non abbiamo considerato alle nostre spalle ma in qualche modo capace di camminare ancora accanto a noi, e noi di fianco a lei. Io ho incontrato i testi della Woolf in un percorso stravagante rispetto a quelli tradizionali perché stavo studiando Walter Benjamin quando mi sono imbattuta nei suoi testi. Poi l’ho incontrata ovviamente tra le donne. Nel movimento delle donne la sua presenza – soprattutto per i testi dichiaratamente politici, cioè Una stanza tutta per sé e Le tre ghinee – erano stati ripresi e riletti come momento inaugurale di un pensiero che, più che della differenza femminile, definirei della libertà femminile. Ero molto incuriosita da questi testi ma la lettura dei suoi romanzi, soprattutto nelle traduzione allora esistenti, mi annoiava mortalmente e non capivo come mai si parlasse tanto della scrittrice. In realtà, mi sono appassionata molto prima della Woolf delle lettere, dei diari, dei saggi. Solo dopo aver fatto questo passaggio nella sua opera non narrativa sono riuscita a capire che cosa diavolo aveva fatto nei suoi romanzi. Ovvero come avesse una posizione di libertà che non veniva semplicemente tematizzata nel suo lavoro ma fosse proprio una postura della sua esistenza ed un coraggio, un incredibile coraggio proprio nella capacità di porsi rispetto alla grande tradizione della letteratura inglese che conosceva molto bene. Ho capito che rispetto alla grande avventura del pensiero maschile, che lei ammirava, esprimeva la capacità di “scappare”, deviare, scartare. Con una libertà che, a mio avviso, le ha permesso di inventare un pensiero che non aveva trovato fino a quel momento una voce. In lei c’è la una posizione decisissima e consapevole – ma anche dolorosa – la capacità di essere libera, di rendere se stessa libera. La seconda cosa che mi aveva incuriosito moltissimo – perché è un altro grande tema per chiunque si occupi di letteratura – è il fatto che il suo programma di poetica, il suo programma di lavoro artistico, si poteva riassumere in pochissime frasi da lei spesso ripetute però assolutamente difficili da afferrare. Vale a dire: l’affermazione esplicita di voler “scrivere la vita” e “pensare le cose come sono”. Se noi riflettiamo su queste due frasi, su queste due affermazioni, la questione può apparire quasi banale. In realtà “scrivere la vita” diventa un programma di enorme difficoltà formale perché il problema grande, essendo lei una grande scrittrice, è come si fa ad acchiappare la vita quotidiana, come si fa a tradurre in forma, rendere esattamente e precisamente quella cosa che sfugge, cioè quello che ci sta attraversando e in ogni momento stiamo vivendo e che afferrare è particolarmente ed estremamente complesso. Questo mi ha interessato molto perché non solo è appassionante vedere come lei ha risolto questo problema, ma anche perché implica una fortissima e importante meditazione che in qualche modo la pone in una posizione diversa dalla sua epoca e anche dagli autori della sua epoca. Questo “scrivere la vita” a mio parere attraversa l’intera opera di Virginia Woolf. Non solo il suo diario, apparentemente il registro più facile per scrivere la vita. Non solo le biografie – come si fa a scrivere la vita di un altro, di un’altra? – certamente le lettere. Le lettere sono squarci di vita continuamente riportati attraverso una delle cose che lei adorava, la conversazione. Le sue lettere sono vibranti di conversazione, sono divertentissime, recuperano un’intera epoca, restituiscono il piacere che lei aveva avuto nelle sue giornate, nella sua vita quotidiana. Ancora, ovviamente, “scrivere la vita” è un problema che riguarda i suoi romanzi quindi l’invenzione di una forma e di un linguaggio. Anche “pensare le cose come sono” implica un enorme coraggio, è un’enorme sfida. Che cosa vuol dire “pensare le cose come sono”, visto che il lavoro che fa Virginia Woolf, sia artisticamente sia come grande pensatrice e saggista, non è a mio parere la decostruzione del pensiero degli altri? Negli ultimi anni siamo stati subissati dalle decostruzioni. Lei non decostruisce assolutamente niente, lei si sposta e parla dal luogo in cui ha deciso di mettersi. Ed è in questo gesto che c’è un movimento di libertà, qualcosa attraverso il quale una donna ci fa vedere che c’è bisogno di conoscere e anche di ammirare la cultura, le tradizioni e le loro grandi invenzioni, ma che, per trovare la propria voce, non si può stare chiusi dentro una cultura e una tradizione. Bisogna operare un grande spostamento, uno spostamento che fa sì che lei veda qualcosa che prima non era stato visto. Questo significa allora “pensare le cose come sono”, pensarle a partire da ciò che io sono e non da ciò che gli altri dicono che io posso essere o devo essere. Infine, non mi piaceva, mi muovevo con poco agio, nelle interpretazioni di Virginia Woolf che in gran parte il Novecento ci ha consegnato: una donna malinconica, depressa, con una malinconia che, alla luce del suo suicidio, in qualche modo oscurava l’intera grandezza della sua opera. Opera che io invece avevo letto come quella di un donna che amava la vita e che per questo voleva scriverne. L’opera di una donna che era riuscita comunque a trasformare tutto ciò che le capitava nella forza di una risata, nella forza di uno sberleffo, nella forza di una gioia di vivere continuamente ritrovata. Il mio incontro con Virginia Woolf è stato questo, e nel percorso ovviamente ho incontrato Nadia Fusini, cui sono grata per il regalo che ci ha fatto con le sue traduzioni, e anche con un’interpretazione con cui non sempre concordo. Ma questo fa parte della lettura che liberamente si vuol dare di una grandissima scrittrice.
NADIA FUSINI – Incontro qui per la prima volta Liliana Rampello, ma l’ ho sentita subito amica proprio perché condivideva con me la passione, l’ascolto, l’attenzione e un certo modo dell’attenzione nei confronti appunto di questa scrittrice che anche io amo molto e a cui riconosco delle qualità che sono qualità letterarie. La Woolf certamente non l’abbiamo scoperta noi, sta nel Pantheon dei grandi scrittori del Novecento, però mi pare che anche nel modo in cui la guarda Liliana ci sia un valore in più, c’è un valore aggiunto che è lo stesso che io le riconosco. Siccome insegno letteratura inglese è chiaro che non potevo non incontrare questa scrittrice. Però il mio modo di ascoltarla non è certamente di tipo universitario o accademico: lei mi ha imposto un modo più intimo, non tanto valutativo – di una tecnica, di una capacità, di una abilità. A mio avviso, se si legge con attenzione Virginia Woolf, è lei ad imporre il modo in cui noi dobbiamo ascoltarla. Anche per me l’incontro risale a molto tempo fa ed è continuato nel tempo. Sono stata lettrice fin da ragazzina perché m’erano stati regalati i suoi libri, poi la lettura mi ha in qualche modo chiesto di risponderle ed io non potevo che risponderle scrivendo. In un certo senso è lei che mi ha fatto scrittrice, per rispondere alla sua parola non potevo che ampliare quella risonanza e cercare attraverso la parola, la parola scritta, di mettermi in sintonia con lei. E’ una scrittura quella della Woolf fortemente evocativa e con dei tratti anche profondamente simbolici, nel senso che richiede che a simbolo risponda simbolo, cioè che ci si intoni a lei in una stessa ricerca. Poi forse l’incontro più intimo, più profondo è stato quello di tradurla. Avevo già tradotto altri scrittori e altri poeti, ma tradurre la Woolf è stata davvero un’esperienza di grande intimità. Perché tradurre è entrare un po’ nella testa dell’autore, nel meccanismo creativo della lingua. Non basta conoscere l’inglese per tradurre la Woolf, occorre entrare in quella lingua che lei ha creato. E lei l’ha creata a partire da una lingua che esiste ma scavandoci dentro, facendo accadere in questa lingua qualcosa che non tutti sanno fare accadere. E poi l’ho insegnata, la insegno e davvero ho capito quanto lei possa farsi tramite di una scoperta. Per dei giovani ragazzi e giovani ragazze che l’avvicinano quello che lei scrive, l’esperienza che ci racconta possano diventare modi di pensare a se stessi, alla vita stessa. La Woolf ha una strana capacità di offrirsi come medium per una interrogazione anche sul sé e a mio avviso questo è uno dei motivi profondi per cui è stata una scrittrice così amata dalle donne. Naturalmente per me restano indimenticabili i seminari su di lei che facevamo negli anni Settanta nel “Centro culturale V.Woolf ” di Roma: in quel centro di cultura femminista la Woolf è stata per me veramente un tramite di incontri molto importanti. Ha ragione Liliana di ricordare che c’è un certo volto canonizzato dalla definizione letteraria della Woolf che ho cercato di sfatare: traducendo ho cercato di recuperare tutto l’aspetto sperimentale della sua scrittura, elemento che veniva opacizzato nelle precedenti traduzioni. Non perché fossero fatte male – non è questo il punto – ma c’era un’idea della scrittrice donna, cui si attribuiva una carattere sensibile, sognante, che poi agiva come filtro. Faccio un esempio: se la Woolf in quel meraviglioso romanzo che è Al faro scrive che la signora Ramsey sta con i suoi “children”, veniva tradotto i suoi “piccini”, ma tradurre “figli” è meglio. Ci sono tanti casi di questo genere dove chiaramente una certa idea della scrittura di una donna faceva velo su quello che lei stava facendo sulla lingua, quello che stava inventando. Quindi tradurla per me è stato importante. Una tappa nel mio rapporto con la Woolf è stato certamente questo ultimo libro che ho scritto Possiedo la mia anima, che non definirei una biografia romanzata perché io non invento nulla, è una biografia narrata. Anche qui, ho fatto la scelta di non scrivere una di quelle biografie che vanno bene per gli statisti, per gli uomini d’azione, persone la cui vita si è realizzata in grandi fatti. Per lo più la biografia di uno scrittore, ma in particolare la biografia della Woolf, non registra grandi azioni, gesta clamorose. Quindi quella che racconto è più una vita, intanto che si fa continuamente parola – e anche questo un problema in un certo senso per il biografo – e in più, appunto, una vita interiore. Giustamente, lo ricordava anche Liliana, i Diari sono una miniera fantastica per chi voglia avvicinare la Woolf, non sono scritti in una chiave confessionale o sentimentale: sono la registrazione quotidiana di tutto quello che le passa per il cervello, per il cuore. Come qualcuno che sia sempre sveglio e vigile a registrare la vita. Virginia Woolf è una donna che fa della propria vita, di se stessa, una cavia perché le interessa analizzare l’atto del vivere. Vivere è un verbo, vita è un sostantivo. In realtà lei sente molto più l’aspetto del verbo, cioè dell’azione.
LILIANA RAMPELLO – Hai detto che nel proporre ai tuoi studenti la Woolf trovi una risposta positiva perché in qualche modo i suoi testi permettono a una persona giovane di pensare a se stessa: io penso che questo sia vero perché il suo pensare differentemente da un uomo implica che lei capovolge la gerarchia del verbo stesso “pensare”. Per lei pensare non significa che ci deve essere in prima battuta un “Io” in senso filosofico forte, il Logos, la ragione. Lei mette sempre al primo posto le emozioni e quindi mettendo le emozioni al centro della possibilità di pensare, in un’altra forma, in un altro modo, ci permette di capire che il sentire, questa cosa così grande che è il sentire, non è un po’ di più o un po’ di meno del pensare. E’ un altro modo di pensare, un’altra forma del pensiero. Questo probabilmente nel rapporto vivo tra una persona giovane e il testo permette l’emergere della questione dell’emozione e credo sia una questione centrale.
NADIA FUSINI – Assolutamente, e devo dire che a me personalmente piace molto questo pensiero, a me piace il “pensiero sensibile”, forse perché sono una donna. Sì, penso che questo c’entri. A me che piace anche molto insegnare, insegnare a leggere, intendo, e leggere la Woolf è comprendere come nei suoi romanzi passi l’aspetto del pensiero. Io amo i libri, amo la letteratura non come intrattenimento. Leggere non mi serve a divertirmi, mi serve a svegliarmi. Devo trovare uno scrittore che sia capace di accendere quel tipo di attenzione, quel tipo di sguardo sulla realtà e ho potuto verificare che, quando lo trovo, anche i miei studenti capiscono e seguono. In fondo io penso che tutti, uomini e donne, bambini e vecchi, ricchi e poveri, vogliamo un’esperienza significativa, vogliamo tutti che la nostra vita non sia banale, stupida, ripetitiva, oziosa. E chi ci sollecita in qualche modo a cogliere questo aspetto dell’esperienza, beh! ci fa davvero piacere incontrarlo. Per me è stato sicuramente l’incontro con con Woolf è stato di questo tipo.
LILIANA RAMPELLO – Vorrei fare un altro esempio: nella Signora Dalloway la Woolf mette in scena una donna comune. Si tratta di una signora che dà una festa, come si può cercare lì la famosa avventura dell’ Io?Pensate a come Balzac chiude meravigliosamente Papà Goriot: Rastignac guarda Parigi e dice “e ora, a noi due”. Per quanto ne so, questo si trova difficilmente in un romanzo scritto da una donna: non c’è nessun eroismo, nessuna protagonista che si fa eroe della propria vita. Ci sono piuttosto protagoniste che conoscono l’etica della vita quotidiana. Il fatto che siano donne, e che siano donne comuni che fanno cose comuni, consente loro, per via, appunto, di quella centralità del sentire come forma diversa del pensiero, di farci accedere all’idea che il miracolo della vita sta nella sua quotidianità, che non è da cercare altrove. Non è che la Woolf ignori che c’è sempre un altro e un oltre, ma questo lei lo riporta, lo lega, ne fa carne dei suoi personaggi. Allora, di nuovo: non è un caso che sia una donna a dirlo, a farlo, e a proporlo come arte.
NADIA FUSINI – Pensate a uno scrittore sperimentale come Joyce: anche lui fa quest’operazione di raccontarci la vita assolutamente quotidiana di un personaggio che lui chiama l’uomo medio sensuale cioè Bloom. E poi c’è Stephen, cioè l’intellettuale: due personaggi, le due metà dell’uomo “intero”. Si incontrano, passeggiano per Dublino. Cosa deve fare Joyce per costruire il senso che pensa di dover dare a tutto questo? Ci mette dietro Ulisse, in modo che l’insignificanza venga per così dire elevata e inserita in un codice di significati altissimo: allora noi dobbiamo capire a un certo che Stephen è Telemaco, Bloom è Ulisse: così tutta la struttura acquista significato. Perché, come disse T.S. Elliot, c’è l’ordine del mito che lo sostiene. La Woolf ci da una donna comune, una donna che fa una festa, anche qui le unità di luogo di tempo e di azione sono perfettamente rispettate – e non è che non ci siano all’interno del testo dei forti richiami mitici, anche se bisogna veramente cercarli tanto sono nascosti. Se lei non si serve di un richiamo esplicito al mito è perché in fondo non ha un’idea gerarchica dei significati. Lei davvero si apre alla vita come se fosse una grande avventura anonima, che riguarda tutti. Ora, questo è un grande tema letterario, molti scrittori in qualche modo sentono che il grande compito, il dovere di uno scrittore è dare vita, è dare parola a chi non ce l’ha. Ecco, Virginia Woolf lo fa, tenta di farlo veramente: dare parola a chi non ha parola, a chi non ha lasciato tracce e in particolare a chi non ha lasciato tracce di parola.
Nadia Fusini
Possiedo la mia anima
Il segreto di Virginia Woolf
Mondatori, 2006
347 pagine, 17 euro
Liliana Rampello
Il canto del mondo reale
Virginia Woolf, la vita
nella scrittura
Il saggiatore, 2005
224 pagine, 16,50 euro